La strana vita di Penelope Patton

Le esperienze temprano il carattere. Anche in quelle più complicate, il ritorno di energia è sempre assicurato.

Penelope Patton, questo lo credeva. E, di più, lo ricercava.

La donna amava circondarsi di amici. Le piaceva il cicaleccio della gente nei ristoranti.

Persino al cinema sopportava i rumori di sottofondo senza scomporsi.

Penelope aveva da poco superato i quaranta.

Era una bionda naturale, così soleva rammentare al suo parrucchiere ogni mese, invitandolo a tingerle i lunghi e folti capelli di uno scioccante biondo platino.

Si riteneva una persona di media intelligenza. Né troppa né troppo poca, diceva alle amiche, sorridendo alla vita.

Di formazione cattolica, rigidamente imposta fin dalla nascita, Penelope aveva fatto del credo una sorta di bandiera contro le avversità della vita.

Non aveva figli. E nemmeno un marito. Qualcuno aveva bussato alla porta in passato, ma nessuno le era mai sembrato adatto a ricoprirne il ruolo a titolo permanente.

Eppure, Penelope credeva ancora che l’amore stesse arrivando anche per lei, solo che il suo era in dannatissimo ritardo. Era una cosa che stava imparando a comprendere, il ritardo.

Esattamente da quando le era stato notificato il trasferimento della sua posizione impiegatizia a Milano, aprendo il campo a nuove esperienze.

Alle ore sette, di martedì diciassette, la banchina della stazione ferroviaria monzese brulicava di persone che non conosceva.

Il treno S9 era in ritardo. Come al solito, mormoravano i pendolari, intorno a lei. Penelope, però, non poteva ancora affermarlo, era la prima volta che viaggiava in treno.

Si sentiva a disagio, ma cercava di nasconderlo, fingendo di controllare il suo cellulare.  Nemmeno osservare le reazioni stralunate delle persone che stavano attendendo con lei riusciva a calmarla.

L’arrivo del treno fu accompagnato dal fischio stordente del controllore che sollecitò la chiusura delle porte. Penelope, presa alla sprovvista, si lasciò trascinare dal fiume umano dei pendolari, salendo a sua volta sul mezzo.

Quindi, rimase in piedi a fissare il balletto degli sconosciuti che in pochi secondi si erano già appropriati dei posti a sedere.

Si sarebbe concessa una bella risata se fosse stata serena, ma le sue labbra rimasero chiuse, primo sintomo che qualcosa non andava.

Il rollio del treno in transito le causò subito nausea. Serrò le labbra, trattenendo a stento i conati e si aggrappò alla maniglia del sedile più vicino a lei.

Chiuse gli occhi. La respirazione modulata che applicò riuscì nell’ intento di calmarla, ma non sopì l’istinto atavico di voler scendere subito dal mezzo.

Penelope lo ignorò. Un passo alla volta e una voce guida che annunciava le fermate, ecco quello che le serviva per superare l’ostacolo e raggiungere il traguardo.

Penelope ne era consapevole, lucida a sufficienza per leggere i cartelli delle stazioni successive, compresa la sua, quella di Milano Lambrate.

Infatti, la vide ma non riuscì a fare altro che osservarla passare. La ressa alle porte le indicava l’uscita, eppure Penelope non si mosse.

Un uomo liberò il posto e la fece sedere. Fu un atto gentile che segnò la fine.

Arrivò al capolinea, esattamente dieci fermate dopo la sua e, finalmente, riuscì a scendere dal treno.

Non senza l’aiuto del controllore che la scortò a terra, trattenendola per il braccio.

E adesso, che poteva fare?

«Per tornare indietro, il prossimo parte fra dieci minuti al binario 4» le disse il controllore, per poi lasciarla sola.

Penelope o, meglio, il corpo di Penelope, si rifiutò di riprendere il treno nella direzione opposta.

Era ancora incredula per l’esperienza appena vissuta. Mai avrebbe pensato di essere fobica. A Monza utilizzava l’ autobus per spostarsi senza nessun tipo di problema.

Eppure, con il treno le era successo. Stavolta Penelope assecondò l’istinto. Scelse un taxi per raggiungere la nuova sede di lavoro, dimenticandosi della disavventura fino al termine dell’attività lavorativa. Ma la sera, per il rientro a Monza, il panico vissuto la mattina le ripresentò il conto.

La salata riflessione la portò a due considerazioni: poteva prosciugare entro pochi giorni il conto in banca, fruendo ancora del trasporto taxi, oppure dare fiducia alla nuova esperienza. E magari, provare anche a sorriderci. Scelse rapidamente la seconda, affrettandosi a raggiungere la stazione ferroviaria di Milano Lambrate.

La sera, il popolo dei pendolari era ancor più numeroso del mattino. E questo le diede coraggio. Se in tanti riuscivano a scendere dal treno, perché mai lei non sarebbe riuscita nell’intento? Si trattava solo di una questione di volontà. Di coraggio e volontà, promise a se stessa.

Appena salita, Penelope decise di non sedersi, memore dell’esperienza disastrosa del viaggio di andata. Così, forse, le gambe avrebbero obbedito al comando, non mancando la stazione di Monza.

«Si sente bene?»

Penelope si limitò ad annuire, restando aggrappata alla maniglia posta a lato del sedile passeggero.

«È capitato anche a me» proseguì lo sconosciuto «vuole sedersi?»

E Penelope sorrise. Scosse la testa in segno di diniego, rivolgendo lo sguardo degli occhi blu cobalto verso l’uomo brizzolato che la stava osservando a sua volta. Aveva giusto bisogno di solidarietà gratuita.

«Scende a Monza?»

«Sì.»

«Le sarei grata se mi aiutasse per la discesa dal treno.»

L’uomo annuì, pur non capendo la difficoltà della bella donna. Pensava che avesse avuto un capogiro. Non vedeva difetti di deambulazione in lei. Anzi, le gambe affusolate che spuntavano da sotto il completo elegante erano un piacevolissimo spettacolo a cui non voleva rinunciare.

Così l’ assecondò.

«Io sono Alberto, piacere!» disse, soltanto, tendendole una mano.

Penelope la strinse, sentendosi meglio. Ancora non staccava la mano sinistra dalla maniglia del sedile, ma parlare le stava facendo bene.

«Penelope» gli rispose.

«Ancora quattro fermate e saremo a Monza.»

La donna annuì, stringendo le labbra, ma stavolta non era il panico a parlare. I piedi stretti nelle décolleté” color carne, tacco dieci, le rendevano difficile pensare ad altro che non fosse l’insolita situazione in cui si trovava.

Era abituata ai tacchi fin da ragazzina. Persino quando si spostava in bicicletta non rinunciava mai all’eleganza del piede femminile fasciato da una scarpa d’eccezione, come la “Mary Jane”, ad esempio, con il cinturino nero di vernice risultava comoda e affascinante al contempo. Eppure, adesso i piedi le dolevano terribilmente. Ed era un evento inspiegabile per lei.

«Monza, stazione di Monza» pronunciò finalmente la voce elettronica in filodiffusione e Penelope sospirò.

Strinse fra le sue la mano dello sconosciuto e si preparò a scendere dal treno. Impresa che si rivelò più difficile del previsto.

A differenza del treno del mattino, munito di porte a chiamata con apertura automatica, il mezzo aveva maniglie di color rosso pomodoro.

Naturalmente, fu Alberto a proporsi. Cercò di aprire le ante del vecchio treno regionale con tutta la forza che aveva, non appena il treno si arrestò.

Ci riuscì solo al terzo tentativo, imprecando contro non si sa quale dio della meccanica.

Le porte sferragliarono, ma obbedirono finalmente al comando, consentendo ai viaggiatori di scendere dal treno.

E Penelope sorrise, ringraziando la provvidenza che le aveva fatto incontrare Alberto.

Dopotutto, la prima giornata a Milano si era rivelata sorprendente.

Era questo il bello della vita, lasciarsi sorprendere dalle esperienze impreviste e farne tesoro.

Penelope aveva imparato tanto di sé, compreso come gestire un attacco di panico, e aveva conosciuto un nuovo amico.

Soddisfatta di come fosse sopravvissuta al primo giorno sul treno, non diede retta a nessuno dei consigli che le propinarono i suoi familiari, informati dell’accaduto.

In particolare, alla vocetta stridula di sua madre che al telefono la implorava di non recarsi al lavoro, l’indomani.

«Prendi malattia. Devi capire perché ti è successo» la implorò ancora la sua anziana genitrice.

«È stata provante, ma domani andrà meglio, ma’. Mi basta solo dormire bene stanotte!» concluse Penelope, serafica.

Del resto, Alberto le aveva promesso di esserci e, comunque, i passeggeri non mancavano a Monza. In ogni caso avrebbe trovato qualcuno disposto ad aiutarla.

Il mattino seguente Penelope aveva recuperato le forze e persino il buonumore, nonostante fosse in netto ritardo sulla tabella di marcia.

Arrivata in stazione, non vide Alberto, ma non se ne preoccupò.

Doveva farcela, anzi, poteva farcela anche da sola. Salì sul mezzo e riuscì persino a mantenere l’ equilibrio senza aggrapparsi subito a un sostegno.

Una scarica di adrenalina la pervase.

Il successo la spronò a recuperare minuti preziosi, decidendo di camminare anche lei tra le carrozze per portarsi il più avanti possibile e risparmiare tempo.

La passerella di intercomunicazione tra le vetture era aperta, aveva appena visto alcuni ragazzi attraversarla, poteva farlo anche lei!

Sempre sorridendo, Penelope affrontò il passaggio. Le porte si chiusero improvvisamente e con loro scomparvero sicurezza e fortuna, intrappolandola. Il panico la sopraffece. La gola si chiuse, impedendole di urlare.

Cercò di raggiungere l’oblò per premere il pulsante di apertura o almeno bussare sul vetro e richiamare l’attenzione dei passeggeri, ma non riuscì ad arrivarci. La sciarpa che indossava, una preziosa firmata Armani, le si impigliò fra le intercapedini, trattenendola, complice il forte vento che proveniva dall’esterno della vettura.

Borsa e PC le sfuggirono di mano, sbilanciandole la presa.

Cercò di girarsi per tornare indietro, ma una scarpa le rimase incastrata fra le due lamiere in continuo movimento che ricoprivano il pavimento. Bastò una frenata improvvisa del treno per fratturarle il piede. Alla seconda, le cedette il ginocchio. La voce ritornò dentro l’urlo di dolore.

Penelope svenne, accasciandosi al suolo, ma nessuno la vide cadere, nessuno fermò la corsa del treno che arrivò tranquillamente al capolinea.

Il corpo della donna fu rinvenuto solo più tardi dal personale viaggiante, adibito alla pulizia della carrozza.

Penelope non riprese conoscenza fino al ricovero ospedaliero.

Nei mesi successivi alla riabilitazione, ripercorse mentalmente la tragedia più e più volte, cercando di capire cosa fosse accaduto di così sbagliato da causarle tanto dolore.

Alla fine, pensò di averlo compreso. Aveva ignorato l’istinto senza ascoltarsi e questo le era stato fatale.

La paura pesa l’anima, è il debito che il corpo sopporta per sopravvivere. Ma, a volte, rivela anche l’unica strada giusta da percorrere in un mondo imperfetto.