Cari, audaci lettori,
che siano spine nel fianco per chi li custodisce o respiri salutari per gli appassionati del genere, i segreti fanno parte della vita sin dagli arbori dell’umanità e tuttora restano il sale del tessuto sociale.
Per ben cominciare, scelgo quello che a mio parere resta il più grande fra i grandi: il segreto dei violini Stradivari.
Non sono una musicista e nemmeno un’esperta della materia, eppure, ogni volta che sento suonare un violino Stradivari ogni fibra del mio essere vibra e non posso fare a meno di fermarmi ad assorbirne il suono.
Succede anche a voi?
Sono estasiata e grata del felice momento durante l’ascolto e ho la sensazione di accordarmi alla melodia.
Questo, però, mi accade solo con gli Stradivari.
Assurdo, dite? Forse lo è, ma pensate all’esperienza del suono di uno Stradivari. Nei secoli è rimasta vivida nell’immaginario collettivo, tanto da arrivare fino a noi. Un’emozione spontanea che trascende il tempo è qualcosa di straordinario.
Ecco perché scelgo Antonio Stradivari o, meglio, il segreto dei suoi violini per inaugurare la mia nuova rubrica.
Il mito nasce con il celebre Antonio Stradivari. Della sua vita conosciamo poco, persino la data di nascita è incerta, stimata fra il 1643 e il 1649. Non abbiamo neppure la certezza che sia di origine cremonese. Sappiamo solo che nel 1676 lascia l’esperienza maturata come allievo di Nicola Amati, liutaio di Cremona, per creare il suo modello di “violino ideale”. Lo termina intorno al 1700, facendo esperimenti con i materiali utilizzati e ottenendo lo strumento che sarà adorato dal pubblico del suo tempo e delle successive generazioni. E non solo. Oggi i violini Stradivari hanno una quotazione di vendita stratosferica, oltre i due milioni di euro.
Gli esperti affermano che il segreto dell’immortalità di Stradivari risiede nell’unicità e nell’equilibrio del timbro dei suoi violini. Ed è così; è stato dimostrato da un’indagine condotta dal Cnr e pubblicata sul “The Journal of the Acoustical Society of America” nel 2022.
Lo studio, condotto con l’ausilio di settanta liutai, mirava a stabilire quale tra quattro violini diversi (due moderni, uno di fabbrica e uno Stradivari) selezionati e ascoltati in “doppio cieco” avesse il timbro sonoro migliore, attraverso l’ascolto di cinque note musicali. La preferenza cadde sullo Stradivari senza alcuna esitazione.
Per ascolto in “doppio cieco” si intende un esperimento condotto senza che gli ascoltatori e gli sperimentatori sappiano quale violino stia suonando al momento dell’ascolto. Utilizzando lo stimolo sonoro della scala musicale, poi, si ottiene che i giudizi siano determinati solo dal timbro del violino e non da elementi esterni, legati alla preferenza o antipatia per un particolare brano suonato”.
Quello che mi colpisce dello Stradivari è la capacità di far brillare l’anima nel profondo e così a lungo da toccare i secoli in un istante.
Nel documentario “Falling for Stradivari”, in visione streaming sulla piattaforma Now, la musicista Janine Janser è chiamata a suonare dodici Stradivari, dimostrando che ognuno dei violini a disposizione ha caratteristiche e dinamiche diverse.
Se non l’avete ancora visto, vi consiglio di non perderne la visione.
Ed ecco, le mie impressioni a riguardo.
Il violino “Tyrrell” del 1717 appartiene al periodo più produttivo e magistrale di Stradivari. È uno dei violini Stradivari meglio conservati. Poco usurato, dotato di estrema lucentezza, ha un timbro rotondo e corposo.
L’ “Alard” del 1715, produce un suono grave, malinconico, struggente.
Il “Capitan Savel” del 1680, uno dei primi Stradivari, ha un suono cupo. Aspetto, colore e suono sono diversi da quelli del periodo d’ oro. Mi trasmette concretezza, solidità e impegno.
Il “Milstein” del 1716 è tra i miei preferiti. Il suono è tra i più limpidi che abbia mai sentito.
Ascoltandolo, percepisco persino le note disegnare l’aria. Deciso, versatile, denso di dolcezza e vitalità, cattura facilmente la mia attenzione.
Anche l’”Hubermann Kreisler” del 1733 ha il vibrato acuto che sa commuovermi.
Il “Kreisler” del 1734 ha un suono altezzoso, pungente, quasi che il violino fosse oltraggiato dall’ essere suonato.
Il “San Lorenzo” del 1718, uno dei venti grandi violini, ha un suono elegante e sofisticato. Adatto a celebrare, commemorare, amare da lontano, come in una romanza. Ha impresso su entrambi i lati le parole” gloria, ricchezza e giustizia”. Credo sia d’interesse sapere che fu un regalo di nozze donato da Stradivari al musicista Mauro D’Alay.
Per concludere, i violini creati da Stradivari mantengono l’anno di creazione, ma alcuni assumono il nome dei proprietari più illustri a cui sono appartenuti. È questo il senso dei nomi a loro assegnati.
La vernice, il legno e i minerali impiegati per la realizzazione dei celeberrimi violini sono senz’altro parte del segreto, ma credo che ci sia di più da scoprire.
Antonio Stradivari lavorò fino alla fine della sua esistenza, morendo il 18 dicembre del 1737, alla veneranda età di novantatré anni.
La ditta “W.E. Hill & Sons” (“Hill”), ha stimato che il mitico liutaio cremonese, Antonio Stradivari, costruì mille centosedici strumenti, di cui seicento novanta violini. Di questi, quattrocentocinquanta violini Stradivari risultano sopravvissuti al tempo.
Cosa spingeva l’anziano Stradivari a ricercare la perfezione? Non poteva trattarsi il bisogno materiale, già nel 1710 il suo lavoro era riconosciuto e remunerato come eccellenza italiana.
Allora, perché non si fermava a riposare?
Il suo sembra un bisogno atavico, incontrollabile, che spingeva la sua passione al limite.
Che la chiave del suo segreto fosse la passione? Genuina, ma anche imprescindibile dalla sua persona, forse fu la passione a regalargli il sogno di eternità, a imprimere l’essenza e l’energia appresa sulla terra dal noto liutaio nei suoi violini.
Non abbiamo materiale per dimostrare che Antonio Stradivari fosse dedito o affiliato agli studi alchemici, eppure il successo ottenuto mi porta a riflettere.
La scienza ci aiuta a capire il procedimento utilizzato da Antonio Stradivari per la realizzazione dei suoi mitici strumenti, vediamo come.
Uno studio dell’Università di Cambridge, analizzati i frammenti di un violoncello realizzato da Antonio Stradivari nel 1711, ha concluso che l’elemento determinante contenuto nella vernice sia cenere vulcanica.
Un gruppo di scienziati della Texas A&M University, College Station, diretti da Joseph Nagyvary, ha dimostrato che le vernici usate da Antonio Stradivari erano arricchite con cristalli minerali sub microscopici; individuati ventidue, ma potrebbero essercene anche altri. Dalle prove condotte, sappiamo anche che Stradivari utilizzava una preparazione vitrea, composta di potassa, silice e carbone per rinforzare il legno che si cristallizzava. A seguire, applicava un isolante, preparato con albume, miele, zucchero e gomma arabica. Per poi stendere la vernice che riusciva a non impregnare completamente il legno del violino. Questo gli ha permesso di resistere al tempo.
I legni utilizzati dal celebre liutaio erano l’acero dei Balcani per costituire il fondo, le fasce e il manico dello strumento e l’abete rosso della val di Fiemme, specie quello dei boschi di Paneveggio per creare la tavola armonica. Imbevuti nel bagno chimico di alluminio, calcio, rame, sodio, potassio e zinco tenevano lontano funghi e parassiti, diceva il Maestro, oppure il complesso iter nascondeva anche un altro scopo?
Non avendo traccia storica che lo confermi, non possiamo affermare che abbia conosciuto esponenti del movimento alchemico del suo tempo. Sappiamo, però, che dalla seconda metà del XVI secolo, i trattati sulla materia si erano diffusi ovunque, anche in Italia. Quindi, l’ipotesi potrebbe essere realistica.
Supposizioni a parte, io credo che sia la relazione viscerale tra passione e opera dell’artista il vero segreto legato al grande Antonio Stradivari.