Starleyet

 

Lo chiamavano “Starleyet”, ma io non lo conoscevo ancora. La montagna dove ero nata non aveva mai rivelato nulla di insolito. Nulla, fino all’ultima allarmante telefonata di mia madre che mi aveva costretto a partire.

Adesso ero a casa. Raccolsi la chiave sotto il tappeto della veranda e spinsi con il ginocchio destro il pesante portone della baita. Il pavimento in legno di riciclo scricchiolò sotto le scarpe, come ogni volta che rientravo a casa, da ragazzina.

Mi guardai intorno, riconoscendo ogni mobile della mia infanzia. Quello che mancava era mia madre sulla soglia.

«Mamma, dove sei?» esclamai ad alta voce.

Fissai la desolazione tra le pareti perlinate in legno d’acero della casa montana. La cucina riportava il caos che avevo sentito nella voce di mia madre mentre farneticava al telefono di luci sulla montagna e del suo viaggio per raggiungere mio padre.

Il tavolo era ingombro di cibo e oggetti non riposti a dovere. Eppure, lei detestava il disordine.

Mi avvicinai alla stufa in pellet e accesi il fuoco. Il calore si sparse dissipando, a fatica, il freddo. Le mani infreddolite cominciarono a scaldarsi, avvolgendosi alla tazza fumante della tisana al gelsomino che avevo appena preparato. Nessun altro rumore spezzava il silenzio prodotto dalla neve che ancora cadeva a larghi fiocchi.

Sospirando, mi sedetti, appoggiando la tazza al tavolo di rovere. Odiavo il freddo, la neve e la montagna. Per questo avevo lasciato la valle non appena avevo potuto, approfittando dello studio per fuggire a Roma.

Una luce improvvisa illuminò a giorno i vetri della finestra, poi tornò il buio. Pensavo di aver solo intravisto le luci di un’auto che si allontanava dal sentiero, quando sentii il rumore della serratura che scattava, permettendo alla porta di aprirsi.

Sorrisi al pensiero di rivedere mia madre, ma fui delusa. Davanti a me c’era un bell’uomo di mezza età, lo desumevo dai capelli sale e pepe e dallo sguardo furbo. L’abbigliamento montano, pantaloni di fustagno, camicia di flanella e il pile coordinato non mi permettevano di formulare alcuna ipotesi circa la sua professione. Poteva essere un serial killer come l’ultima conquista di mia madre. La stanchezza per il lungo viaggio in auto che avevo appena compiuto e l’assurdità del momento si mescolarono, rischiando di perdere la mia abituale ironia per il bizzarro momento.

«Lei non è mia madre!» dissi, mantenendo un sorriso cauto.

L’uomo sorrise.

«Ciao Gaia, sono Padre Rock e gestisco la valle. Tua madre mi ha pregato di salutarti da parte sua!».

«E lei dov’è?».

«E’ al rifugio del Pellegrino, insieme agli altri» disse togliendosi i moon boot, coperti di neve.

«Padre, non si scomodi. Mi lasci solo l’indirizzo e la raggiungerò domani».

L’espressione dell’uomo non cambiò. Non vedevo nessuna empatia riflettersi sul volto, nessun moto di calore, tipico della sua vocazione. Poteva anche essere un bugiardo patologico, per quello che ne sapevo io. D’istinto, mi avvicinai al bricco dell’acqua, ancora calda nella teiera, impugnandola.

«Ne gradisco anch’io una tazza!» mi rispose l’uomo, accennando con il dito verso di me. «Ti accompagnerò io domattina, ma ora ho bisogno di una doccia e di una notte di riposo.

La strafottenza di Padre Rock mi lasciò esterrefatta, ma non senza parole. Di quelle, per fortuna, non ero mai a corto.

«Non le ho ancora offerto ospitalità!»

«Gaia, Gaia, tua madre mi aveva avvertito che non avresti avuto compassione per il prossimo. La tua professione indurisce il cuore e rovina l’anima!» sentenziò, scuotendo la testa, per poi accaparrarsi una tazza e un filtro della tisana che avevo lasciato incautamente sul tavolo.

Si avvicinò a me, strappandomi di mano la teiera e sì servì l’infuso.

«Elena mi ha donato la baita un mese fa!»

Lo disse con noncuranza, come se fosse normale amministrazione che una parrocchiana con una figlia ancora in vita elargisse la sua eredità a un uomo di Chiesa.

«Ah sì?» sbottai «mi mostri l’atto di donazione!»

 «Oh, credo sia meglio che tu ne parli con tua madre, prima. Lei era convinta che a te non interessasse più. Sono anni che non vieni qui. Anni in cui ha dovuto arrangiarsi da sola, finché la comunità del Pellegrino Errante non l’ha accolta a braccia aperte».

Mi morsi la lingua per evitare la risposta sagace che avevo già pronta.

Se l’uomo aveva ragione, non potevo far altro che verificare lo stato di salute di mia madre e agire di conseguenza. Era quasi certo che la conoscesse perché le parole del prete ricalcavano esattamente il dialogo tipo delle nostre telefonate madre-figlia. Purtroppo.

Mi costrinsi a sorridere. «Chiuda bene la porta, prima di coricarsi. Non vorrei che malintenzionati ci sorprendessero nel sonno» mi concessi, soltanto, degnandolo di un’occhiata sprezzante che l’uomo non raccolse.

«Buonanotte a te, partiamo domani alle 8:00» mi rispose, invece, salutandomi anche con la mano.

Reprimendo la stizza per la situazione, salii le scale che conducevano alla mia camera. Per mia fortuna, lo sconosciuto non mi fermò e potei chiudermi a chiave non appena varcata la soglia.

Mamma aveva donato la mia eredità a un estraneo e la colpa era solo mia. Da anni mi pregava perché tornassi a casa, ma trovavo sempre scuse per non farle visita. La chiamavo al telefono ogni domenica, dopo pranzo, e speravo che bastasse a colmare la mia assenza da casa. Evidentemente, avevo sottovalutato i suoi bisogni e, soprattutto, le intenzioni della comunità che frequentava e della quale non aveva fatto mai menzione.

Mi addormentai. Nel sogno, una luce misteriosa prodotta dalle stelle mi abbagliava, prelevando la mia anima e conducendomi in uno spazio diverso dalla Terra. Da quella strana postazione, sopraelevata alla mia dimensione naturale, potevo osservare l’intero Universo, partendo dalla Via Lattea per poi avventurarmi verso gli spazi più bui della Galassia. Mi svegliai di soprassalto con la sensazione di cadere nel vuoto cosmico. In effetti, persi per un attimo la presa del letto, cadendo sul materasso con un tonfo sordo, madida di sudore e con un feroce mal di testa. Ovviamente, il sogno era frutto delle mie angosce, mescolate al vaneggio di mia madre e alla passione sfrenata che avevo per l’astrologia fin da quando ero bambina.

Dalla cucina giungevano i profumi di una tipica colazione montana. Il profumo del caffè arrivò alle narici, costringendomi a lasciare il piumino invernale.

Guardai l’ora, avevo ancora tempo per una breve doccia, ma preferii non rischiare che l’uomo potesse andarsene senza di me. Indossai i vestiti del giorno prima, lavandomi solo il viso e mi avventurai in cucina.

«Buongiorno Gaia, serviti pure. Dopo colazione, partiamo!»

Bofonchiai un grazie, udibile solo dai cani e feci colazione, preferendo risparmiare le energie per la battaglia che mi attendeva.

Cominciò subito con la richiesta del prete di usare la mia auto. Sarebbe stato uno spreco di energie, utilizzarne due per raggiungere mia madre. E, bravo Padre Rock, uno a zero per lui. Ma non mi arresi. Sostenni che la mia auto era priva di gomme da neve (sacrosanta verità). Le 4×4 all season che avevo in dotazione per la città non garantivano aderenza sul suolo montano. Non certo come il fuoristrada del prete.

Così usammo la sua Jeep. Se avesse voluto farmi fuori, perlomeno lo avrei rallentato, impegnandolo con la guida del veicolo.

Repressi i pensieri nefasti e mi concentrai sull’uomo, intento alla guida. Forse era il momento giusto per chiedergli di “Starleyet”. Secondo la mia esperienza sul campo, un testimone impegnato in altro difficilmente riesce a raccontare bugie credibili.

Padre Rock ci riuscì.

«Starleyet è il nostro credo» disse, attirando la mia attenzione «chiamarlo Dio o luce delle stelle non cambia il fatto che si tratti di un fenomeno extraterrestre. Del resto, anche la scienza ci ha dimostrato che siamo tutti figli delle stelle».

Annuii involontariamente perché la pensavo esattamente come lui e la cosa mi stupì.

«Pensavo che mia madre delirasse al telefono» mi lasciai sfuggire, pentendomene subito dopo. Non dovevo concedergli terreno di gioco!

 «Assolutamente, no. Tua madre sta bene. Ha solo capito come incanalare le energie per diventare parte delle stelle».

Ecco, dopo aver ascoltato l’ultima frase del prete mi resi conto che la mia avversità ai culti religiosi, che reputavo ossessive e banali soluzioni post pagane, non era il peggio che potesse accadere. Anche la scienza, se mal gestita, poteva diventare nitroglicerina umana.

Sospirai, cercando di recuperare la calma. Dovevo assolutamente capire che intenzioni avesse il pazzo che guidava accanto a me. Come giornalista televisiva, avevo intervistato i personaggi più folli senza far trasparire l’orrore della mia opinione a riguardo. Avrei dovuto essere professionale, scollata al contesto che mi coinvolgeva in prima persona e forse avrei anche avuto l’articolo più promettente della mia carriera giornalistica.

«E come avviene il processo?» riuscii a imprimere curiosità, soffocando il sarcasmo che provavo.

Padre Rock si girò verso di me, cogliendo le sfumature nella voce.

Finalmente sincera!»

Alzai le spalle, fingendo di arrendermi all’evidenza, permettendogli di continuare. Anch’io potevo essere un’abile bugiarda, se lo volevo.

«Non ci è ancora chiaro. Da dicembre, oltre il Picco Marmoreo appare un cono d’ombra, simile a una biglia. Durante il fenomeno ingrandisce fino a misurare le dimensioni del Sole».

«Perché lo chiamate Starleyet?».

«In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre» disse il prete.

«Genesi 1, 1-3» citai a memoria, guadagnandomi la fiducia dell’uomo che assentì. In realtà, questo era il solo passo della Bibbia che mi fosse rimasto impresso, ma servì allo scopo. Il prete rilassò le spalle e mi sorrise, forse convinto di aver conquistato una nuova adepta per il suo culto.

«Quindi, il cono d’ombra gigante poi si illumina di luce?» suggerii.

«Sì. È proprio così che accade. Nella fase calante si riempie di luce delle stelle, comunicando con noi. I nostri veggenti rimangono in adorazione nella fase del fenomeno e poi ci raccontano cosa hanno visto del passaggio fra i mondi».

«E mia mamma è tra i veggenti?»

«Esatto. Come hai fatto a capirlo?»

«Ho tirato a indovinare» dissi, mentendo spudoratamente.

L’auto si fermò e, purtroppo, le mie intuizioni si rivelarono fondate.

«E’ il castello Lafuerte» dissi, sperando di mantenere un tono neutro.

Il castello a tre guglie, forse il più caratteristico della zona, si ergeva su un ampio spazio erboso.

«Sì. Mi dimentico sempre che tu conosci la zona perché sei nata qui».

«Mentre lei da dove viene, Padre?» Non gli dissi che la sera prima lo avevo cercato sul Web, senza successo.

«Oh, è una lunga storia. Se ti fermerai abbastanza a lungo, te la racconterò. Ora andiamo, stasera potrai assistere a “Starleyet” di persona!»

Non gli chiesi nemmeno se Madame LaFuerte avesse ceduto il suo castello alla comunità. Avevo già trovato in Rete la notizia del suo decesso, avvenuto il 18 novembre. Senza eredi a disposizione, era quasi certo che il castello fosse tra le proprietà del Pellegrino Errante e chissà quante altre ne annoverava, classificate come beni di natura religiosa. Ma non era la mia priorità, per il momento. Ora dovevo pensare a mia madre.

Alzai lo sguardo verso il castello e la vidi corrermi incontro. Mia madre era bella, di quel bello oggettivo che attira sempre gli sguardi della gente anche a settant’anni, con i capelli grigio turchini che un tempo avevano il colore dell’ebano e gli occhi castani, di un caldo coinvolgente mentre sorridevano. Io, al confronto, ero solo la sua brutta copia trentenne. Simile nei colori, ma sfuocata nei lineamenti.

Mi strinse a sé e ricambiai il suo abbraccio, cercando di pensare positivo. Mi aveva riconosciuto e reagito bene alla mia presenza. Se c’era stata una azione di plagio, non era riuscita a scalfire il suo cuore, non ancora.

«Ciao, mamma. Come stai?» dissi, scrutando accuratamente il suo esile corpo.

Non le dissi che ero preoccupata, che vederla così dimagrita mi faceva pensare al peggio. Del resto, non la vedevo da anni e non potevo sapere se fosse deperita per la comunità o per altro. Anche questo aveva dimenticato di raccontarmi.

«Bene. Da quando ho conosciuto Padre Rock sono rinata».

«Ora abiti qui?»

«Sì, da poco più di un mese».

«Perché non me ne hai parlato?»

«Oh, pensavo non ti interessasse».

L’uso dell’intercalare “Oh”, decisamente atipico per mia madre, mi fece scattare un campanello d’allarme. Lo usava Padre Rock, compreso il verbo “interessare”.

«Oh, mi interessa, eccome, mamma!» dissi ad alta voce, facendomi sentire dal prete che ci precedeva. Lo vidi drizzare le spalle, segno che la mia frecciata era andata a segno.

«Ho ritrovato la baita, era tutto come l’avevo lasciato, sai? Una bellezza. C’erano anche le lettere di papà. Quelle che ha scritto per noi prima della malattia. Te le ricordi?»

Mamma scosse la testa ed io ne approfittai per abbracciarla.

«Non ti preoccupare. Le rileggeremo e insieme guarderemo splendere il futuro, ti va?»

Il sorriso che lessi sulle labbra di mia madre valeva il viaggio e le scomodità. Valeva tutto. Persino affrontare il fenomeno “Starleyet” a mani nude.

«Stasera ti stupirà».

«Vedremo, mamma, vedremo. Per ora ho bisogno di fare colazione con te».

Entrammo ancora abbracciate nella dimora settecentesca. Il fuoco crepitava allegramente nella grande cucina dove tutta la comunità era riunita. Eppure, un brivido mi scese lungo il corpo. Contai sette disegni appesi alle pareti. Gli autori di certo non sapevano disegnare. Nonostante ciò, l’orrore che descrivevano era fin troppo reale. Dentro la luce, rappresentata da sette stelle luminescenti, si trovavano i corpi stilizzati, ma chiaramente a terra di altrettante sette persone. Ormai ero quasi certa di trovarmi all’interno di una setta, mascherata da credo religioso.

Trascorsi la giornata, cercando di conoscere i membri della comunità. I veggenti erano sette, compresa mia madre. Recuperai i disegni dei due sabati precedenti e il tema era decisamente più allegro. La luce delle sette stelle era sempre presente, ma al suo interno si intravvedevano piccole ellissi.

«Sono pianeti?» chiesi a mia madre, ormai non mi staccavo più da lei. Controllavo ogni mossa di Padre Rock e dei suoi seguaci.

«Oh, sì, ma i disegni non riescono a rendere la bellezza del Creato, purtroppo!»

«Capisco» dissi, aiutandola a preparare la cena per gli adepti e assicurandomi al contempo che non ci fossero erbe sospette tra gli ingredienti a disposizione «è tipo Contact?»

Mia madre annuì. Aveva sempre amato la fantascienza e Contact, interpretato da Jodie Foster, era il suo film preferito.

«Di male in peggio: fase allucinatoria diurna» mormorai a bassa voce.

«Non ti richiudere dentro le tue certezze, Gaia Morri» disse Padre Rock, avvicinandosi a me «almeno aspetta stasera!»

Annuii, capendo che Padre Rock mi stava studiando a sua volta. Dovevo fare qualcosa per convincerlo a fidarsi, così gli sorrisi. Lo sguardo speranzoso mi illuminava il viso, cercando di ipnotizzare il prete con la mia buona fede, nonostante i dubbi che provavo. Sembrò credermi perché mi permise di seguire mia madre in ogni incombenza. Contro ogni mia aspettativa, mantenni la maschera ipocrita fino a sera.

Allo scoccare della mezzanotte, ci disponemmo all’interno del cerchio luminoso che avevo aiutato a creare, accendendo i lumini, riposti sul pavimento di cotto.

Per fortuna, non dovevamo avventurarci fuori le mura per vedere il fenomeno perché l’atrio del castello era dotato di un soffitto a cupola in vetro. Uno dei tanti lussi che Madame LaFuerte si era concessa negli anni. Una lacrima mi scivolò sulle guance al pensiero di non averle detto addio. Avevo imparato a riconoscere le stelle grazie a lei, alla cupola e al suo potente telescopio, ora nelle mani di Padre Rock. Il prete era l’unico fuori dal cerchio e puntava lo strumento verso le stelle. Scossi la testa, non riuscivo ancora a inquadrarlo. La rabbia nei suoi confronti non mi permetteva di essere lucida. Sembrava essere a suo agio in ogni contesto, quasi fosse un camaleonte.

Spente tutte le luci del castello, il tenue bagliore dei lumini ai nostri piedi accentuava lo splendore del manto stellato. Qualcuno azionò l’apertura della botola. La serata limpida ci permise di osservare il pulsare ipnotico delle stelle. Individuai subito Aldebaran, la stella più brillante della costellazione del Toro. Nello spazio buio tra Etnath e Betelgeuse, riconobbi il cono d’ombra che da piccolo si faceva sempre più grande fino ad offuscare le stelle che gli gravitavano intorno. I sette veggenti pronunciavano il nome “Starleyet” ripetutamente, dapprima a bassa voce per poi aumentare l’intensità del suono mentre la comunità intonava un canto melodico che non riconobbi. Decisamente, il fenomeno era interessante. Non avevo mai visto niente di simile in vita mia. L’evento durò pochi minuti, forse cinque, secondo il mio “fit band”, poi l’ombra scomparve, lasciando il posto a sette stelle che non riuscivo a riconoscere. Quello che vidi fu un’esperienza sensoriale di primo livello. Mi sentii avvolta, eppure avvertivo nitidamente il freddo pavimento del castello sotto le mie natiche. Percepivo una voce interiore che si irradiava dentro di me, prendendo forza dalla luminescenza delle stelle e mi parlava. Le stelle si allinearono e per un breve lasso di tempo, forse dieci secondi, riuscii a vedere la sagoma di un essere gigantesco che riuniva le sette stelle. La forma sconosciuta mi guardò per poi girare la testa e scomparire alla mia vista, seguita in scia dalle sette stelle.

Quando tornai ad essere consapevole delle persone che mi circondavano, scoprii che avevo perso conoscenza per alcuni istanti. Mamma mi accarezzava il viso, mentre Padre Rock osservava con attenzione la scena.

«Che cosa hai visto, figlia mia?»

«Niente, mamma» dissi, mentendo.

Lo ripetei ad alta voce per farmi sentire da tutti i presenti. Non ero sicura di quell’essere che avevo intravisto nelle stelle perciò, nei fatti, non avevo visto niente di descrittibile. Se avessi dovuto dare un nome alla sensazione provata in sua presenza avrei detto “stupore”. Era stupito che potessi accorgermi di lui, che riuscissi a percepirlo. Ma potevo sbagliare. L’ambiente della comunità aveva contaminato anche la mia capacità di osservazione. Mancava una settimana a Natale, un sabato ancora e forse avremmo scoperto la verità. Ma, inganno o rivelazione, decisi che mia madre non sarebbe più stata da sola.