La Soglia Oscura
Racconti

FREEZING
di Manuel Marinari

Vago tra le tombe di un piccolo, raccolto cimitero. Il cielo è ricoperto da una patina grigia da cui scendono leggeri fiocchi di neve che si depositano sulle tombe in marmo. Nell’aria, un odore pungente di gas metano accompagna i miei piccoli passi. Le lapidi sono così vicine che faccio fatica a comprendere come, là sotto, siano stati sepolti dei corpi. Riposti in un eterno, claustrofobico riposo.
Scorro i polpastrelli sopra una croce di legno, sembra essere stata piantata da poco. La sepoltura non ha pietra tombale, la bara è ricoperta soltanto di terra. E neve, che nasconde il nome del defunto inciso sulla targa. È così triste pensare che si può essere dimenticati in questo modo dopo la morte. Ancora di più se lo si è stati anche da vivi.
I cimiteri somigliano un po’ a dei silenziosi condomini, villaggi di corpi inanimati, dove nessuno è più in grado di fare chiasso. Vivere qua dentro non sarebbe poi così male: non ci sarebbero più i vicini che sparano musica fino a tardi, la sedia trascinata dalla signora al piano di sopra o quel fastidioso bimbetto che strilla dietro la parete che divide il mio monolocale dall’appartamento a fianco.
Non conosco praticamente nessuno nel palazzo dove vivo, al terzo piano di un condominio che regge l’anima con i denti, rattoppato con calcestruzzo e tanta speranza. A volte ho l’impressione che basti un colpo di tosse per farlo venire giù.
Con i miei vicini di casa non vado d’accordo, o meglio, li evito. Quando incrocio qualcuno sulle scale il corpo si congela e tutte le articolazioni si bloccano all’istante. È una sensazione davvero orribile e mi accade fin da quando ero piccola. Le bambine mi prendevano per mano e mi immobilizzavo.
Una statua di ghiaccio.
Mi fa venire la pelle d’oca il solo pensiero di sfiorare la pelle di qualcuno, di essere abbracciata. Potrei bloccarmi per diversi minuti, finché il respiro non torna normale e il cuore non riprende a battere a una velocità regolare.
Per una bambina nata da genitori tossicodipendenti, l’affettività è un problema serio. Specialmente se ti hanno trascurata per tutta l’infanzia e la figlia prediletta di mamma e papà non eri tu, ma l’eroina. Non mangiavamo mai a tavola come le famiglie normali, ma seduti a terra o su un divano fetido. Il tavolo di cucina era sempre apparecchiata con tazzine di caffè colme di cenere e mozziconi di sigarette spenti, piatti incrostati di sugo, macchie di unto e chissà quali schifezze e germi infestavano la nostra casa.
Anche a scuola è stato tutto molto difficile. Luba, una bambina ucraina, si è seduta al banco accanto al mio per i primi mesi di scuola. Appena arrivata non spiccicava una parola di italiano. Non ci dicevamo mai nulla e tutto filava liscio. Sarebbe potuta diventare la mia migliore amica.
I problemi sono arrivati quando ha imparato a dare il buongiorno, sorridendo con i denti incastonati nell’apparecchio e quel buffo neo sotto il mento. Ricordo ancora la sensazione che provavo quando Luba si sedeva al mio fianco, la reazione involontaria del mio corpo: mani fredde come ghiaccioli, paralizzata sulla sedia, le gambe sotto il banco due blocchi di marmo.
Andavo in stato di freezing, come direbbe la psicologa.
Per un periodo, Luba, mi faceva trovare sul banco un cioccolatino al latte dall’incarto rosso, a forma di cuore. E un bigliettino con scritto Matilda mi amika. Non ha mai imparato a pronunciare bene il mio nome.
Immagino che non fu semplice per lei, una ragazzina volenterosa di integrarsi in un paese nuovo, non poter interagire con la compagna di banco. Probabilmente si stufò di un’amicizia a senso unico, così trovò un altro posto dove sedersi e smise di portare i cioccolatini. Finita la scuola non ci siamo mai più viste.
La sensazione di disagio scompare quando incrocio le persone nel cimitero che camminano nel vialetto innevato, tra le lapidi, in un rispettoso silenzio. Mi avvicino e prego con loro, anche se non sono mai stata credente.
Il cimitero mi sembra un luogo di riconnessione, di incontro. In qualche modo si ritrova il legame spezzato. Si dice che qui i morti riposano in pace, ma credo sia più un posto pensato per i vivi. Per lasciare il peso, lenire il lutto e ritrovare un po’ di sollievo.
La neve continua a cadere e il cielo si scurisce. Le lapidi iniziano a fondersi col buio, sagome indistinguibili come i morti sotto terra.
L’odore acre di gas metano sembra non volersi dissolvere.
Non ancora.
Un piccolo lampione si accende, emana una luce calda, arancione. Illumina l’ingresso. Il custode ha finito di svuotare i cestini pieni di fiori appassiti. Fa suonare la sirena delle sette, adesso deve fare il giro di ricognizione, per assicurarsi che nessuno rimanga chiuso qua dentro.
Un uomo dai capelli bianchi, di fronte ad alcune tombe murate a parete, appoggia le dita sulle labbra screpolate dal freddo. Sfiora la fotografia su una lapide, in bianco e nero, il ritratto sbiadito di una bambina con i capelli a caschetto. Ha gli occhi lucidi e ancora lacrime da versare sulla tomba della bambina. Forse, sua figlia.
Quasi mi verrebbe voglia di infilarmi là dentro insieme a lei e abbracciare le sue ossicine. Le vorrei dire che suo papà è qui, passa a trovarla tutti i giorno. Le vuole bene. Chissà come si sentirebbe, stretta tra le braccia di qualcuno…
Il custode raggiunge il padre della bimba defunta. Si salutano con un triste, abitudinario sorriso. Un cenno con la testa, è tempo di uscire. Poi chiude il cancello, lo fa in silenzio, come per non disturbare i sogni dei morti.
Non si cura della mia presenza e mi costringe a passare un’altra notte qua dentro.
Sono abituata, ormai, a essere ignorata. E a passeggiare tra i corridoi del cimitero, le lapidi, a leggere i tanti nomi e cognomi e date di nascita e di morte.
Mi sembra di conoscere le storie di queste persone, un tempo vive, come me.
Il silenzio tombale di questo posto mi trasmette una pace che non avevo mai provato prima. Viene interrotto soltanto da un piccolo roditore che squittisce e saltella tra le tombe. Un corvo, nascosto tra i rami spogli di un albero, mi fissa per un attimo, ha gli occhi nerissimi. Poi si lancia in picchiata, plana velocemente sopra le lapidi e si fionda sulla preda. Il topolino è stretto tra gli artigli del corvo che può riprendere il volo e andare a sfamarsi, appollaiato sui rami. La neve rimane intrisa di sangue, ma altra ne cadrà sopra stanotte e coprirà i segni, nascondendo ogni segno del suo passaggio.
Deve essere così, morire, quando si è soli. Ce ne andiamo, senza lasciare traccia.

Il cielo si è rifatto grigio. La luce del sole non riesce a filtrare, lo copre una fitta nebbiolina. L’odore di zolfo, come di un fornello dimenticato aperto, persiste.
Mi siedo a terra, la schiena appoggiata a una lapide. Di fronte a me la tomba con la croce di legno su cui nessuno passa a versare mai una lacrima. È l’unica persona defunta, di questo cimitero, senza fiori, senza qualcuno che la venga a trovare.
Una folata di vento smuove gli alberi, fa cadere la neve depositata sui rami secchi. Il corvo, con la pancia piena del suo ultimo pasto notturno, sembra non temere lo spostamento del suo giaciglio.
Una donna varca il cancello, ha delle prime, impercettibili, rughe sotto gli occhi. Deve avere, più o meno, la mia età. Un cappotto nero la copre fino alle ginocchia, una sciarpa rossa tirata appena sopra il mento. Le punte dei capelli castani spuntano dal cappello di lana.
Si avvicina al custode. «Scusi, cercavo la tomba di una persona, mi può indicare dove si trova…»
Il corvo, gracchia, appollaiato sul ramo. Sbatte le ali, come forza e rapidità.
«Povera donna, che fine triste. È una fortuna che non sia esploso il palazzo. Venga con me, signora. La porto da lei.» Il custode l’accompagna davanti alla tomba dimenticata da tutti. Abbassa lo sguardo e prosegue nel vialetto, le mani dietro la schiena.
Lei rimane sola. Strofina il guanto nero sulla croce con una dolce carezza, materna che farebbe sciogliere tutta la neve caduta fin ora. Si sfila il guanto. Fa scivolare la mano nella tasca da cui tira fuori qualcosa che sistema sulla neve. È un cioccolatino, dall’incarto rosso. A forma di cuore, proprio come quello che Luba mi faceva trovare sul banco.
Si fa il segno della croce, bisbiglia una preghiera.
Che sia… no, non può essere.
Si rialza in piedi e si avvia di fretta verso il cancello. I passi lasciano impronte sulla neve fresca.
Sento uno strano calore, ancora quello strano desiderio di contatto fisico.
Le corro dietro e la vorrei chiamare, ma non conosco il suo nome. Allora grido, dalla bocca esce soltanto un sibilo. Un’altra folata di vento scuote i rami secchi degli alberi, il corvo stavolta spicca il volo.
La donna si blocca, appoggia la mano al cancello e si volta. Ha gli occhi colmi di lacrime. Scuote il capo e si abbassa la sciarpa, ha le guance rosate e… un volto così familiare. «Che stupida, quasi mi è sembrato di sentire la tua voce. Addio Matilde, la mia prima vera amica.»
Uno sguardo, ancora, sulla tomba. Sorride, la dentatura perfetta. Il neo sul mento.
Luba!
Si gira e si incammina verso il cancello. Le corro dietro ma il corvo plana a terra, si apposta al centro dello stretto vialetto, tra me e lei. Non mi lascia passare. Apre le ali e il nero. I suoi occhi sono profondi, vivi. Sembrerebbe quasi che non voglia farmi varcare quel cancello.
Vuole che io rimanga qui.
Luba se n’è andata. Il corvo saltella fino a raggiungere la croce, ci picchietta il becco. Che cosa vuole?
Ripercorro le impronte sulla neve, ci sono solo quelle di Luba. I miei passi, invece, non lasciano impronte, sembrano appoggiare sul suolo come sottili foglie secche, cadute. Passi leggeri, inconsistenti.
Raggiungo la tomba. L’odore di gas adesso si dirada, fino a scomparire.
Mi sdraio sulla neve, lascio cadere la schiena a terra e la tensione nel corpo. Dove Luba ha lasciato il cioccolatino, la neve non è fredda, sembra emanare calore. Una fonte raggiante di amore, affetto, comprensione.
Appoggio le mani sul petto. Sento le palpebre abbassarsi, gli occhi si chiudono. Sprofondo nel sonno eterno, nel buio senza più ritorno. Mi lascio cadere, mi unisco al mio corpo sepolto sotto terra.
Ora non sono più sola.
Il freddo è finito.