
IL PASSEGGERO
di Beatrice Olivieri
È buio … sto scrivendo su di un foglio … credo di non avere ancora molto tempo … è come scrivere un testamento … almeno credo.
Il mio, però, è un po’ diverso: se un domani qualcuno dovesse leggerlo, forse riuscirà a cogliere a pieno il profumo della vita e a conservare ogni attimo profondamente.
È cominciato tutto una settimana fa.
Da diversi giorni accusavo dei dolori al torace, che si irradiavano sino alle spalle. Non erano dolori continui, ma si ripresentavano di tanto in tanto; anche lo stomaco mi dava problemi, con quel senso di nausea che ogni tanto mi assaliva.
Era il mese di dicembre, mancava poco alle feste natalizie e i bollettini medici annunciavano l’ inizio del picco dell’influenza stagionale.
Considerato il periodo, ero tranquilla riguardo il mio stato di salute: sicuramente era una infreddatura, una di quelle forme parainfluenzali lievi e di breve durata. Ero una dipendente di una ditta di pulizie e svolgevo il mio lavoro presso due Istituti Assicurativi. Quando gli impiegati tornavano a casa, cominciava la mia giornata.
A volte arrivavo prima del mio consueto orario di lavoro e incrociavo quegli uomini e donne in tenuta da ufficio. Mi salutavano con noncuranza, quasi con indifferenza, e io ricambiando con un cenno e abbassando lo sguardo mi allontanavo in fretta.
L’invisibilità a volte ha i suoi vantaggi, ma non in questo caso: quel comportamento mi lasciava dell’amaro in bocca.
Non sono sempre stata così innocua e remissiva.
In prigione ho imparato che la libertà è preziosa, che quando entri ti spogli del tuo abito di “uomo libero” ed indossi quello di un numero.
Non amavo le regole sin da bambina, ed ero sempre pronta a trasgredirle. Ho commesso reati cosiddetti minori: furtarelli, qualche lesione personale, spaccio e uso di droghe.
Ora sono fuori con l’obbligo di firma, il lavoro mi ha aiutato a rigare dritto … almeno fino ad oggi.
Uscivo dall’edificio assicurativo sempre quando era buio e correvo per prendere l’ultimo autobus della tratta che passava vicino alla palazzina dove abitavo.
I passeggeri erano pochi e sempre gli stessi con le solite facce stanche e tristi da pendolari frustrati.
Oramai li conoscevo tutti e loro conoscevano me.
Anche l’autista era sempre lo stesso, ma non conoscevo il suo vero nome: sul cartellino sbiadito appeso al bavero della giacca, si intravedeva la scritta “Caro” e a seguire una D, forse l’iniziale del suo cognome. Tutto ciò non aveva importanza, l’unica cosa che mi incuriosiva era il suo silenzio. Non rivolgeva la parola a nessuno.
Cinque giorni fa, era salito sul nostro pullman di ritorno un nuovo passeggero, e non avevo potuto fare a meno di osservare il suo abbigliamento e il suo fare, direi, altezzoso, che stonava con il luogo e la situazione.
Era vestito con un completo nero, camicia viola e cappello nero di feltro. Nella mano destra teneva stretta una ventiquattro ore, anche questa di colore nero.
Si era seduto dietro l’autista.
Ricordo che mi ero girata per vedere la reazione degli altri passeggeri, ma mi ero accorta che ognuno pensava ai fatti propri: c’era chi telefonava, chi ascoltava musica, chi dormiva. Nessuno di loro pareva che lo avesse notato.
Ricordo anche che quella sera faceva molto freddo, un freddo umido che penetrava nelle ossa.
Dal finestrino si vedeva una nebbia lattiginosa, fitta, che rendeva il paesaggio intorno etereo e impalpabile, a tratti raccapricciante. Sembrava di vivere in un’altra dimensione.
I dolori erano ripresi ad intervalli meno lunghi e pensavo di completare la settimana lavorativa, prima di prendere qualche giorno di malattia per riposarmi.
Il medico di famiglia mi avrebbe prescritto la cura giusta per i sintomi che continuavano a tormentarmi.
Ma il tempo non aiutava e quella nebbia implacabile continuava ad avvolgere ogni cosa.
Il nuovo passeggero prendeva spesso il mio stesso pullman e pensavo che anche lui fosse un pendolare come tutti noi.
Per gioco tra me e me l’avevo soprannominato Corvonero.
Due giorni fa avevo notato dei cambiamenti tornando a casa.
Salendo sul pullman , il mio occhio era caduto sul bavero dell’autista ed ero rimasta sorpresa perché il targhettino del nome era in buona parte leggibile. Scorsi il nome “Caron” e poi “Dem”. Inaspettatamente l’autista, per la prima volta si era girato e, con un sorriso sardonico, mi disse: «Buonasera».
Avevo risposto provando un senso di malessere e di disagio: mi pareva di avere la febbre e, sedendomi , avevo provato a calmarmi.
Le sorprese non erano finite, perché Corvonero si era girato verso di me, anche lui sorridendo. Il suo sorriso era diverso, quasi amorevole, ma i suoi occhi erano neri come un pozzo profondo.
Dallo spavento distolsi lo sguardo e piantai il viso contro il vetro del finestrino , fino a quando non giunse la mia fermata.
Ed eccoci ad oggi. Questa mattina mi sono alzata quasi felice, perché i dolori erano del tutto spariti e il mio sonno è stato profondo.
Il viaggio in pullman è stato tranquillo, la mia routine lavorativa anche.
Il percorso di ritorno, invece no.
L’autista si è fermato poco prima della mia fermata; gli altri viaggiatori erano già scesi tutti e siamo rimasti solo io e Corvonero.
L’autista mi ha raggiunta e mi ha chiesto mi il biglietto e io gli ho detto che avevo l’abbonamento mensile. Mi ha chiesto di esibirlo e ho cominciato a rovistare nella borsa. Non era nel portafoglio e non trovandolo mi sono ricordata di averlo lasciato sul tavolo della cucina; l’avevo estratto per controllarne la scadenza, ma poi non lo avevo rimesso nella borsetta.
L’autista, allora, mi ha fatto pagare il biglietto: tre euro solo per il ritorno.
Nel momento in cui consegnavo i soldi, Corvonero si è girato e mi ha detto: « Non temere, non è lontano, è solo dall’altra parte, dietro l’angolo». I suoi occhi ora erano rosso fuoco.
***
Sono ancora qui su questo pullman, sola, confusa, atterrita e con un dolore lancinante al petto. La mia fermata è passata da un pezzo e ho perso la cognizione del tempo.
Fuori la nebbia è sempre più fitta, il paesaggio non si vede più.
L’autobus si sta fermando, nessuno dei due si gira verso di me e sento un bisogno impellente di scendere da questo mezzo infernale.
Raccolgo le mie cose pensando se mi serviranno ancora; passo davanti a Corvonero che mi fa un cenno di saluto con la mano.
Un attimo prima di scendere guardo l’autista e … accidenti! Sul targhettino riesco a leggere il nome completo : “Caronte Demon”.
Sono tranquilla, ho pagato il traghettatore, non ho lasciato debiti in sospeso e …. mi addentro nella nebbia riflettendo sul fatto che la morte ci insegna a non perdere il bene più prezioso che ci è stato concesso: il Tempo.
Vivere il presente, anche se a volte vi è sofferenza, non fuggire dalla vita perché sorella morte è sempre con noi.
Scarabocchio queste ultime righe come mio testamento di un viaggio. L’ultimo.
Lancio il mio foglio a terra … riuscirà qualcuno a leggerlo?