
A HORSE WITH NO NAME
di Fulvio Filoni
Nella sua pandina rossa, alle 3.00 del mattino, i finestrini chiusi, il riscaldamento alto e il simbolo del ghiaccio acceso sul pannello di controllo, vista la temperatura esterna di meno tre gradi, a Luigi sembrava quasi di viaggiare su cuscinetti d’aria, tanto era privo d’asperità il manto stradale. Il tepore interno nell’abitacolo gli faceva venire una specie di leggero torpore (non si era mai addormentato alla guida, nemmeno in condizioni “estreme”, come il rientro dopo una notte insonne fatta di musica e bagordi, la mattina di Capodanno, in preda a un gelo selvaggio che gli faceva socchiudere gli occhi. In quel caso si era addormentato, sì, ma soltanto dopo aver parcheggiato, sotto casa sua, rischiando un assideramento). Di solito in questo tratto, da solo, di notte, con la radio sintonizzata su una frequenza che trasmetteva Rock “vero”, quello duro e selvaggio degli anni ’70 e di una parte degli ’80, aveva l’adrenalina che lo teneva perfettamente sveglio e concentrato. Ma stanotte la storia era diversa.
La radio stava passando Highway to Hell degli AC/DC, un classicone. Ma le note graffianti e i colpi secchi di batteria, stavolta, non riuscivano a passargli la giusta dose di ormoni da maschiaccio “on the road”. Di solito, in queste occasioni, percepiva se stesso come un lupo. “Lupo”, appellativo col quale lo aveva chiamato per la prima volta Ilaria, la sua ormai ex ragazza, una tipa formosa e fatale, sul genere di Betty Page, ma con i muscoli e la risolutezza del Tenente Ellen Ripley. E invece stanotte si sentiva più come un cagnolone anelante un posto sul plaid sul divano del salotto, che come un lupo pronto a balzare sulla preda. Forse da troppo tempo ormai, non c’era in giro l’odore di una degna di questo nome. L’olfatto del predatore è una questione di allenamento, oltre che di istinto. Cercando di dare una smossa a quella nottata, cambiò stazione radio, sintonizzandosi su un canale che trasmetteva Jazz e Blues soft, musica rilassante insomma. Ottenne però l’effetto contrario: l’atmosfera onirica di quel viaggio notturno, in questo modo, risultava essere molto più marcata. Gli venne in mente il personaggio interpretato da Robert De Niro in Bronx: un conducente di autobus italiano, che frastornava tutta l’utenza con la sua radiolina a transistor gracchiante motivi Jazz “freddi”.
Ma questo jazz era caldo ed era quasi un blues, era avvolgente come la nebbia che stava aumentando sulle distese erbose, ai lati della strada. La Panda ondeggiava sul manto stradale, come una Jeep su grandi dune del deserto… “…in bagno? In caldobagno!” recitava la vecchia pubblicità di uno scaldabagno, in cui un uomo tuffandosi nella sua vasca, si ritrovava immerso in un caldo mare caraibico. Che voglia di immergersi in un bagno caldo, notturno, con i suoni sporadici e ovattati che provengono dalla strada lontana e nessun altro rumore. Niente oltre al vapore e alla luce fioca e gialla, calda, dell’applique. Niente oltre alla strada silenziosa, deserta e alla nebbia che stava diventando densa e lattiginosa. Gli America, intanto, deliziavano l’etere con la loro A horse with no name.
In the desert you can’t remember your name,
‘cause there ain’t no one for to give you no pain
A un tratto si rese conto che il suo torpore e i suoi pensieri stavano diventando pericolosamente confortevoli. Un sotterraneo e inaspettato senso di paura, entrò rumorosamente nella mente come un sasso attraverso una finestra, indefinito e (forse) immotivato. Eppure, presente, serpeggiante. Aprì una fessura di finestrino, ma l’aria fredda che entrò in uno sbuffo gli sembrò intollerabile e quindi si affrettò a richiuderlo. Eppure, quella sensazione di paura era stata provvidenziale, perché si avvide proprio all’ultimo secondo di un tronco che invadeva parte della carreggiata, seminascosto dalla bruma e riuscì ad evitarlo con un fulmineo scarto laterale. Il lupo. “C’è mancato poco” – pensò. E a quella velocità c’era mancato poco davvero. Un metro in più di “assenza” sensoriale e adesso sarebbe incastrato nella macchina ribaltata, magari ferito in modo grave, da solo, in un tratto di strada frequentato da una macchina o due a notte. Bella prospettiva. Intanto il blues prometteva calde atmosfere, stazioni radio notturne (Fog, di John Carpenter), tazze fumanti in mezzo a fogli sparpagliati con le scalette e gli ordini di lavoro… (In diretta nel vento dei Pooh)
Sentì il rumore, quasi impercettibile.
Una specie di fruscio, di strappo, che si sentiva ogni volta che la ruota completava il suo giro. Ma la tenuta di strada c’era. Non aveva bucato. Forse qualcosa rimasto attaccato alla ruota che, se non rimosso, avrebbe potuto comunque danneggiare il copertone e costringerlo a una sosta di fortuna nel mezzo della notte. Conveniva accostare in un punto sicuro e controllare la situazione, prevenendo il danno. Intanto la nebbia si stava facendo più rarefatta. Dopo un paio di chilometri ecco apparire il punto adatto. Una rientranza abbastanza ampia, una specie di piazzola di sosta che, stranamente, non aveva mai notato percorrendo quel tratto a velocità sostenuta. Rallentò, si fermò e spense il motore. Anche la radio, naturalmente, si spense, ma un attimo prima che si spegnesse il motore. Il cervello registrò il singolare particolare, che fu subito archiviato nel reparto dei “che strano – ci penserò più tardi – lo dimenticherò immediatamente”.
Uscì dalla macchina dopo aver indossato il pesante zuccotto, aspettandosi di essere lambito e divorato dalle fiere fauci del gelo. Ma l’aria si era fatta stranamente tiepida per quel periodo (terremoto in arrivo?), come se la nebbia, ritirandosi, si fosse portata via con la vecchia scopa di saggina di una strega, cumuli di aria fredda, nascondendoli sotto il tappeto dell’inverno. La ruota sembrava intatta, la esaminò per qualche secondo. Rientrò in macchina, riaccese il motore e fece fare un quarto di giro alle ruote; quindi, scese di nuovo per controllare la parte libera del copertone, quella che prima poggiava sull’asfalto. Niente. Restò per un minuto buono così, imbambolato, cercando di ragionare sul rumore che aveva sentito mentre guidava. Forse nell’ultimo tratto di strada la “cosa” attaccata alla ruota si era semplicemente staccata da sola. In effetti il rumore era come di qualcosa appiccicato alla ruota. Una specie di fruscio.
Una mano carezzò, frusciando, la seta di un’antica imbottitura.
La sua concentrazione era come assopita e incantata dal baluginio lontanissimo della luce lunare, persa dietro un orizzonte nero e frastagliato, come cartoncino ritagliato a fare da fondale in una recita scolastica, illuminato da dietro da una fredda lampadina gialla. L’aria era decisamente calda e quasi si sentivano i profumi (o il loro fantasma, risorto da un ricordo olfattivo) che dovevano essere i prodromi di una primavera che era ancora lontana da venire.
All’improvviso la radio si accese da sola, sintonizzandosi di nuovo sulla stazione di musica Rock. The Knack singhiozzavano: Ooh you make my motor run, my motor run a un volume così alto che gli fecero fare un balzo e uno scatto all’indietro con la testa, come quando si annusa da vicino l’alcol denaturato. Gli sembrò di essere stato colpito da un lampo, ma erano i fari in lontananza di un camper che stava sopraggiungendo proprio verso la piazzola di sosta, in quel preciso momento, come fosse stato evocato dalla canzone stessa. Adrenalina a mille. Lupo. Dopo un attimo di sbigottimento, Luigi si affrettò a entrare in macchina e spegnere di nuovo la radio, con un gesto nervoso. My Sharona, per ora, poteva anche andare a fare in culo. Il camper, un grosso veicolo bianco con anacronistiche tendine a fantasie di fiori stilizzati molto anni ’70 ai finestrini, rallentò e frenò dolcemente disegnando un’ellisse e posizionandosi subito dietro alla Panda. Qualcosa di familiare, una musica molto ovattata e stranamente “lontana”, proveniva dalla radio del camper. Era proprio My Sharona, che Luigi aveva interrotto pochi istanti prima nella sua radio. Il parabrezza del camper era leggermente oscurato, per cui non si riusciva a vedere chi ci fosse alla guida. Ma la sensazione che stava provando ora aveva dell’imponderabile: era come se l’apparizione di quel camper e il fatto che il conducente stesse per aprire lo sportello e scendere da un momento all’altro, gli trasmettesse il sollievo e la calma che si potrebbe provare di notte, in una situazione spiacevole, ad essere raggiunti da una persona cara o da un amico o un conoscente molto familiare.
E l’uomo scese. Una mitica apparizione. Luigi pensò subito che quell’uomo sembrava uscito da un portale aperto nel mezzo degli anni ’70, dal centro America di allora, direttamente su una strada nei pressi di Capena, ai giorni nostri. L’uomo era imponente, sarà stato alto più di due metri. Capelli lunghi, corvini, legati sulla fronte da una fascia rosso cremisi. Una camicia bianca, semplice, aperta sul petto a mostrare un torace possente, non eccessivamente villoso. Le maniche arrotolate all’avambraccio, (la temperatura esterna di meno tre gradi) la pelle olivastra, molto abbronzata, eppure stranamente cinerea. Jeans tenuti su da una pesante cintura borchiata e stivali al polpaccio. Un nativo americano! Questa era l’impressione che dava. Si mosse calmo e deciso. Il volto spigoloso, ma solcato da un sorriso amichevole, sovrastato da due occhi fermi e penetranti.
“Buona notte. Cosa è successo? Sei rimasto in panne?” – disse l’uomo, pronunciando le parole in un modo molto particolare: erano lente, ben scandite, anzi nettamente separate, come le frasi pronunciate dai simulatori digitali dei traduttori. Però il tono era caldo, sereno e rassicurante. E quello strano saluto… “Buona notte”…
“No, ho solo sentito un rumore strano alla ruota, sono sceso per controllare ma sembra tutto a posto. Credevo di aver bucato. Ma grazie per l’interessamento.” – rispose Luigi. Ma non aveva neanche finito di pronunciare l’ultima parola, che già “l’indiano” si era inginocchiato accanto alla ruota e la stava esaminando, tastandola con le nerborute mani. Mentre rifletteva sul particolare (al quale non riusciva a dare un ordine di importanza) di non aver detto all’indiano quale fosse la ruota che aveva un problema, anche se quest’ultimo si era messo a controllare proprio la ruota giusta, notò che nell’abitacolo del camper, al posto di guida, c’era un’altra figura, che non aveva notato prima. Era una donna dai lunghissimi capelli d’argento, bianchissimi, eppure i tratti del suo volto erano quelli di una ragazza molto giovane. Avrà avuto non più di venticinque anni. Eppure… Ebbe per un momento la sgradevole sensazione che la donna, vista la sua fissità e assoluta immobile inespressività, fosse un feticcio di legno poggiato sul sedile, come quelle sagome usate in passato nei film per riempire le scene di massa, ad esempio in uno stadio. O, peggio, come uno di quegli idoli voodoo antropomorfi piazzati in mezzo alla foresta, che servivano da punti di osservazione all’antagonista di James Bond nel film 007, Vivi e lascia morire.
“Guarda, ecco il problema: è un chiodo, lo vedi?” – lo fece sobbalzare con la sua voce profonda e cadenzata quella specie di Tiger Jack, che aveva pronunciato la frase col piglio di un perentorio richiamo all’attenzione. Luigi si avvicinò per esaminare la ruota ed effettivamente c’era un chiodo ricurvo, piantato lateralmente, in profondità, quasi sul bordo del cerchione. Non lo aveva notato prima. Eppure, era sicuro di aver guardato bene. Ma i suoi pensieri ora si stavano facendo meno lucidi, perché un freddo terribile lo aveva colto all’improvviso, come quando ci si sveglia sudati e infreddoliti nel cuore della notte. La nebbia si stava addensando di nuovo, serpeggiando tra le sterpaglie umide.
“Sali sul camper, di dietro. Fa troppo freddo adesso. La notte diventa sempre più fredda. Qui faccio io.” – gli disse la montagna umana con un tono caldo e amichevole che, però, non ammetteva repliche o rifiuti.
E Luigi, fidandosi ciecamente dell’ordine dell’uomo, andò verso il camper.
Non gli venne in mente nemmeno di chiedere all’indiano come avrebbe fatto a riparare la ruota, ad estrarre il chiodo, a trovare gli attrezzi nel bagagliaio, che giacevano sparsi sotto una serie di scatole e oggetti buttati dentro alla rinfusa (una volta, per cambiare una ruota, dovette svuotare completamente il bagagliaio, seminando tutti gli oggetti sul lato della carreggiata, tra i clacson e gli insulti degli altri automobilisti che sopraggiungevano senza essere avvertiti per tempo dal triangolo… che lui non trovava mai…). Non pensò nemmeno a ringraziarlo. Voleva soltanto smettere di sentire così freddo. Andò verso il retro del camper, passando accanto allo spaventapasseri seduto al posto del passeggero, che lo seguiva unicamente con un movimento degli occhi, senza spostare di un millimetro la testa. Il freddo si era fatto insostenibile e Luigi non vedeva l’ora di ripararsi all’interno del veicolo. La sua mente era quasi obnubilata dal gelo che gli era penetrato in brevissimo tempo nelle ossa, facendolo tremare miseramente come un budino schiaffeggiato. Il pensiero gli fece venire da ridere per un attimo.
L’indiano, curvo sulla ruota, sorrise da solo.
Giunto davanti al portellone laterale, prima che potesse azionare la maniglia, uno scatto secco la sbloccò e la portiera scorrevole si spalancò, come le fauci della balena su Pinocchio. Una mano calda strinse la sua e lo aiutò a salire. Ormai neanche le giunture delle ginocchia rispondevano, per l’immane gelo che si era impadronito di lui. Pochi metri, dalla sua macchina a quelle fauci metalliche accoglienti, eppure gli sembrava di aver camminato per ore in mezzo a una tempesta di neve. Potevano essere trascorsi pochi secondi, così come diverse ore. Appena fu dentro, la portiera scorrevole si richiuse.
L’impressione immediata fu di una tana accogliente, morbida, calda e un po’ eccentrica. Il posto dove dormivano i vichinghi, nelle loro cucce laterali di una grande capanna che sviluppava in lunghezza, su pelli e tappeti. L’interno del camper era molto più spazioso di come apparisse dall’esterno, come se un gioco di specchi e di ombre ne amplificasse la larghezza e la lunghezza. Ai due lati, due file di sedili che si fronteggiavano (cucce dei vichinghi), lasciando comunque molto spazio al centro del camper e poggiati sui sedili e nella parete di fondo, una serie di grandi cuscini “pelosi”. Dall’alto dell’abitacolo morbide ma pesanti tende scendevano sulle pareti, coprendo interamente la vista all’esterno, sovrapponendosi alle tendine applicate su ogni finestrino. Non c’era traccia di cucine né di posti letto. Stranamente, quella camera su ruote, era semplicemente un mezzo di trasporto, ma arredato come un’alcova. In terra una serie di morbidissimi tappeti sovrapposti e sfalsati. La luce era bassa, calda e morbida, sui toni del rosso e del violaceo. Luigi notò tutti questi particolari in un colpo d’occhio, poi la sua attenzione fu catturata (ed è un termine perfettamente confacente alla fascinazione che gli occupanti del camper esercitarono immediatamente su di lui) da un uomo e due donne che, a loro volta lo stavano osservando. La mano che lo aveva aiutato a salire era quella di una delle due ragazze, alta, magra, pelle color caffellatte, riccioli crespi e castani, un lungo collo alla Modigliani, abbracciato da una serie di collane fatte di pietre e gemme. Le lunghe braccia scoperte, una canottiera stretta che lasciava poco all’immaginazione e dei calzoni neri a zampa d’elefante, come nell’iconografia di un personaggio del musical Hair. Sorrideva.
La ragazza che sedeva in fondo, non sulla fila di sedili, ma sui tappeti, era completamente diversa: pelle bianchissima, corpo morbido e pieno, quasi una modella curvy, capelli nerissimi a caschetto, lisci e dritti (“Amore, lo sai che somigli a Betty Page? Ma tu sei anche muscolosa”), occhi neri e profondi, bistrati e una bocca lievemente atteggiata a bacio (donna fatale) sottolineata da un rossetto rosso garofano. Lo guardava seria ma con un’aria di impercettibile compiacimento. Preda e predatrice. Per il resto, a differenza della ragazza caffellatte, era vestita in maniera abbastanza sobria: una camicia molto leggera, beige e dei pantaloni bianchi, al polpaccio. Un particolare lo colpì e (senza riuscire a darsene una ragione plausibile) lo eccitò: la ragazza aveva un collarino nero, con un piccolo pendente argentato, che le fasciava il collo d’alabastro. Gli si presentò alla mente un’immagine fulminea: se stesso, seduto su un trono marmoreo, che teneva al guinzaglio la ragazza, accucciata ai suoi piedi… la ragazza sorrise, come se avesse captato precisamente quel pensiero, che pure durò un millisecondo.
L’indiano, curvo sulla ruota, sorrise da solo.
Luigi, istintivamente e senza essere stato invitato a farlo, si tolse scarpe e calzini: i morbidi tappeti di pelo permettevano di stare comodamente scalzi senza sentire minimamente il freddo. La terza figura presente nell’abitacolo del camper era un uomo. Era girato di spalle, stava perfettamente immobile e, se non ci fossero state le pesanti tendine che ostruivano completamente la vista all’esterno, avrebbe potuto dare l’impressione di stare ad osservare qualcosa, una cosa lontana oltre le pareti del camper. Non si era voltato nel sentire il portellone aprirsi e richiudersi, ma si voltò nell’istante in cui Luigi lo notò, come fosse stato “rianimato” in quel preciso momento, da quel pensiero e da quello sguardo. Luigi restò di sasso: l’uomo era la copia perfetta dell’indiano che stava armeggiando con la ruota della sua Panda, di fuori (la temperatura esterna di meno tre gradi), tranne che per l’altezza. Il “clone”, infatti, era molto più basso. Poteva essere alto un metro e settantacinque, non di più. Ma, per il resto, era identico al gemello e anche lui accolse Luigi con un sorriso bonario e amichevole, facendo un passo per venirgli incontro. In realtà (ma questa cosa, il cervello di Luigi, non la registrò. Passò impalpabile nelle trame troppo larghe del setaccio della sua coscienza e andò a dissolversi come particelle di sabbia) l’uomo si avvicinò come trascinato lievemente da un rullo trasportatore. E parlò.
“Rilassati, mettiti comodo. Mio fratello sa cosa fare e tra poco potrai tornare sicuro alla tua macchina. Qui non c’è fretta. Qui non c’è freddo né paura.”
In the desert you can’t remember your name,
‘cause there ain’t no one for to give you no pain
Luigi non riuscì a rispondere nulla. Si sentiva di nuovo avvinto da un denso torpore. I pensieri erano rallentati, come se dovessero percorrere degli eoni per arrivare al presente, dalle profondità abissali della mente. Ed era tutto così rassicurante e familiare. La ragazza con il collarino (Ma sei tu, Ilaria? Sei proprio tu?) gli stava accanto e gli porse una coppa fumante, posandogli una mano sulla spalla. La nebbia intanto stava penetrando da tutte le intercapedini dell’abitacolo, ricoprendo pesantemente il pavimento, arrivandogli fino alle caviglie. Anche la nebbia era tiepida e confortevole, dava la piacevole sensazione di stare coi piedi immersi in un caldo, basso mare caraibico. Caffellatte lo fece sedere su un morbidissimo cuscino di pelo, facendogli un cenno con la scura mano affusolata, dalle dita lunghissime e un po’ ossute. Particolare che non aveva notato quando la ragazza lo aveva aiutato a salire sul camper. Non aveva importanza. Il tempo si era dilatato oltremodo e le luci soffuse nell’abitacolo si erano fatte un po’ più basse e più calde, sui toni del viola scuro. La nebbia adesso era un tappeto cremisi. La musica, qualcosa di indefinito e lontano (Louisiana Blues, della Climax Chicago Blues Band) scaricava i suoi bassi facendoli vibrare come dalle profondità marine, lontani e attutiti dall’abisso.
Ilaria, dalla lattiginosa pelle, si era accucciata ai suoi piedi e lo guardava, il viso all’insù, fatale e sorniona, come un felino che anela al calore umano. Lui sentì, in un momento di breve lucidità sensoriale, di stringere qualcosa nella mano sinistra. Un guinzaglio di pelle nera, con piccole gemme azzurre e oro incastonate. Quando era apparso nella sua mano? Da dove? Non pensare. Senza un particolare motivo, rispondendo a un imperativo subitaneo della propria mente, Luigi diede un leggero ma deciso strattone al guinzaglio.
La fiera ai suoi piedi emise un basso e profondo ruggito di piacere.
Caffellatte, che nel frattempo si era accucciata alle sue spalle, cingendogli i fianchi con le nerborute cosce, sfiorò la sua mano destra con la propria, invitandolo a portare il calice alla bocca. Non c’era più traccia del gemello dell’indiano. Ma Luigi ora non era più in grado di rendersene conto. Portò la coppa alle labbra e bevve un lungo sorso di una bevanda calda, dolcissima e speziata che gli ricordava…
“questo sapore, dove…”
“dammi il miele Ilaria…”
Lo spazio all’interno del camper parve dilatarsi ulteriormente, le pareti lontane tra loro e impalpabili, sfumate nelle scure ombre violacee. Gli parve di vedere, gli occhi socchiusi dalla stanchezza, le sagome del gigante indiano e del suo gemello stagliarsi sul fondo dell’abitacolo, ma erano ombre nell’ombra. Ne facevano parte. Erano macchie antiche di qualcosa che non c’è stato modo di cancellare. Ricordi di qualcosa che è passato eppure è pronto a rinascere.
“Bevi ancora” – Ilaria pelle d’alabastro, con voce imperiosa eppure dolcissima, bianca e cristallina.
Un’altra sorsata. I bassi della musica sotterranea fusi con i battiti del cuore, pulsare di vene. Le onde sonore che spingono i bassi che spingono il sangue che spinge nel cuore. Sapore dolce, caldo, speziato, miele e pepe. “Caffellatte” incombeva alle sue spalle, gli ghermiva il torace con le lunghissime braccia, come fosse stata il laccio del suo mantello. Gli occhi completamente bianchi, senza più traccia di pupille. Fece penetrare i suoi aghiformi e sottilissimi canini nella giugulare di Luigi con dolcezza e decisione. Le ombre nel fondo del camper parvero vibrare, attraversate da una scossa di piacere. Ilaria pelle d’alabastro, affondò il morso più in basso, nella piccola safena. La nebbia cremisi esplose nella testa dell’uomo e riempì il mondo. Un fischio sottilissimo, come un rumore bianco, prese il posto delle basse onde sonore.
Bianco. Il mondo è bianco. Una bianca spiaggia. Una bianca barca sulle dune, con le vele strappate e ondeggianti al vento. Uno scheletro bianco sdraiato nella barca. Accarezza un’antica imbottitura bianca. Bianco. Non sente dolore. Non sente più sete. Non è più.
La notte stava quasi per cedere il passo al suo eterno amante solatio. Il camper cominciò a muoversi, lentamente, disegnando un leggero arco per abbandonare la piazzola di sosta e immettersi di nuovo sulla strada di campagna. Al volante una figura fissa, lignea, inespressiva, dall’età indefinita ma dai lunghissimi capelli argentati. Un collarino nero, con un piccolo pendente argentato le fasciava il collo d’alabastro.
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