Il mormorìo del mare

 

La marchesa uscì alle cinque. Quella mattina, Rose si sentiva pronta per affrontare la giornata.

Ancora non sapeva definire il sentimento che provava, ma era finalmente lucida e voleva ascoltare il mare.

Qualcuno le aveva sussurrato il consiglio durante una delle tante notti insonni, trascorse a ballare forsennatamente e a trangugiare margarita, il suo cocktail preferito.

«Hai mai ascoltato il mormorio del mare all’alba?» le aveva sussurrato l’affascinante Hugò dai tratti mediterranei, stringendola in un lento appassionato.

Rose de Cotillon aveva scosso i lunghi boccoli corvini. No, non lo aveva mai fatto. Anzi, lei evitava accuratamente il mare.

«Potremmo farlo insieme domani» le aveva risposto ancora Hugò.

La pelle diafana della giovane marchesa, quasi trasparente, non le garantiva un’esposizione gradevole al sole, ma la mattina di quel sabato di giugno, il tre per l’esattezza, il cielo plumbeo prometteva una giornata senza sole.

Rose scese i settantacinque gradoni di legno, incastonati nel folto bosco di lecci, e raggiunse la spiaggia della “Paolina”, di un fine color cipria.

La ragazza chiuse gli occhi, annusando il profumo del mare. Avvertiva il suono delle onde infrangersi sulla battigia, i gabbiani gracchiare in lontananza e un rumore di passi che si avvicinavano.

«Buongiorno, Rose.»

La vivace marchesa riconobbe la voce di Erinne e abbozzò un sorriso di circostanza, lasciando che si sedesse sullo scoglio accanto a sé, limitandosi a ricambiare il saluto.

Erinne e Rose si conoscevano dai tempi del liceo. Non erano amiche, ma la condizione altolocata di entrambe aveva permesso loro di restare in contatto.

Le due erano completamente diverse. E non solo per l’aspetto fisico. Eppure, avevano gli stessi gusti in fatto di ragazzi.

«Allora? Non mi hai ancora raccontato di Hugó!»  disse la bionda Erinne, spezzando il silenzio imbarazzante che si era creato.

Nemmeno sotto tortura le avrebbe raccontato spontaneamente del suo ultimo flirt, così Rose alzò le spalle, mordendosi le labbra, pronta a mentirle.

Non ce ne fu bisogno.

«Ecco Hugò!»  riprese Erinne, alzandosi in piedi a salutare il ragazzo che sopraggiungeva da solo. Lo baciò sulle guance.

Rose restò seduta, invece. Un broncio accattivante le disegnava il volto dai lineamenti regolari.

«Pronte per la seduta?»  chiese Hugò a entrambe, pur rivolgendo lo sguardo solo sulla marchesa.

Rose scosse la testa, cercando di capire.

«La seduta spiritica, ti ho invitata ieri, ricordi?»

Certo, la seduta. Rose era ubriaca persa, come al solito, e lo aveva ascoltato appena. Ma pensava stesse scherzando. O meglio, approfittando dell’occasione per rivederla.

Invece, si sbagliava. Decisamente. E non solo per la presenza di Erinne. Guardava Hugó impegnarsi per rendere credibile la seduta all’ aperto.

In effetti, il ragazzo le aveva raccontato della sua passione per il soprannaturale, ma Rose aveva soprasseduto. Perché gli piaceva, naturalmente.

E, come al solito, quando si infatuava perdeva il senso della realtà.

L’italiano srotolò una stuoia e le posizionò ai lati quattro fiaccole di bambù. L’odore dell’olio delle fiaccole si mescolò a quello salmastro del mare, creando uno strano connubio.

«Il mormorio del mare è la nostra chiave in codice, l’ha inventata Hugò per rendere segrete le sedute. Non è fantastico?» intervenne Erinne.

No, per la marchesa non lo era per niente, soprattutto ora che aveva avuto conferma di avere una spietata concorrenza.

«Andiamo, Rose. So che non ci credi, ma cos’hai da perdere? E poi è più salutare che scolarsi drink ogni notte» le disse Hugò.

Rose accusò il colpo, maledicendo la sua parlantina.

Preda dei fumi dell’alcool, notte dopo notte gli aveva raccontato del rapporto tempestoso con sua madre, bruscamente interrotto tre mesi prima.

Da lei aveva ereditato il titolo di marchesa e ancora non sapeva come gestirlo.

Con un sospiro, Rose si unì ai due compagni d’avventura, prendendo posto sulla stuoia e chiudendo il cerchio.

Si aiutò con il respiro controllato, lasciando che le parole pacate di Hugò la calmassero.

«Qualunque cosa accada, tenete strette le mie mani e non lasciate il cerchio.»

Rose trattenne a stento uno sbadiglio. Non aveva dormito per essere puntuale all’appuntamento con Hugò e adesso sentiva tutta la stanchezza della notte insonne.

«Siamo composti da materia ed energia. Oggi, ci concentreremo sulla nostra energia per accedere al mondo immateriale» proseguì il ragazzo.

Erinne, gli occhi socchiusi e le labbra distese in un sorriso storto, accettava passivamente l’esperienza. Ma non lei. La marchesa, Rose De Cotillon, non credeva ai fantasmi. Alla cattiveria umana sì, anche lei ne era stata artefice e vittima a sua volta, ma all’Aldilà? No, niente sopravviveva al piano materiale.

Erano solo giochi infantili, niente di più, non poteva accaderle niente di terribile dall’esperienza, a meno che si fosse sparsa la voce.

L’ultima cosa di cui aveva bisogno era essere additata dalla stampa come una strana, pensava la marchesa.

Intanto, il sorgere del sole, anche se oscurato dalle nubi, aveva cambiato la luce sulla spiaggia e Hugò iniziò il suo dialogo interiore.

L’ atteggiamento scettico di Rose non le impediva comunque di osservare la scena.

L’ isola d’ Elba era ancora deserta quando Hugó pronunciò le fatidiche parole:

«Henriette De Cotillon, sei qui?»

Nessuna risposta. Il silenzio ancora pervadeva il tratto dell’Isola

D’ Elba, osservato dai tre ragazzi.

«Rose?»

La marchesa annuì, comprendendo che doveva essere lei a farlo.

«Mamma?»

Il vento le sibilò in risposta.

Non aveva mai interagito con sua madre. Complice la ricchezza della famiglia, c’erano state tante, troppe distrazioni a frapporsi fra le due per costruire un rapporto affettuoso. Ma Hugò la sollecitava e lei non riusciva a negargli niente. Non ancora, perlomeno. Perciò decise di essere sincera, liberando le emozioni finora soffocate.

«È strano. Ora che vorrei parlarti tu non ci sei più ad ascoltarmi.»

Un tonfo in acqua sorprese i tre che sobbalzarono al rumore improvviso. A Erinne scappò una risata isterica. Hugò e Rose, invece, si girarono a guardare se ci fossero estranei, facendo sempre attenzione a non rompere il cerchio, ma non videro nessuno.

«Ecco, volevo solo dirti che ti voglio bene. Mi dispiace per il tempo che abbiamo perso. Ora so che non potrò più recuperarlo e mi fa male.»

La sabbia vicino al cerchio umano vorticò in risposta. Quando si fermò, i ragazzi poterono leggere la parola registrata dal vento. In due decimi di secondo, un semplice “sì” provocò la risata di Hugò, lo sguardo frastornato di Rose e l’urlo di Erinne.

La marchesa adesso era completamente sveglia. Una scarica di adrenalina l’aveva scossa alla vista delle due semplici sillabe.

Hugò si limitò a stringere le mani delle due compagne di viaggio, infondendo loro la calma necessaria a proseguire la seduta.

«Mamma, non ti dimentico. Ci sarai nelle nuove azioni che compirò come marchesa.»

Erinne e Hugò rimasero in silenzio, stavolta. Entrambi sapevano che in nessun caso dovevano interrompere il flusso emozionale di Rose.

Intorno a loro, il vento aveva ripreso a spirare, scompigliando i lunghi capelli delle due ragazze.

«Quando mi raccontavi la storia del nostro titolo, credevo che fossi pesante, troppo puntigliosa e snob. Non avevo capito che lo avrei ereditato in ogni caso, solo per il fatto di essere la tua sola figlia femmina. Ma tu lo sapevi. Perché non me lo hai detto?»

Un raggio di sole squarciò il cielo, creando un grafismo color oro sulle nubi. Hugò spalancò gli occhi per la sorpresa. Non aveva mai visto una runa disegnata in aria. Memorizzò ogni tratto, sperando di poterlo ricordare e studiare in seguito.

«La mia strada è un cammino che non posso più ignorare. Adesso ne sono consapevole.»

Rose fece una pausa e l’atmosfera sembrò rarefarsi sotto l’assalto di un vento che da tiepido, ora spirava gelido, imperversando sulla spiaggia.

«Non sarà come il tuo, però. È per questo che non ho voluto parlarne al funerale. Ho scioccato tutti i presenti, lo hai visto anche tu?»

Un sussurro nel vento le riportò una risata come risposta.

«Niente più raccolte fondi, niente galà, niente convegni. Cercherò un percorso tutto mio per aiutare gli altri senza sprecare altro tempo.»

Rose concluse il suo monologo. Ancora non ci credeva, non stava parlando a sua madre. Sicuramente era stata la mancanza di sonno delle ultime notti a mostrarle i fenomeni, ma le aveva fatto bene esternare il dialogo.

Un anomalo refolo di vento colpì un’onda. L’ acqua di mare roteò fino a generare un mulinello in aria. Per un istante, assunse la forma di una donna sorridente per poi cadere a riva e ritornare allo stato naturale. Si trattò di un attimo, ma fu sufficiente. Le lacrime che finora non era riuscita a versare bagnarono il viso della giovane marchesa.

Il cerchio si sciolse.

In silenzio, i tre ragazzi raccolsero il materiale sulla spiaggia.

«Stasera cocktail lounge?» chiese Erinne, piccata per la piega inaspettata della seduta. Come sempre, quando arrivava Rose si prendeva la scena e ormai non riusciva più a sopportarlo.

Nessuno dei due ragazzi le rispose.

«Ne vuoi parlare?» disse, invece, Hugò.

Rose scosse la testa.

«No, ho bisogno di tempo per metabolizzare.»

Il sorriso accecante di Erinne non rovinò il momento a Rose. Sapeva di aver sbagliato finora, era necessario che capisse come rimediare al meglio.

La marchesa non aveva più bisogno di essere perdonata per la superficialità della sua condotta. Era riuscita a dirlo a sua madre, finalmente. Voleva essere se stessa senza più compromessi. Senza il peso di un’eredità scomoda. Doveva solo trovare il vento giusto per lei, quello che l’avrebbe aiutata a salpare.

Racconto pubblicato in TCN 

Tracce di un assassino

A occhi chiusi nel buio, ascolto quella voce che pian piano si avvicina e
canta. Ha il timbro flautato mentre intona le note della nostra canzone:

“La sera suona il silenzio
Socchiudo gli occhi
Pensando a te
Entrando nella camerata
Vidi qualcuno triste come me
Qualcosa mi si strinse in gola
Ed una lacrima mi scese giù…”

«Non riesci a dormire neanche oggi?» le sussurro, appena termina il
canto. Non mi risponde, ma la sento toccarmi la spalla. Con lei vicino,
fatico a riaddormentarmi.
Il mattino seguente la piccola Elsa non è più nel letto.
Scuoto la corta chioma castana, portandomi le ciocche dietro alle
orecchie, una lavata al viso e sono pronta a vestirmi. Maglietta e
calzoncini verde militare, il colore delle gufette, la squadra a cui
appartengo. Oggi nella colonia è prevista l’ultima sfida per aggiudicarsi il
trofeo.
Palla e fuoco, altrimenti detta, palla prigioniera, si rivela un disastro.
Vengo subito colpita, finendo tra le escluse. Lisa resiste più di me, ma alla
fine deve cedere il posto alle valchirie che si aggiudicano la partita e, con
essa, anche il torneo.
Guardo sconsolata il cartellone appeso all’ ingresso della spiaggia:

“25 luglio – Festa di fine giochi 1982”

«Cosa ti è preso oggi?»
Alzo le spalle, stanca persino di parlare alla mia amica. Penso soltanto a
quando potremo tuffarci in acqua. Il mare è una tavola invitante di colori,
dall’ acquamarina al verde.
«Trenta minuti al bagno in mare» annuncia la capogruppo.
Guardo nello zainetto e mi ricordo di non aver preso il ricambio.
«Hai il mio costume?» Chiedo a Lisa.
«Che numero sei?»
«358» le rispondo, affannata, mentre continuo a rovistare tra le mie
cose.
Ogni ragazza della colonia ha un numero che la identifica, un po’ come
ad Auschwitz. Ma è solo cucito sul retro di tutti gli indumenti. I tatuaggi
non sono richiesti, per fortuna. Il mio è il 358. Per non rischiare di
dimenticarsi, mia madre inizia a ricamarlo a maggio sul mio corredo, tanto
è contenta che partecipi alla vacanza di luglio.
«Niente, mi dispiace, ho solo il mio» replica Lisa.
Alzo la mano in gesto di resa e la capogruppo lo scambia per una
richiesta.
«Che aspetti? Corri a prenderlo!» Grida poi, facendomi sobbalzare.
Non amo le urla, anzi le detesto, ma in questa particolare occasione
apprezzo il gesto. Anche perché di solito ci è vietato rientrare in camerata
prima della cena. Galvanizzata dalla situazione straordinaria, corro,
superando subito la sabbia bollente. Rallento solo quando imbocco il
sentiero che dalla spiaggia riporta alla casa coloniale.
L’ ho percorso mille volte con le compagne, in fila ordinata a due a due,
tenendoci per mano. Dovrei conoscere ogni filo d’ erba. Invece, oggi è tutto
sbagliato. La luce che filtra dai rami crea ombre innaturali, oserei dire
giganti. Osservo il prato che lo costeggia da ambo i lati e noto subito una
grande area dove l’erba è schiacciata, sembra sia stato trascinato qualcosa.
Stamattina non c’ era, ne sono certa. Dovrei muovermi, ma le gambe sono
intorpidite e fatico a camminare.
Mi fermo e seguo ancora l’ erba con lo sguardo. È ipnotica, un
caleidoscopio di variazioni di verde. Ruoto la testa di trenta gradi e
intravedo qualcuno a terra. Mi avvicino. Ora riesco a vedere bene la
bambina dai lunghi capelli biondo oro. È nuda. Il suo costumino, un intero
blu, è appoggiato accanto a lei, all’ altezza del busto. Sembra dormire, ma
la posizione innaturale delle braccia, poste sopra la testa, mi dice il
contrario. Entrambe le braccia sono piegate all’esterno, come se gliele
avessero spezzate e poi ricomposte per una foto, ma non vedo fratture sulla
pelle e nemmeno sangue. Ho la strana sensazione di guardarla attraverso
uno specchio. Una mano è aperta e l’ altra chiusa a pugno. Vicino al
costume, un cappellino bianco a campana, di pregevole fattura e rifinito da
un nastro azzurro, completa la sinistra opera. Mi avvicino ancora. Devo
guardare. L’interno del cappellino contiene due bulbi azzurro cielo
primaverile, ancora iniettati di sangue che ricambiano il mio sguardo.
Il terrore arriva. È un’onda che mi attanaglia lo stomaco. Sussulto. Un
tremito mi scuote il corpo.
È morta. Oddio, è morta! Pronuncio, rendendomi finalmente conto di
quello che sto osservando. Mi sento cadere. Solo quando tocco terra, mi
accorgo che non sono sola. Dietro un albero, in lontananza, intravedo un
uomo. Alto, longilineo, i capelli biondi corti, un taglio alla nordica. Non
riesco a muovermi, paralizzata dalla sua presenza ingombrante. Ha gli occhi
azzurro ghiaccio che sondano il terreno dove è sdraiata la bambina. Sono
terrorizzata eppure non emetto suono. Ho l’ impressione che l’ atmosfera
sia rarefatta intorno a noi.
E si fa buio.
Ha preso un colpo di calore», sentenzia la capogruppo venuta a
cercarmi. L’infermiera si preoccupa di visitare il mio corpo senza prestare
attenzione allo stato di shock.
Per fortuna.
Questo mi permette di meditare sulla strana disavventura che ho appena
vissuto.
Ho avuto un terrore cieco, il primo che io ricordi, ne sono rimasta
paralizzata. Letteralmente. Eppure sono riuscita a immagazzinare
moltissime informazioni come se fossi cristallizzata dentro a un film.
L’ infermiera mi offre acqua e zucchero che bevo diligentemente. Tutto
pur di poter tornare all’ aria aperta.
Lisa è in piazzetta. Mi ha tenuto il panino con Nutella, il mio preferito.
Per la merenda possiamo scegliere da tre cestini picnic, contenenti tre
panini diversi:
Cotto, salame e Nutella. Io alterno solo gli ultimi due.
«Stai bene?»
«No. Non sto bene per niente», dico mentre le riassumo l’incubo che ho
appena vissuto e addento il mio panino.
Lisa ascolta senza interrompere. Questo mi piace di lei. Qualunque cosa
io le racconti, non mi guarda come se fossi pazza. Poi, però, si prepara a
smantellarmi. È fatta così. Deve sempre stare un gradino sopra di me.
«Non avrai digerito le melanzane del pranzo» mi dice, infatti.
Come se a non digerire si potesse sognare horror. Mi scappa un sorriso.
«E hai fatto pure il bis, te lo ricordi?», riprende.
Lisa ha la madre medico. Di solito sbuffo ascoltandola, è di un palloso
quando parte con la filippica sull’ alimentazione sana e senza grassi. Manco
fossimo vecchiette, ma oggi devo darle ragione. È stato sicuramente il
pranzo, devo pensare di più all’ alimentazione. Sì, perché altrimenti tutti
avrebbero visto il cadavere della bambina e adesso saremmo interrogate
dalla polizia, anziché goderci l’ aria tiepida della sera.
Sorrido e tamburello con le dita sul pavimento delle scale dove siamo
ancora sedute, all’ esterno del refettorio.
«Stasera ci pensi tu a Elsa?»
Elsa è una bambina di sei anni. Noi dodicenni, le grandi, come ci
chiamano i responsabili della colonia, abbiamo il compito di aiutarle anche
durante la notte e spesso le piccole se ne approfittano, cercando la
protezione di un letto amico. Nella mia camerata quest’anno c’è solo Elsa.
«Elsa dorme sempre tranquilla.»
«Ti sbagli, sono almeno cinque notti che viene da me. La sento
camminare, trascinando i piedi, e intonare l’inno del silenzio per poi
addormentarsi sulla mia spalla.»
«Uhm…ok, stasera ci penso io.»
Il ritmico rollare della batteria in piazza catalizza la nostra attenzione. E’
il rito corale che precede la cena. Ci permette di scatenarci in pista,
scaricando l’ energia che resta sopita durante il pasto. Per il bene dei nostri
responsabili, Eddy e Renato. Noi li chiamiamo la strana coppia perché
fanno tutto insieme. Cantano, ballano, recitano, non ci riprendono mai,
insomma con loro ci divertiamo. Sono i più fighi della colonia e quest’ anno
sono i responsabili della mia camerata, la più invidiata!
Dopo la cena, l’ inno del silenzio chiude la nostra giornata. Poi tutte in
camerata per il riposo.
La malinconia mi prende sempre la gola quando la canto. Le nostre
famiglie sono lontane e la tristezza si fa sentire. Ma anche qui c’ è uno
scopo: piangere richiede energia, quella che non potremmo impiegare in
altro.
Ecco, lo scopo. Non ci avevo mai riflettuto, ma adesso mi accorgo che
tutto quello che organizzano i grandi ha uno scopo, un fine per imbrigliare
la nostra libertà, permettendo loro di non fare fatica.
La camerata è un’ enorme stanza a forma rettangolare, contenente dieci
letti e altrettanto comodini. Ognuna ha identificato il proprio numero su
letto e comodino.
È un mistero come il mio possa essere il 358 se nella colonia risiedono
solo cinquanta ragazze, ma ‘questo è e non si discute’, il motto della
colonia, già dice tutto. Qui le domande non esistono.
In fondo, appoggiati al muro, tre enormi armadi ci permettono di riporre
i vestiti in condivisione.
Lisa mostra il pollice, indicando Elsa nel suo letto, già quasi
addormentata. Io faccio altrettanto. Ho assolutamente bisogno di una notte
intera di buon sonno.
Lo scalpiccio di piedi nudi mi sveglia. La sento alzare il lenzuolo e
infilarsi nel mio letto. La luce della luna filtra dalle finestre aperte e mi
lascia intravedere la bambina sdraiata vicino a me. Ha lunghi capelli biondo
grano. Non è Elsa.
Apro la bocca, ma l’urlo muore in gola.
Lei mi artiglia il braccio. Le unghie si conficcano nella mia carne,
stillandomi sangue. Sento dolore e cerco di divincolarmi mentre la cosa si
avviluppa ancora di più sul mio corpo.
‘Vuoi giocare con me’?
Sento la paura sdoppiarmi, mentre ascolto la voce che si fa largo nel
buio e sussurra ancora ‘non mi lasciare andare’. E’ la stessa delle altre sere.
Commetto l’ errore di guardarla di nuovo. Ora non ha più la pelle. Vedo
solo lo scheletro, muscoli e arterie che le ricoprono le ossa.
Sopra il mio letto volteggia qualcosa, avverto solo la sua testa che scruta
nel buio. Ha gli occhi di ghiaccio che lampeggiano nel buio come fanali.
Sta cercando me. Il cuore accelera i battiti, sta per schizzarmi dal petto.
Serro gli occhi, non posso farne a meno, ho bisogno di aiuto e la mia
mano destra si muove da sola, risolvendo. L’ indice picchetta due volte il
materasso per poi appoggiare tutto il palmo, ancorandolo al letto.
L’ incubo scompare, sono al sicuro e finalmente cedo al sonno
ristoratore.
Il mattino apro gli occhi con la nausea che mi tormenta e ricordando
tutto del sogno. Ho bisogno di mangiare. È l’incentivo migliore per uscire
dal letto e prepararmi per la giornata. Le occhiaie allo specchio fanno così
paura che decido di approfittare della gentilezza di Luana, coprendole con
un correttore. Luana è la terza dodicenne della camerata, insieme a me e a
Lisa. Lei è sempre chic, l’unica munita di trucchi. Non so come abbia fatto
a portarli, qui sono vietati, ma ne approfitto.
Mancano quattro giorni al rientro a Milano. E quest’ anno non vedo l’
ora di andarmene, sigillando la porta dietro di me. Le fatiche sportive sono
ormai concluse. Ci attendono solo i giochi rituali in spiaggia. Una
passeggiata.
La colazione non sortisce l’effetto desiderato, caffè e latte con i biscotti
più cattivi che io abbia mai mangiato, e alla nausea ora si è aggiunta anche
l’ansia che mi attanaglia lo stomaco. Un giro in infermeria, dopo, non me lo
toglie nessuno, penso sconsolata.
Il vibrato potente del Gong distoglie la mia attenzione dai sintomi e ci
richiama tutte in piazza per l’apertura della giornata.
La vita in colonia è scandita dai momenti ufficiali, un assaggio della vita
politica che potremmo vivere se solo ci candidassimo alle elezioni.
Eddy e Renato sono già pronti sul palco, con i microfoni accesi.
«Care coloniette, oggi abbiamo un ospite illustre tra noi.» esordisce
Eddy. Il brusio che si propaga tra di noi è palpabile, viscido quanto un
pitone in piena attività. Tutte siamo in trepida attesa.
«E’ l’erede di casa, il nostro anfitrione, il proprietario della colonia,
ecco a voi, Eric Von Der Bruss!» conclude Renato, passando il microfono al
nuovo venuto.
L’applauso della massa mi permette di arretrare, nascondendomi dietro a
Luana, la più alta del mio gruppo. Intanto sbircio l’ospite.
Lisa guarda la mia espressione terrorizzata e lo capisce mentre io riesco
soltanto ad annuire. Ho già visto l’uomo sul palco. Ieri era appostato dietro
un albero e ora scopro che siamo su una sua proprietà.
L’uomo scruta la folla, ha lo sguardo di ghiaccio che ricordo bene,
somiglia a un rapace. Sofferma lo sguardo su Luana, la più carina della
colonia, pronuncia qualcosa che non comprendo e finalmente siamo libere
di lasciare la piazza. Il lato positivo è che non ho più la nausea e l’ansia si è
dissolta. Quello negativo, invece, riguarda Luana che si è appartata con il
rampollo e adesso ride alle sue battute. Sì infila le dita tra i bellissimi
riccioli neri e continua a scherzare. Mi avvicino. L’ uomo mi guarda solo
un istante, tornando subito a concentrarsi su Luana.
Non mi ha riconosciuto. Il sollievo che provo mi riempie di gioia,
manco fosse l’ ultimo giorno di scuola. Non so ancora cosa significhi, forse
davvero ieri non mi ha visto, forse io mi sono immaginata tutto perché è
innegabile che la mia fantasia abbia le ali, come dice sempre la mia prof di
italiano quando mi riconsegna i temi. Stanotte, poi, l’ inconscio potrebbe
aver triplicato le paure. In ogni caso, sentirmi protetta è una cosa che mi
piace.
La cosa bella di sentirsi al sicuro è la sensazione di tranquillità
sensoriale che si prova. Il cuore rimane fermo a sessanta battiti al minuto, la
mente è sgombra da pensieri ostili e tutto fila liscio, come i pattini sul
ghiaccio a Natale.
Ci pensa Lisa a riportarmi in tensione.
«Ho scoperto una cosa» dice, mentre raggiungiamo la spiaggia e ci
sediamo sui teli mare già predisposti sulla sabbia.
«I nostri numeri sono unici.»
«Che vuoi dire?»
«I numeri che ci assegnano sono progressivi.»
Scuoto la testa. La matematica è la mia più grande debolezza.
«Monica, sveglia! Significa che il tuo 358 è solo tuo.»
Sorrido. «Brava, hai risolto il mistero!»
Lisa sbuffa. Lei sì che ci capisce di numeri. È per questo che studierà
medicina.
«Qualcuno ha interesse a tenere il conteggio delle ragazze che hanno
frequentato la colonia»
Io annuisco, ma solo per cortesia.
«Ancora non ci arrivi, eh?»
Scuoto la testa, in segno di resa.
«A me sembra normale, invece, avere sotto controllo la statistica. Per gli
infortuni, per la nostra sicurezza» le ribatto ora con più convinzione,
ricordandomi le prove di evacuazione antincendio fatte a scuola.
Lisa si acciglia.
«Noi non lavoriamo in colonia. Ci trascorriamo una vacanza. Quindi,
per avere utilità la statistica dovrebbe essere annuale, azzerandosi l’ anno
successivo. È inquietante sapere che io sia il numero 400. Significa che
sono la quattrocentesima ragazza che ha camminato qui da quando la
colonia ha aperto.»
Io rimango in silenzio.
Vuol dire che tutte noi abbiamo una storia contenuta in qualche registro
contabile.»
Il mio sguardo perso nel vuoto fa arrabbiare Lisa.
«Ergo, la bambina dai capelli biondi che continui a sognare potrebbe
essere stata ospite della colonia e avere anche lei un numero. Se scopriamo
il numero, sapremo anche il suo nome e potremo rintracciarla. Ti pare?»
Ci rifletto.
«E come pensi di scoprirlo?»
Lisa indica con lo sguardo Luana che ancora scherza con Der Bruss.
«No, ti prego. Non farglielo chiedere.»
«Perché?»
«Ho una brutta sensazione!»
«Lo sai che succede alla gente che si tiene tutto dentro?»
«No.»
«Muore, Monica. Muore perché marcisce dentro!»
Lisa ha la straordinaria capacità di piegare la gente con la sua oratoria.
Sarà un ottimo medico, già la vedo convincere i malati a farsi operare, tanto
che avranno mai da perdere? Tra il rischio di marcire e sopravvivere scelgo
l’ ultimo, acconsentendo al suo piano, mio malgrado.
Luana ci raggiunge poco dopo.
È così presa da Von Der Bruss da raccontarci tutto senza forzarle la
mano.
«Ha venticinque anni, è ricco e da poco ha ereditato la tenuta di
famiglia» continua Luana con gli occhi che le brillano.
«Certo, la sintesi è proprio il tuo forte, commento» cercando di istillarle
almeno un dubbio sul suo comportamento libertino, ma Luana annuisce,
sorridendo.
«Mi ha invitata a casa sua» conclude poi, facendoci sobbalzare.
«Mica penserai di andarci!» Sbotto io, guadagnandomi un’occhiata di
rimprovero da Lisa.
«Perché no? Certo non è bello, ma ha fascino. E poi quando mi ricapita
di vedere un castello asburgico?»
Scuoto la testa. Sto per raccontarle quello che ho visto nei miei incubi
quando la capogruppo ci richiama all’ ordine.
Iniziano i giochi con l’acqua e tocca a me. Fronte mare sono disposte
cinque grandi cisterne. Ogni camerata deve partecipare, immergendo a
turno la testa per recuperare le mele ivi contenute. È un gioco innocuo che
abbiamo già fatto. Mi preparo davanti alla cisterna, portando le mani dietro
la schiena, come da regolamento. Affondo i denti, catturando la prima che
porgo con la bocca alle mie compagne e ricomincio. Sono alla quinta mela
quando perdo l’equilibrio e tutto il volto finisce in acqua. Annaspo,
recuperando fiato, gli occhi aperti vedono il fondo buio della cisterna
allargarsi per fare spazio ad altre immagini che da sfuocate si fanno via via
più nitide. La bimba mi saluta con una mano aperta, l’altra invece è stretta
contro il corpo e ancora chiusa a pugno. Svaniscono quando mi sento
sollevare, una mano preme la mia spalla che scotta. Urlo, scostandomi dallo
sconosciuto che mi sta ancora premendo contro.
«Stia lontano da me!»
Gli grido, senza ormai trattenermi più.
Ho lo sguardo offuscato, le mani mi tremano, sento che sto per avere
una crisi isterica.
«Ehi, calmiamoci» Eddy mi separa dall’asburgico che ancora non ha
proferito parola.
Il contatto con il mio responsabile ha il potere di calmarmi.
Guardo Renato, è pensieroso. Poche volte l’ ho visto così. La postura
del corpo tradisce ansia.
«Eravamo tutti spaventati» mi dice Eddy, confermando i miei sospetti.
«Stai bene? Prosegue poi.
Vedo Eddy e Von Der Bruss scambiarsi uno sguardo di intesa.
«Ho solo perso l’equilibrio e sono finita in acqua» gli rispondo
lentamente. Appena lo faccio, mi accorgo di riuscire a contenere la
tensione. Come se scandire lentamente le parole avesse un potere calmante
su di me.
Luana mi passa il suo pettine. Ho i capelli bagnati, completamente
spettinati, dalla sua espressione intuisco anche che sono uno scempio. Mi
rimetto in ordine come meglio posso, ritornando nel mio gruppo. Il gioco
prosegue e le valchirie, al solito, si aggiudicano il pass per il balletto serale
della loro camerata.
«Cavolo, avrei voluto esibirmi questa sera!», commenta Luana prima di
sorridere ancora a Eric.
Eddy e Renato fanno finta di nulla, eppure è evidente che il marpione ci
stia provando.
«Non è normale sta’ cosa» dico mentre siamo a pranzo. Luana mi
guarda con un sorrisetto stronzo, come se fossi gelosa di lei perché piace a
un ragazzo.
«Ha tredici anni più di te» interviene Lisa.
«E allora? Se avesse la mia età non potrebbe guidare.»
«Ti viene a prendere in auto?» Ho alzato la voce e Renato ha sollevato
lo sguardo su di noi.
«Ssstt, vuoi farmi mettere in punizione?»
Scuoto la testa.
«Certo che viene in auto. La tenuta è lontana, immersa nel parco.»
«Per quanto ne sai, potrebbe essere un assassino, ci pensi?»
«Oppure il mio principe azzurro. Allora, dopo il pranzo mi coprite?»
Lisa sorride, dandole ragione.
«Monica, ti ho prestato il correttore, ricordi?»
La guardo e annuisco. Adesso capisco perché è stata gentile con me.
Accumulava favori da richiedere alla prima occasione. In fondo la vita è
sua. Non posso farci niente se non ha il mio istinto e nemmeno il cervello di
Lisa. Siamo quello che siamo, solo gli sbagli possono correggerci. Prego
solo che per Luana non sia l’ultimo concessole mentre la osservo
sgattaiolare fuori dal cancello della colonia, stranamente indisturbata.
«A me ha prestato il mascara» dice solo Lisa in risposta al mio muto
rimprovero.
«Finiremo nei guai se non torna per la campana delle quindici.»
«Uh, altrimenti troveremo un diversivo.»
Luana è di parola perché allo scoccare delle quindici, con il suono della
campana che conclude il riposo pomeridiano, la vediamo rientrare e
mischiarsi alla camerata senza farsi notare. Un sospiro di sollievo ci sfugge
quasi all’ unisono. Luana è raggiante. Ha il vestito più corto di quando è
uscita, le labbra tumide di baci e i capelli in disordine, per il resto è a posto.
Ma non riusciamo ad avvicinarla fino a sera perché Von Der Bruss si
materializza in spiaggia e non la lascia mai sola. Ogni tanto mi lancia uno
sguardo di sfida che evito di raccogliere.
Quando finalmente rientriamo in camerata è già sera. Luana è pronta a
raccontarci del castello, una residenza con cinquanta vani a disposizione e
un arredamento sontuoso in stile classico, alla principessa Sissi.
«È uno scherzo? » Lisa parte subito in attacco e non è da lei, segno che
la situazione ci sta sfuggendo di mano.
Luana ci guarda e sorride.
«Sí. Eric ha insistito.»
«Perché?»
«Ha detto che sarebbe stato divertente vedere le vostre facce.»
Ho sempre detto a Lisa che Luana fa la stupida, ma oggi mi devo
ricredere: Luana è proprio stupida!
«Davvero ti ha nominato noi due?» Chiede Lisa.
«Sì, ma non ti montare la testa. Lui è mio. Mi ha già detto che ci
terremo in contatto.»
Per fortuna non si accorge del mio disagio.
«E quanti locali ha, invece?» insiste Lisa.
«Dieci. 2 salotti 3 bagni e 5 stanze da letto. E il parco, oh il parco è
spettacolare. L’ erba alta ha dei colori stupendi, credo sia coltivata perché
non ho mai visto…»
«Così tante tonalità di verde in natura.» concludo io, sorprendendola.
«Ci sei stata anche tu?» sibila Luana, improvvisamente aggressiva nei
miei confronti.
«No, ma figurati… sai che Monica ha una fantasia esplosiva» interviene
Lisa.
Luana si calma e ci lascia da sole, rintanandosi in bagno.
«Cosa ne pensi?» Chiedo alla mia amica. Siamo sdraiate al buio, ognuna
sul suo letto. Comincio a temere il sonno.
«Ci ha lanciato un amo. Vuole capire cosa sappiamo.»
Rabbrividisco. Non riesco nemmeno a pensarci.
«Hai ragione Non possiamo chiederlo tramite Luana. Der Bruss ci
mentirebbe senz’ altro. Invece è interessante il dieci dei suoi vani. Dieci
come il numero previsto per ogni camerata.»
Lisa è decisa, ma io ancora tergiverso. Credo sia meglio dimenticare
tutto. Due giorni, poi torneremo a casa. E non rivedremo più questo posto
dimenticato dal mondo.
Due giorni soltanto. Mi addormento, tenendo stretto questo pensiero
che mi conforta i sogni.
Il mattino seguente Lisa ha già elaborato una nuova strategia e non ho
avuto ancora il coraggio di tirarmi indietro. Io devo distrarre la segretaria
della colonia, permettendole di cercare il famigerato registro in Direzione.
«Ci vuole una parola d’ordine per farti scappare.» dico sperando di farla
desistere.
«Ok, parola d’ordine “CIAO”. Se ti sento urlarlo, esco subito,
qualunque cosa abbia trovato.»
«Lisa, credo sia il numero cinque.»
«Perché il cinque?»
«,L’ ho sempre vista con una mano aperta. E’ solo una sensazione, ma
partirei dalla numero cinque.»
Cinzia, la segretaria è una donna di mezza età, somiglia un po’ a mia
madre nei modi. Mi è facile avvicinarla prima che entri nell’edificio
principale e raccontarle che mi sento strana da qualche giorno. Ho così
tanto materiale da narrare e la donna è così presa dal mio racconto che Lisa
riesce ad entrare nell’ edificio con facilità.
Dieci minuti dopo la vedo uscire e dirigersi verso di noi. Ringrazio
Cinzia per la disponibilità, salutandola con un bacio sulla guancia.
«La cinque si chiamava Ellen Von Der Bruss» mi dice una volta
raggiunta la spiaggia «strano, eh?»
Annuisco, frastornata. Dopo il colpo di calore, ho ancora paura a
percorrere il sentiero, ma non ho più avuto crisi.
«E adesso?» le dico.
«Possiamo chiedere a Enzo.»
Enzo è il guardiano storico della colonia. È anziano, ma sempre
disponibile a scambiare qualche chiacchiera con noi. Potrebbe essere una
buona idea, sempre a non fare confusione. Annuisco ancora a Lisa,
sperando di sbagliarmi.
«Il parco, la colonia e la spiaggia sono dedicate a Ellen Von Der
Bruss.» dice, dopo averci ascoltato declamare la bellezza della natura che
abbiamo intorno.
«Quindi, parente di Eric Von Der Bruss?» chiede Lisa.
Il vecchio annuisce.
«La sorella. Ellen era una bellissima bambina dai lunghi capelli colore
del grano, ricordo che non li tagliava mai. Amava il mare e i giochi sulla
spiaggia. Ma era sempre sola, così il padre organizzò la colonia, regalandole
per l’ estate la compagnia che le mancava. Riuscì a divertirsi per cinque
anni. Morì di tisi a soli dodici anni.
La famiglia ogni anno tiene viva la memoria di Ellen, permettendo una
vacanza al mare a tante piccole come lei.
«E’ una storia triste» mi sento solo di dire.
«Non è quello che hai visto nei tuoi incubi» mi sussurra Lisa.
Alzo le spalle. Sono contenta di aver messo un punto alla vicenda, che
sia vera oppure no ha poco interesse per me. In ogni caso si tratta di una
vecchia storia di famiglia.
«Il sogno rimane qui» mentre lo dico, con la mano destra traccio due
linee parallele e un’ onda che le interseca, da sinistra verso destra. Non so
cosa stia facendo, ma sento il bisogno di ascoltare il mio istinto.
La terra sotto le mie dita passa dal tiepido al rovente in un attimo,
regalandomi una cicatrice bizzarra sulla pelle.
Enzo mi guarda e annuisce. So che racconterà tutto al suo padrone.
Anzi, è molto probabile che sia stato lo stesso Eric a confezionare la storia
che abbiamo sentito. Ma credo sia un bene anche per me. Forse ho trovato il
modo per non farmi male.
Ultimo giorno. Osservo il bellissimo mare dal mio scoglio preferito,
quello che ho utilizzato fin dal primo anno. Ne sono trascorsi altri cinque da
allora e adesso mi rendo conto che una parte della mia vita si sta per
concludere.
Salgo sul pullman, combattuta tra la voglia di lasciare la colonia e una
strana malinconia che mi riempie i sensi.
Le porte del mezzo si chiudono dietro di me. Lisa stringe la mia mano
mentre affronto lo sguardo enigmatico di Eric Von Der Bruss per l’ultima
volta.

 

foto da Pixabay

 

La cosa giusta

LA COSA GIUSTA di Monica Porta

Non aveva un presepe per accogliere i fedeli, né luminarie che addobbassero il sagrato della piccola chiesa valligiana. L’altare richiedeva manutenzione. Dai muri, la vernice scrostata si raccoglieva per terra, risaltando sul chiarore opaco del pavimento. Solo l’odore acre dell’incenso mescolato al fumo di candele bianche faceva intuire che, di lì a poco, il parroco avrebbe officiato i riti del Natale. La campana scandì i suoi ultimi rintocchi. Mancava poco a mezzanotte. Sapeva che era inutile illudersi di riempire i banchi vuoti con le voci dei fedeli. I pochi nel paese preferivano frequentare quella mattutina delle sei, ma il buonuomo non si scoraggiava facilmente. Così, da anni, si era abituato a celebrare la Messa di Natale da solo. Quella notte, però, il portone si aprì e il prete spalancò gli occhi. Il dolore che leggeva sul volto di Beppe lo fece fremere. Ne conosceva il motivo e ben poco poteva fare per lui se non pregare. Il sacerdote sospirò, cominciando a celebrare per poi interrompersi. Una folla fece il suo ingresso. La chiesa ora risuonava del sommesso cicaleccio di sconosciuti e don Pino si rallegrò. Preparandosi a distribuire l’Eucarestia, rischiò di far cadere il calice per la sorpresa. Le persone in fila raggiungevano l’altare, sostavano sull’ultima piastrella davanti a lui, e scomparivano nel nulla. Inspiegabilmente. Solo Beppe gli rimase di fronte ad accogliere il Sacramento. Erano di nuovo soli. Don Pino notò che la piastrella sulla quale era avvenuto il fenomeno si muoveva sotto i suoi piedi e provò a smuoverla. Sotto, vi trovo delle banconote. Allora comprese: la gente che aveva appena avuto davanti non era mai stata reale. L’apparizione, probabilmente, voleva che trovasse il denaro, nascosto in quel punto chissà quando, chissà da chi. Così capì cosa doveva fare.

– Beppe, tienile, potrai curare la tua bambina – disse emozionato.
– Ma io… -Accettale. Aiuta tua figlia a guarire.

L’uomo prese le preziose banconote e uscì in lacrime.

Don Pino alzò gli occhi al Crocifisso: aveva assistito al suo primo miracolo.

(testo pubblicato con DELOS BOOKS – Antologia 365 Racconti di Natale) 42

Matrix Anthology

Titolo: Matrix Anthology

Autore: Vari

Editore: Polimeri

ISBN: 9788897905615

Prezzo: 13 euro

Pagine: 160

 

“Segui il coniglio bianco”. Un’antologia ispirata a Matrix, capace di riaccendere la luce. Da non perdere! Qui il mio brano si intitola “Il cammino della pioggia”.

Copertina
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Trues Stories

 

 

 

True Stories Verità del terzo millennio

Autore: Vari
ISBN: 978-1-291-44724-8
Pagine: 202

 

 

 

Antologia dedicata al tempo, il terzo millennio, visto da prospettive diverse. Nel brano “Fuori di qui” affronto il tema delle relazioni umane , così pericolosamente facili nell’era delle “chat”.

M.P.