
APPARENZE
di Raffaele Serafini
Lei lo aspetta, le braccia conserte.
«Vieni a prendermi», invoca il suo sorriso.
***
La casa mostra la sua faccia irregolare alla valle.
Mancano ancora gli infissi, e sotto la carezza dell’imbrunire lo sguardo dell’abitazione assomiglia a quello interrogativo di un cieco, intento a scrutare le luci di Gemona, senza vederle.
Marica percepisce l’oppressione del San Simeone, alle sue spalle. Il monte sembra cominciare con i calcinacci che ingombrano il piccolo cortile, per poi inerpicarsi verso la propria cima, avvolto tra le spire di un sentiero tortuoso e scabro, sul cui muschio si scivola in ogni mese dell’anno, compreso questo torrido agosto. Gli abeti, bianchi e rossi come il nastro annodato alle transenne, intrecciano i rami – aghi negli aghi – calando dall’alto un buio precoce.
Alla ragazza piace osservare la vallata, a quest’ora. Appoggia il sedere proprio sulla sbarra di legno e rimane per lunghi minuti senza fare nulla, spegnendo il cellulare e sorseggiando una birra. Di fronte a lei, un tronco privo di rami divide alla sua vista la città in due, formando con la statale una sorta di croce. La transenna, piazzata da poco, invece di infastidirla, come sta facendo con turisti e curiosi, le dà un senso di protezione.
Prima o poi terminerà anche l’emergenza, pensa, e l’ordinanza scadrà, permettendo di nuovo ai turisti le lunghe passeggiate sui sentieri boscosi. E poi, basterebbe poco per aggirare quell’impedimento, ma a lei piace stare lì, a osservare il sentiero ripido e a farsi rinfrescare dalla brezza, mentre pensa ai lavori fatti e a quelli da fare, in quella che tra poco sarà casa sua e di Gianluca. Casa loro.
Dopo una giornata trascorsa in ufficio, a boccheggiare, il vento fresco sul viso le chiarisce i pensieri, dipanandoli con un soffio sapiente. Ed è proprio grazie alle correnti d’aria, che se ne accorge: se non ne avesse notato la mancanza, in quel punto, non l’avrebbe vista.
La farfalla è davanti ai suoi occhi, immobile.
Il corpo sottile sale in verticale adagiato lungo il tronco, rubandone il colore. Trasparenti, le ali si allungano a destra e a sinistra. I contorni sono quasi indistinguibili: deve sforzarsi per seguirne le linee e percorrerne con l’occhio le estremità. Guardando il panorama, riesce a intuire un lieve tremolio, come se qualcuno lo avesse proiettato su una superficie liquida. Ma nonostante ciò, il mimetismo dell’animale – ruvido e rossiccio sul tronco, invisibile il resto – rasenta la perfezione. Basterebbe distogliere lo sguardo per non ritrovarne più i contorni e lasciarlo sfuggire alla vista. E non è l’invisibilità sfiorata, il solo aspetto che sbalordisce: ci sono le dimensioni. A spanne, si direbbe che la creatura sia grande quanto un lenzuolo matrimoniale.
Giravano delle voci, nelle osterie, ma pensava fosse un’invenzione dei giornali locali, del web… Una bufala insomma, o qualcosa di simile. La versione ufficiale, una presenza di radon da valutare e confermare, le sembrava del tutto più che plausibile. Non avrebbe mai immaginato… E anzi, anche in quel momento crede di sbagliarsi, di avere le traveggole.
D’istinto, fa per allungare una mano.
Prima di arrivare si ferma da sua nonna, come fa di solito.
La casa di famiglia, masticata e sputata dal terremoto, è vuota – l’anziana probabilmente in visita a qualche coetanea, a raccontarsela o bere un taiut.
Non c’è ancora bisogno di chiudere a chiave la porta, da quelle parti, così Marica entra, spingendo senza esitazione la maniglia. Prende i biscotti dalla credenza, getta un’occhiata alla foto dei suoi genitori e aspetta un po’, masticando svogliata e accanendosi sulla vecchia TV, che non vuole sapere di adattarsi al digitale e continua imperterrita a proporre pubblicità astruse e su di giri. Poi, vedendo che la donna non rientra, si dirige alla casa nuova. L’abitazione, all’estremità più alta e meno abitata del borgo, un tempo era una legnaia, prolungamento fisiologico dell’edificio dove si trova ora, nonché dono dell’anziana.
No tu varâs mica di spietâ che mori, le aveva detto pochi mesi prima.
Già… ha ragione, Marica non è più una ragazzina. E poi, quella vecchietta è tutto ciò che le rimane delle sue radici, e non riesce nemmeno a immaginare che la lasci sola. Sì, certo, le colleghe di lavoro, qualche uscita… ma no, sua nonna è di più, e forse per questo ha chiesto a Gianluca di fare quel passo. La ristrutturazione non era poi così impegnativa, i soldi messi da parte c’erano… E Udine, con il suo chiasso e le arie da provinciale imbruttita, non l’ha mai accettata fino in fondo. Sì, certo, saranno stati chilometri in più per andare al lavoro, tempo sputtanato sulla Statale, inseguita dalle attività commerciali che paiono spingersi sempre più a nord, come annegati che annaspano in cerca d’ossigeno. Ma lei e sua nonna diventeranno vicine di casa, e di quel panorama, il profilo del monte Cuarnan, le luci gettate sul pendio, potrà goderne ogni giorno.
La farfalla non dà segno d’essersi spaventata. Non si muove.
Marica ne osserva con attenzione un’ala e sopra quell’’ala ammira la statale, lontana, percorsa da automobili che paiono trascinate dai propri fari. Si avvicina, per guardare meglio questa tenda trasparente, poi abbassa lo sguardo verso l’erba dei prati e la vede oscillare, anche se a scatti. No. Non può essere vero, eppure quel materiale non è trasparente. Quel panorama è un film con piccoli difetti, ma se non sapesse che è dipinto sopra l’ala di un insetto, non se ne accorgerebbe. Percepisce come una vibrazione, una sorta di elettricità. E se fugge? si chiede. No, sarebbe un peccato. Deve aspettare sua nonna, chiamare Gianluca, almeno riuscire a fotografarla…
Ritrae la mano, senza sfiorarla, si aggiusta la frangia castana.
Indietreggia, senza staccare lo sguardo, zoppicando più del solito; cerca il cellulare nelle tasche e si maledice per il modello di scarsa qualità che si ostina a usare. Questa sua ritrosia verso la modernità, questo volere a tutti i costi rimanere ancorata al passato. È una punizione? Ma poi, a che servirebbe? L’animale è una sorta di camaleonte: descrive esattamente ciò che vede e lo proietta sulle proprie ali. Sarebbe la foto di una foto. Anzi, sarebbe come fotografare una videocamera puntata sul paesaggio. Per quanti megapixel ci fossero, in quella definizione, sarebbe inutile.
L’animale è oltre il mimetismo.
«Pronto? Gian?»
«Ciao, che vuoi?!»
«Devi assolutamente venire qui!»
«Ma che dici? E perché parli così piano? T’ho pur detto che sono con gli amici, stasera. C’è la partita!»
«Lo so, lo so, ma devi vedere! C’è una cosa meravigliosa! Una farfalla!»
«E tu mi rompi i coglioni per»
«Ma è una di quelle! Quelle di cui parlano alla TV! Ci sono davvero! Esistono!»
«Sei scema? Non è uno scherzo dei tuoi, vero?»
«Dài! Vieni qua, sono nella casa nuova, ce l’ho davanti al naso! Sarà larga due metri!»
Dall’altra parte cala il silenzio. Marica coglie un pezzo di telecronaca, una parolaccia.
«Okay, arrivo», replica Gianluca, freddo, chiudendo la comunicazione.
Lei rimane con il cellulare all’orecchio, quel tono la paralizza. Si porta l’altra mano alla guancia e la scuote un brivido. Schiaccia lo zigomo con due dita e la fitta che le dà l’ematoma la smuove. Ci vorrà un quarto d’ora, prima che Gianluca la raggiunga. Decide di tornare da sua nonna, sperando che questa meraviglia non scappi. Eppure l’inquietudine, ora, non giunge da quel timore.
Ripensa ai loro discorsi, alla gioia di quegli attimi.
«E alore, i âstu domandât?»
«Sì, gliel’ho chiesto».
«E ce aial dite? Vaiso a stâ insieme?»
«Ha detto di sì!» aveva esclamato Marica, raggiante.
Non avrebbe mai creduto di trovare un fidanzato, figuriamoci uno bello e atletico come Gian, con cui vivere assieme. Mentre lei… Gli ortopedici la definivano zoppìa lieve, non operabile, di natura neurologica. Se n’era fatta una ragione, ma si era accorta che la gente giudica e perseguita anche senza far niente. E in qualche modo allontana.
I suoi genitori, dopo la tragedia del ‘76, si erano trasferiti in Veneto e ci erano rimasti, divorziati e livorosi. Lei era tornata lì, sopra il lago di Cavazzo, trovando prima il lavoro e poi un appartamento in città.
«Ma isal chel just, chest Gianluca? Viôt che no bisugne vê pôre di restâ di bessôi!»
«Di fare cosa, nonna?» aveva chiesto. Non sempre riusciva a comprendere il friulano.
«Di restare soli», si era sentita ripetere.
Poi erano arrivati i lavori di ristrutturazione e aveva ignorato tutto, compreso l’arrivo delle farfalle giganti, avvistate sul monte. Le troupe, i militari, i divieti. Tutte chiacchiere, aveva subito pensato. Non sanno più cosa inventarsi. Poi la storia del radon aveva messo tutti a tacere. Lei, troppo presa dai suoi progetti, percepiva tutto a una certa distanza, benché fosse davanti ai suoi occhi.
Ora quel discorso le torna in mente spesso. Soprattutto dopo il ceffone, arrivato all’improvviso, inaspettato, seguito da una cascata di scuse e balbettamenti. Non ne ricorda nemmeno il motivo. No, forse non è l’uomo giusto, Gianluca, ma è l’unico che ha trovato, che l’ha voluta. E ormai le cose sono così avanti…
«Nonna? Sei tornata?»
Ora che il buio si è addensato nota la luce accesa, in camera. Fa per entrare, ma qualcosa la trattiene proprio davanti alla porta. Un tremolio, una vibrazione che ora conosce… è più l’istinto che la spinge a tornare sui suoi passi e afferrare una scopa per farsi spazio, agitandola in aria. Uno schiocco! Due ali enormi che scattano attorno al manico e glielo strappano di mano, mentre lei lancia un grido e schizza indietro. Sul pavimento è un frullo nervoso, un contorcersi di ali abnormi, grigiomarroni, poi l’animale si ricompone e cammina via, con le ali stropicciate che stira pian piano, ricominciando ad assumere il colore delle piastrelle del muro dove si arrampica… La scopa resta a terra, spezzata. Mio dio… fa in tempo a pensare Marica, registrando il rumore di un’auto, all’esterno.
Scavalca il manico spezzato quasi fosse veleno, entra nella stanza e non capisce subito cosa sta guardando. «Nonna!» chiama. La prima cosa che la colpisce è l’odore, poi nota la poltiglia sul pavimento. Cade in ginocchio e vomita.
Per lunghissimi istanti non riesce a distogliere lo sguardo, fa per alzarsi ma le gambe non la reggono. Quando ce la fa, scappa. Via. Fuori. Piangendo, mentre corre come può.
La crisi di panico la prende sulla soglia, quando sbatte contro il petto di Gianluca.
Boccheggia, travolta dalle convulsioni.
Aiuto, vorrebbe dirgli. Ma lui l’assale: un manrovescio la manda a terra.
«Non c’è nessuna farfalla gigante di là! Stronza! Ma ti diverti a prendermi per il culo?»
Marica lo guarda, gli occhi come biglie. Trema tantissimo, ma lui non vi bada. «Vaffanculo! Devi smetterla con le tue stronzate! Che cazzo ti passa per la testa!?»
È una furia, non le dà il tempo di alzarsi, la solleva afferrandola per i capelli. «Vaffanculo!» ripete con uno strattone, «Tu e quella rincoglionita di tua nonna!»
E Marica non sa come ci riesce, dove trova la forza, ma a quelle parole lo colpisce.
Una ginocchiata, due, feroci, e lui non se l’aspetta; si piega, un mantice che sputa fuori l’aria. Rimane a terra a rantolare mentre lei scappa ancora, barcollando verso la montagna, verso il sentiero, oltre la transenna. Non ragiona più: in testa ha solo quell’immagine nella camera, che via via va comprendendo. E ora non piange solo di dolore. Piange di rabbia, di paura, di solitudine che verrà. Non si accorge del volto in fiamme, dei capelli strappati, della rabbia che trattiene in petto.
Gianluca si riprende in pochi istanti. L’ha vista mentre si infila dentro l’ombra del bosco. Ghigna, è tranquillo. Una zoppa non va lontano, pensa.
«Ti spacco la faccia», grida, prima di andarla a cercare.
Lei lo aspetta, le braccia conserte.
«Vieni a prendermi», gli dice con un sorriso.
È tornata indietro, verso di lui, verso la casa in costruzione, vicino alla bottiglia vuota di birra che aveva scalciato senza nemmeno accorgersene. Si è posizionata qualche metro avanti, dove il sentiero comincia, dietro al tronco, con gli occhi lucidi ma decisi, dietro la farfalla gigantesca che lui non può vedere. Lui la guarda, facendo breccia nella penombra: gli pare sfocata, come se stesse tremando.
«E allora? Vieni a spaccarmi la faccia o no… stronzo!»
La voce non le sembra nemmeno sua, non la riconosce. Non sa dove ha trovato quell’impeto, anche se ha chiaro in testa quello che accadrà, quello che spera accada.
E Gianluca scatta, furibondo, corre, verso di lei, che rimane ferma, impietrita.
Per un attimo sembra sbattere contro un vetro invisibile, poi la farfalla gli si chiude addosso, con una grande sberla di un’ala verso l’altra.
L’animale si accartoccia, lo avviluppa, lo stringe in un fagotto, una sorta di larva gigantesca che perde i colori e si fa grigiomarrone. I piedi e un braccio restano fuori, ma il bozzolo umano si agita, palpita, e presto anche questi vengono inghiottiti. Da dentro quell’orrore Gianluca mugola, si dimena. È forte ma l’animale ha qualche segreto, perché subito Gianluca rallenta i movimenti, si dibatte più lentametne. Le ali non si strappano, la bestia sembra assecondare i movimenti della preda, elastica e mutevole. Un risucchio rumorosissimo sale nel silenzio notturno.
Marica stavolta guarda. Guarda e capisce e piange ancora.
Piange per sua nonna, che ha fatto quella fine. Non per Gianluca, che se la merita.
Non sa per quanto tempo rimane così, sgomenta ed immobile. Non riesce a coniugare l’orrore alla meraviglia. Il pensiero dell’anziana, però, di quel che è rimasto del suo corpo, copre ogni altro, compreso l’orrore che le scorre davanti agli occhi.
La larva smette di agitarsi, il suono scema. Per lunghi istanti c’è solo il suono di una caramella succhiata e masticata. Poi, come un lombrico smisurato, la bestia striscia via, sazia e goffa, sopra i sassi viscidi, nella tenebra della boscaglia.
Si lascia dietro una scia di frammenti ossei e carne maciullata, di brandelli di tessuto. L’i-phone fa capolino da un tasca di jeans, avvolta tra le viscere.
Sul sentiero, prima che il buio lo inghiotta, rimane solo una scarpa sfilacciata e rossa di sangue.
Quando Marica ritrova il coraggio di muoversi è buio pesto.
Si fa strada agitando un bastone nell’aria, aggirando quel che resta di chi non sarà più il suo fidanzato, né il fidanzato di nessun’altra. Zoppica verso casa pensando che, in qualche modo, è stato il suo difetto a salvarla, pensando che è come se avesse ucciso qualcuno; pensando che ora è sola. Si rende conto solo ora di quanto le fanno male le botte che si è presa. Poi entra nella camera di sua nonna.
Sul pavimento sono rimaste solo le pantofole.
L’altra farfalla è ancora in cucina. La individua sulla credenza, sulle ali ammira soprammobili e fotografie di famiglia: genitori e nonni ancora sorridenti, riprodotti con quel lieve tremore. È bellissima, non può negarlo, ma sa che deve agire adesso, vendicarsi, prima di farsi travolgere dalla disperazione, prima di chiamare i soccorsi, di raccontare. Lo sa, ciò che sta facendo è irrazionale. Un animale segue il suo istinto. Ma forse lei non ha appena fatto lo stesso? Sì. Non ha dubbi. Vuole vendetta.
Apre un cassetto e afferra un coltello. Il più grosso che trova.