Spensero le torce. L’alba rischiarava il paesaggio di luce rosa intorno, ma era solo l’insolito colore del cielo a dare l’illusione di fresco. L’aria, già tiepida, annunciava una giornata calda sull’isola.
«Manca poco» Francesca ruppe il silenzio senza fermarsi.
L’uomo le fissò i capelli biondi, raccolti in una morbida coda di cavallo e rabbrividì. Camminavano da tre ore, percorrendo uno sterrato di campagna. Cercavano un maiale. Non erano le aberranti deposizioni dei malcapitati che avevano subìto le sue incursioni notturne a colpirlo. Mutilazioni di bestiame, devastazioni, la rabbia degli allevatori coinvolti facevano parte della normalità di fronte a una minaccia animale. No, c’era qualcos’altro a rendere inquietante il quadro delle indagini. Questo maiale agiva senza lasciare impronte sul terreno. Di più, svaniva di notte sotto gli occhi della gente. Considerando attendibili le testimonianze rese, stavano inseguendo un autentico fantasma. L’animale a cui davano la caccia aveva il manto nero tipico di un maiale autoctono, ma era più massiccio di quelli presenti sull’isola. Poco sopra l’occhio destro, una grande macchia bianca lo distingueva subito dagli altri. Gli isolani la chiamavano il marchio dell’oblio. Era il segno delle tenebre, citando un’antica leggenda. Narrava le gesta orride di una bestia assassina, intelligente quanto un uomo, che agiva soltanto nelle notti di cielo sereno. Scaltra come una volpe, non uccideva mai per mangiare. Amava solo fare a pezzi le sue prede, lasciandole agonizzare nel proprio sangue.
«Qualcosa ancora mi sfugge» Matteo sollevò lo sguardo a fissarla «se il maiale attacca solo di notte perché la gente dice che scompare? Il buio cela molto più del giorno».
«Giusto, ma per le impronte?».
«Quelle non ci sono».
«E perciò…»
Il sottotenente scosse la testa. «Niente da fare, ho già verificato. Sul bestiame, la polizza assicurativa offre un’inezia come risarcimento, considerando le stime di mercato. Le famiglie coinvolte non avrebbero avuto interesse a inscenare un massacro».
«Non ci rimane, quindi, che pensare al fantasma!» ora la voce di Francesca era allegra.
L’uomo non reagì «Poco… quanto?» le chiese soltanto, fermandosi a riprendere fiato. Voleva imporre il tono, rimarcare il suo ruolo di comando. Invece, gli uscì solo un rantolo di voce a ricordare chi fosse: Matteo Silvani, sottotenente lucchese, appena trasferitosi sull’isola.
«Mezz’ora alla meta» Francesca ignorò la sosta del suo compagno, proseguendo nella marcia mentre l’uomo mimava una smorfia cattiva dietro le sue spalle, troppo stanco persino per ribattere. Lei dovette percepirlo perché si girò, fermando il passo. Ripose le braccia lungo i fianchi e lo fissò. Il suo sguardo non prometteva nulla di buono. «Oh, d’accordo, solo quindici minuti!» gli concesse, invece, serrando le labbra.
Si sedettero su una roccia. «Ripetimi perché non potevamo arrivarci in macchina» Silvani, nel chiedere, si massaggiò la caviglia destra dolorante.
«La prossima volta gli telefono» scherzò Francesca «su, su! Non muore nessuno per un po’ di ginnastica. Senza contare che il lago Biviere è l’abbeveratoio preferito dagli animali che sostano in quest’area. Spero di sorprenderlo mentre si disseta».
«Così… tu non credi alla leggenda!».
Stavolta lei sorrise «In effetti» il sorriso della donna si allargò «no!».
Francesca era conosciuta come la miglior guida locale di fauna autoctona, veterinaria in servizio attivo nel parco dei Nebrodi «Solo perché ci credono i mei conterranei non significa che sia possibile né tantomeno probabile e poi» scosse la testa riflettendo «… ma prima di tutto dobbiamo catturarlo vivo».
L’ufficiale la guardò. L’espressione del volto e la postura del corpo snello dentro l’uniforme verde acquitrino gli dicevano chiaramente che non avrebbe più parlato. Aveva una teoria che non voleva ancora condividere con lui, pensò Matteo.
Un rumore costrinse l’uomo a girarsi. Puntò l’arma: l’indice teso al grilletto. Il maiale nero che cercavano da giorni li stava fissando. Matteo mantenne la posizione. Gambe divaricate a terra, mani unite a dirigere la sua pistola d’ordinanza, lo sguardo fisso negli occhi della bestia, era pronto a tutto per fermarlo.
Fu allora che accadde l’imprevedibile. Lo videro voltarsi e soffiare potenti sbuffi sul terreno.
«Ma guarda tu che…» sibilò Matteo non perdendolo di vista.
«Ecco come fa, è quasi incredibile» lo interruppe Francesca «non lo uccidere!» gli intimò, estraendo la siringa di narcotico e avvicinandosi con calma. Modulò la voce a fischio. L’animale scalpitò, ma restò al suo posto. Il suono sembrava piacergli. Si mosse solo quando vide l’ago. Lo scatto veloce in avanti, la furia dentro gli occhi e la potenza della massa muscolare del maiale impedirono a Matteo di mirare alle zampe. Uomo e animale caddero a terra. Il sangue ormai sgorgava copioso dal ginocchio destro del poliziotto che strinse i denti, voltando lo sguardo intorno a sé.
Poco distante da lui, anche Francesca era stata coinvolta nella colluttazione e giaceva inerme. Ormai terrorizzato, l’ufficiale cercò a tentoni l’arma persa nello scontro. Il maiale puntò di nuovo, ora le zampe lo colpivano al torace. L’odore putrido del suo fiato gli alitava addosso. Matteo flesse le gambe. La spinta sortì l’effetto desiderato, caracollando la bestia a poca distanza da lui. Non era ancora finita. Prese la mira. Due colpi in rapida successione lo centrarono all’addome, facendolo cadere. Il terzo sparo, di precisione, lo colpì in fronte. Dalla macchia bianca non apparvero fantasmi, come raccontavano alcuni, ma solo un fumo grigio, e l’animale stramazzò al suolo.
«No!» la donna ancora a terra si era ripresa dal brusco atterraggio e ora fissava, incredula, il morto «era addestrato, ma non l’hai visto?».
Matteo non le rispose. Rimase a terra, recuperando il fiato perso. Una settimana di ferie non gli sarebbe bastata per dimenticare l’accaduto.