La sindrome della valigia vuota

Estate. Finalmente il caldo che aspettavo è alle porte. Ed io con lui mentre sto preparandomi per trascorrere una settimana in Piemonte, in un agriturismo di Gignese, la mia prima vacanza in montagna.

– Una settimana – mi ripete mio marito con lo sguardo deciso e le mani sui fianchi – solo una, Monica, stavolta non hai scuse.

Ed io comincio a tremare. Sì, perché lo so di soffrire della sindrome da valigia vuota, ne sono consapevole. Non c’è più bisogno di prenderne atto. Ogni anno, al momento di lasciare la mia adorata casetta, non riesco a fare a meno delle comodità quotidiane che rendono la mia vita meravigliosa. Crema giorno, crema notte, siero occhiaie anti età, prodotti da trucco, per citare solo una piccola parte del necessario. Quando devo partire tutto mi diventa obbligatorio.
Di solito le ferie mi permettono comunque di spaziare, constando di due settimane al mare. E vuoi mettere quanti bei capi leggeri nell’armadio aspettano solo di essere sfoggiati? Anche se magari li indosso per una sera soltanto. Per non parlare poi delle scarpe e del corredo che le segue. Nonostante tutto, però, la mia borsa è sempre la più leggera della famiglia. Essere donna hai i suoi vantaggi. Ma in montagna? Con me, perennemente freddolosa? Di certo supererò lo standard previsto, anche se preparare la valigia per la metà del tempo, dovrebbe essere più semplice, vi pare? E invece no. La sindrome della valigia vuota incombe anche quest’anno su di me. Oddio, sento salire l’ansia che mi attanaglia mentre penso a cosa e, soprattutto, a quanto portare con me. Seleziono pochi capi di abbigliamento, uno per ogni tipo di clima che potrei incontrare, chiudendo gli occhi per non cambiare di nuovo idea e ricominciare da capo. Per non incorrere nella tentazione di infilare nella valigia tutto quello che vedo in casa, decido di prepararla poche ore prima della partenza.
Ebbene, sì. Decisamente, sì. Ho superato il rischio. E’ ufficiale. La sindrome della valigia vuota è la mia patologia.

La Resilienza

Appena apro gli occhi, il soffitto s’illumina, proiettando la data: 20 marzo 2050, ore 10:00, domenica.
– Buongiorno Anna – pronuncia Gea, la voce elettronica del software interattivo che ci connette al mondo.

Non le rispondo. Lo facevo all’inizio, vent’anni fa, quando eravamo ancora spaventati dall’esterno. Oggi è diverso, non ne ho più bisogno per sentirmi felice. Apro le tende, esco in terrazza con il caffè della mattina e guardo il mare. Il paesaggio è sempre lo stesso. Ipnotico, ammaliatore, anche bugiardo. Ma la gente non lo è più. Tutti siamo migliorati, lo devo proprio ammettere. I più resilienti del gregge hanno fatto da apripista al nuovo stato delle cose, mostrandoci la via per essere sinceri e, a poco a poco, anche il resto di noi li ha seguiti. Dapprima, impercettibilmente, trascinavamo anche le fobie fuori casa. Poi, faticosamente, ci riadattammo al contatto con gli altri. Oggi possiamo correre all’aperto, intrattenerci nei bar, fermarci a dormire in albergo senza problemi. Certo, dobbiamo sempre rispettare la pulizia, l’ordine e rispondere con notifica alle ordinanze Ministeriali che arrivano ogni giorno in casa, grazie a Gea, ma il contatto con la gente non è più vietato.

– Stato di salute: ottimo. Complimenti, Anna, puoi uscire tranquilla – sentenzia Gea, scannerizzando il mio corpo. Mi trattengo a stento dal ringraziarla ed eseguo la notifica di presa visione del mio stato fisico. Ormai è diventata un’abitudine rilassante farsi analizzare dalla macchina, ma all’inizio ne ero terrorizzata, convinta che mi avrebbe comunicato brutte notizie.

Iniziammo con il garantire la sicurezza medica. Ogni famiglia fu in grado di attingere al software “Gea” tramite la propria linea internet a costi calmierati. Fu un atto di solidarietà globale. “Stop agli affari, sì alle persone” fu lo slogan che impazzava sui social, sui giornali, sui muri di quasi ogni quartiere. Nessuno sapeva chi lo avesse scritto la prima volta, ma generò un’onda positiva inarrestabile. Il progresso tecnologico fece un grandissimo balzo in avanti. Dall’App che identificava i positivi al virus, si passò a svilupparne uno che forniva medicina virtuale a domicilio. E il Mondo divenne un posto migliore, dove vivere. Io per prima non ci credevo, eppure oggi ce l’abbiamo fatta. Siamo riusciti a evolverci davvero. Oggi tutti hanno a disposizione un kit salvavita in casa. Ossigeno, respiratore, diagnosi medica precoce non sono più problemi capaci di paralizzare il mondo. Sorrido mentre mi dirigo in camera. Ho appuntamento con Cara per lo shopping e poi per il pranzo. Lei è una delle resilienti più attive. Non so come, ci siamo capite subito, fin dal primo giorno in cui è arrivata in città. Io e lei siamo così diverse, eppure stiamo bene insieme. Mi spazzolo i capelli corti e ricci. Neri come la notte, s’intonano ai miei occhi color ombra. Cara, invece, ha i capelli di un biondo solare, uno sguardo cristallino e occhi verdi che l’aiutano nell’interagire con gli altri. E’ un’esplosione di energia e positività: la Resiliente per eccellenza. Sono fiera di esserle diventata amica. Esco di casa, assaporando la dolce aria primaverile, priva di smog, altro effetto positivo sul Pianeta. A causa dell’ondata virulenta del passato, i Governi di ogni Stato ripresero a parlare di clima, agendo, finalmente. I risultati prodotti furono veloci e concreti, educandoci all’ecosostenibile calmierato. La benzina fu dimenticata, i pannelli solari integrati sul tetto di ogni abitazione, l’energia eolica sviluppata a trecentosessanta gradi, imitando i Paesi del Nord Europa che già nel 2020 erano all’avanguardia sul fronte clima e ambiente. Gli sforzi impiegarono anni per dare risultati visibili, ma oggi il benessere per la popolazione è statisticamente dimostrato.

Cara mi aspetta in centro. Le sorrido mentre lei non si accorge nemmeno che mi avvicino. E’ intenta sulla tastiera del suo Pc portatile e sta digitando velocemente, al solito. Sembra fondersi con il computer quando lavora. La coda di cavallo che trattiene i suoi lunghi capelli si muove ritmicamente. Finalmente alza la testa, sbuffando.

– Ehilà, Cara, come va? Sempre alle prese con i numeri? Cara è un bravissimo ingegnere elettronico.
– Sì, ma ho finito. Ti va un caffè? – nel dirlo, solleva una mano e il cameriere arriva scodinzolando, servendomi il miglior caffè della città.

– Come hai fatto? – non riesco a trattenermi dal chiederle appena il ragazzo si allontana. Lei mi fa l’occhiolino e solleva le spalle.

– Anna, Anna, io continuo a dirtelo, ma tu non lo comprendi ancora: fatti concreti, piccoli gesti altruisti alimentano la Resilienza e la valanga positiva irrompe automaticamente nella quotidianità.

Strabuzzo gli occhi, finendo il mio caffè. So che mi sta prendendo in giro, lo vedo da come arriccia le sopracciglia, è un tic che le appartiene quando mente. Ma un orologio, ci pensate? Quanto sarebbe bello se il mondo fosse davvero un orologio!

La via di casa

La via di casa

E’ una notte senza luna.
La strada, illuminata solo dai lampioni, procede serpeggiando a fianco della collina. Mentre la percorro, non vedo niente oltre i fari della Mustang, ma so che sto tornando a casa.
Sono anni che manco. Anni fatti di lacrime di mamma che ogni maledetto Natale mi supplicava di tornare a casa, almeno per le feste, ma io non cedevo. Non avevo mai tempo. Anteponevo la carriera di dirigente alla famiglia finché quest’anno ne ho avuto fin troppo, grazie agli esuberi di personale. E ancora mi brucia.
Fra poco le luci e il mitico vialetto di sassi bianchi della mia infanzia appariranno in tutto il loro splendore. Forse quest’anno mi farò perdonare.
Il tempo scorre rapido nelle mie vene e intanto piove. Piccole gocce si spargono sul parabrezza, spazzate via dal suono secco dei tergicristalli.
Swishhh, swishhh, swishhh.
Lo scoppiettio del motore mi coglie impreparato.
Due colpi di tosse e poi il silenzio. Faccio solo in tempo a parcheggiare in uno spazio di fortuna e l’auto si ferma.
Guardo il cruscotto.
– Non è possibile – borbotto.
La benzina è finita perché ho percorso duecento chilometri quando ne dovevo fare solo quaranta per raggiungere la mia famiglia.
Scendo dalla macchina, cercando di orientarmi nel buio e penso mentalmente alla strada percorsa.
Conosco a memoria i luoghi della mia infanzia eppure sono qui, ancora da solo.
Nel buio qualcosa si muove.
Un rumore spezza il silenzio.
La sagoma, dapprima indistinta, prende forma e corre verso di me.
L’ansia mi attanaglia.
L’orrenda bestia ha uno sguardo giallo e famelico che mi punta.
Corro. Non so verso dove, ma corro nella direzione opposta.
Il fiato già manca, i battiti accelerano, le gambe cedono.
Non resisterò ancora molto, ma non riesco a voltarmi.
La paura aleggia su di me, la sento crescere a divorarmi i pensieri.
Le grida della creatura immonda si fanno sempre più vicine.
– Aiuto!
Le lacrime scorrono sul volto. Non posso più frenare il mare di emozioni che m’invade.
– Aiuto!
Non voglio morire qui, non voglio morire adesso. Anche se l’ho detto molte volte in questi giorni, non ci credevo davvero!
Le gambe cedono e finisco riverso a terra.
Sento le urla cessare e una pressione sul corpo mi costringe a proteggermi il capo.
Odio sentirmi indifeso. Lo ero da bambino e ho speso i miei giorni da adulto, lottando per non soccombere più.
Non posso nascondermi ancora. Non devo evitare il confronto.
Libero le braccia, portandole a terra.
Devo girarmi. Devo guardare in faccia la morte.
Un colpo di reni e sono supino.
La sagoma è ancora sopra di me. Ne avverto l’alito fetido e gelido, paralizzarmi lo sguardo.
Non vedo flash, niente dei miei ricordi, solo il freddo spasmo che mi contrae le viscere.
Voglio parlare, muovo la bocca, ma non riconosco il suono disarticolato che ne fuoriesce.
La bestia mi afferra le braccia. Gli artigli lacerano la pelle mentre provo dolore e sanguino.
Vedo rosso. Tanto rosso. Sulla terra intorno a me e dentro gli occhi della bestia, ora intravedo il rosso che si propaga, sostituendosi al giallo di prima. Poi l’improvviso irrompe.
I contorni si fanno sfumati e la creatura perde forma. Muta sopra di me, la vedo sciogliersi, ricomporsi e la paura scompare.
La riconosco, adesso.
– Mamma – grido, abbracciandola.
Il freddo pungente si stringe intorno a noi, aiutato dal vento che sferza i nostri volti.
– Mamma, sto impazzendo?
– No, bambino mio – dice, abbracciandomi.
E’ sempre lei. La mamma, serena e bellissima.
Sono a casa?
– Non ancora, ma è vicina. Tra poco la vedrai.
Ora non sento più le braccia e cedo al gelo. Non vedo più niente intorno a me, nemmeno mia madre.
– Fabio. Oddio…aiuto… datemi una mano.
Adesso sento la voce di Tommaso, mio fratello, che grida in lontananza.
Altre urla mi riscuotono dal torpore. Apro gli occhi, l’alba sta sorgendo e il calore del corpo di mio fratello riattiva anche i miei sensi.
Tocco il terreno sotto di me e riconosco i gradini della casa.
– Ma cosa diavolo.. – dico, incredulo mentre mi lascio trascinare dentro.
Finalmente al caldo ed è ancora Natale.
Sorrido. Sono mesi ormai che non sorridevo più, ma oggi sorrido.
Guardo intorno a me. Padre, sorella, nipoti, tutti mi guardano, piangendo.
– Ok, ragazzi, adesso basta. Ho solo bisogno di qualcosa di caldo. E’ ancora Natale, giusto? – biascico, infreddolito.
– Sì, a te è andata bene – mormora Tommaso – ma la mamma…
– Non finisce la frase, asciugandosi gli occhi con la mano.
– La mamma?
– Dicono sia stato un ictus. Eravamo già tutti qui e non ci siamo accorti di niente.
Scuoto la testa, ancora in trance.
– La mamma? Non può essere!
– E’ successo stanotte – interviene Sonia, mia sorella.
– Nel sonno – rincara papà, singhiozzando – non ho potuto nemmeno salutarla.
Io sì. Lo penso e sto per dirlo, ma qualcosa mi trattiene mentre ricordo l’incubo.
Non sarebbe di conforto agli altri. Io, l’unico scellerato della famiglia, solo io ho potuto stringerla un’ultima volta prima del lungo viaggio. No. Non devo dire niente. Non è giusto.
– Portatemi da lei – dico soltanto.

Follie di primavera

Diana chiuse dolcemente la porta dietro di sé, incamminandosi poi sulla strada lungo le mura di Lucca. Era primavera. Di nuovo il cielo tornava a splendere d’azzurro e nuvole sulla città e rasserenava l’animo della giovane donna, convincendola a riprendere la via. Le accadeva ogni anno: allo scoccare del solstizio di primavera si concedeva una lunga pausa dal lavoro. Lasciare la casa in cui era vissuta in affitto era una benedizione. Non programmava nulla a primavera. Non la durata, non la meta. Per Diana, primavera significava l’oroscopo al contrario: il futuro senza pronostici, la sua ricarica senza farmaci. Alzò il volto alla carezza dolce del sole di mezzogiorno. – Memento audere semper, dubium sapientiae initium – disse poi in un sussurro. La regola non obbligava a pronunciarla ad alta voce. Serviva solo all’animo del viaggiatore per preparare il corpo alle nuove esperienze che avrebbe fatto lungo la strada e a salutare senza rimpianti le persone che l’avevano accompagnata durante l’anno trascorso. I ricordi appena vissuti cominciavano già a sbiadire, passo dopo passo, mentre lasciava l’area urbana per dirigersi verso il sentiero che portava alle dolci colline senesi. Issò sulle sue esili spalle l’enorme zaino che le avrebbe garantito la sopravvivenza all’aperto, in attesa di trovare una nuova casa. La lunga treccia color ebano e dai riflessi di rame ondeggiò per lo sforzo. Ogni anno le persone che salutava non capivano il suo bisogno di partire, di ricominciare altrove, ma Diana non si lasciava distrarre da nessuno. Aveva uno scopo e la primavera era il suo richiamo. – Non ci credo! – la voce maschile le arrivò al fianco, costringendola a girare la testa. – Non scherzo mai sul viaggio, Luca. – Io vengo con te. Diana si fermò, guardando nel caldo di due occhi nocciola per poi scuotere la testa. – Non sai quello che dici. – Invece sì. Posso farlo anch’io. – E il tuo lavoro? Il sorriso dell’amico la sorprese. – Ne ho parlato con il capo. Dice che è una cosa da pazzi, quindi si aspetta un articolo strepitoso. – Fammi capire bene… vorresti scrivere di me? – Non solo. Documentare le follie di primavera. Ecco… adesso ho pure il titolo.
Cosa posso volere di più? Per un istante, Diana soppesò le parole di Luca, indecisa, poi sbuffò. Un lieve alito di vento le accarezzò la pelle mentre alzava le spalle in segno di resa. – Decido io le tappe. Se i piedi ti fanno male, non voglio sentire lamentele. Intesi? – Certo. E lo pensava davvero Luca mentre salutava con gli occhi la sua città natale. Porta San Gervasio era ormai alle spalle e la Via Romana si estendeva davanti a loro placida e serena. Una bella passeggiata all’aria aperta con una nuova amica, comode scarpe da trekking e un articolo che prometteva faville galvanizzarono il suo umore. Follie di primavera: il titolo voleva essere scherzoso, dipingere il percorso bizzarro di una donna insolita alla ricerca di se stessa. Dopo sei ore di cammino, interrotto solo da brevi pause per dissetarsi, però, Luca non la pensava più così. Aveva smesso di parlare. Diana non rispondeva nemmeno e le gambe, non abituate allo sforzo, gli cedevano per la fatica. Aveva bisogno di riposo. Voleva mangiare un doppio cheeseburger e patatine. Desiderava una doccia e un letto dove sdraiarsi, invece si ritrovava a camminare in mezzo alla campagna, senza nemmeno poterle chiedere di fermarsi e solo perché l’aveva promesso. Il sole del crepuscolo già faceva capolino dietro le nuvole, quando i rintocchi di una campana suonarono un lamento funebre. Luca si toccò i genitali. – Stanco e persino superstizioso, adesso? – Oh, lei parla! – nel dirlo, l’uomo si portò una mano al cuore. Diana scoppiò a ridere. – Pentito? – Sentire il rintocco della “Smarrita” mi ha sconvolto. Siamo arrivati a piedi ad Altopascio, ti rendi conto? – Fra poco ci fermiamo. – Dove? Non ci sono alloggi qui intorno. – Ho una tenda nello zaino, Luca. – Tu cosa? – Non dormo mai dentro mura durante il viaggio. Il giornalista chiuse gli occhi, mentre continuava a camminarle al fianco. – Ok, a me lo puoi dire… E’ un fatto religioso che ti obbliga al pellegrinaggio? Diana gli sorrise. – Non mi ero accorta che fossi spiritoso … sarà l’effetto della primavera? – Ah ah ah… ahia! – le rispose Luca, inciampando in una radice e strattonandosi la caviglia destra nel tentativo di liberarsene. Si massaggiò poi la parte lesa, approfittandone per riposarsi. Diana alzò le spalle in un gesto di resa, fermandosi a sua volta. – Non è una religione. Le comodità rischiano di distogliermi dalla meta. Così le evito.
– Oppure hai paura di affezionarti a qualcosa o a qualcuno. Continua a leggere

La cosa giusta

LA COSA GIUSTA di Monica Porta

Non aveva un presepe per accogliere i fedeli, né luminarie che addobbassero il sagrato della piccola chiesa valligiana. L’altare richiedeva manutenzione. Dai muri, la vernice scrostata si raccoglieva per terra, risaltando sul chiarore opaco del pavimento. Solo l’odore acre dell’incenso mescolato al fumo di candele bianche faceva intuire che, di lì a poco, il parroco avrebbe officiato i riti del Natale. La campana scandì i suoi ultimi rintocchi. Mancava poco a mezzanotte. Sapeva che era inutile illudersi di riempire i banchi vuoti con le voci dei fedeli. I pochi nel paese preferivano frequentare quella mattutina delle sei, ma il buonuomo non si scoraggiava facilmente. Così, da anni, si era abituato a celebrare la Messa di Natale da solo. Quella notte, però, il portone si aprì e il prete spalancò gli occhi. Il dolore che leggeva sul volto di Beppe lo fece fremere. Ne conosceva il motivo e ben poco poteva fare per lui se non pregare. Il sacerdote sospirò, cominciando a celebrare per poi interrompersi. Una folla fece il suo ingresso. La chiesa ora risuonava del sommesso cicaleccio di sconosciuti e don Pino si rallegrò. Preparandosi a distribuire l’Eucarestia, rischiò di far cadere il calice per la sorpresa. Le persone in fila raggiungevano l’altare, sostavano sull’ultima piastrella davanti a lui, e scomparivano nel nulla. Inspiegabilmente. Solo Beppe gli rimase di fronte ad accogliere il Sacramento. Erano di nuovo soli. Don Pino notò che la piastrella sulla quale era avvenuto il fenomeno si muoveva sotto i suoi piedi e provò a smuoverla. Sotto, vi trovo delle banconote. Allora comprese: la gente che aveva appena avuto davanti non era mai stata reale. L’apparizione, probabilmente, voleva che trovasse il denaro, nascosto in quel punto chissà quando, chissà da chi. Così capì cosa doveva fare.

– Beppe, tienile, potrai curare la tua bambina – disse emozionato.
– Ma io… -Accettale. Aiuta tua figlia a guarire.

L’uomo prese le preziose banconote e uscì in lacrime.

Don Pino alzò gli occhi al Crocifisso: aveva assistito al suo primo miracolo.

(testo pubblicato con DELOS BOOKS – Antologia 365 Racconti di Natale) 42