Caso o destino?

Cari, audaci, lettori,

se sia il caso o il destino a dominare gli eventi non sono ancora riuscita a capirlo, ma poco importa.

Quello che mi arricchisce in entrambe le versioni è la storia affascinante che ne deriva.

Le spoglie di Dante, custodite con orgoglio dalla città di Ravenna, ne sono un esempio eclatante.

Il 27 maggio 1865 il giovane Anastasio Matteucci passeggiava nei pressi del Quadrarco di Braccioforte, a Ravenna.

Avrebbe dovuto trovarsi altrove, a imparare il latino come studente del Liceo Santalbertese,

eppure quel mitico giorno decise di perdere tempo, osservando alcuni muratori che stavano scavando nella zona,

proprio nel momento in cui il capo mastro, Pio Feletti, fermava i lavori esclamando «Ai sé burdèl!»

che corrisponde pressappoco a un entusiastico «Ci siamo, ragazzi!»

L’esperto muratore pensava di aver trovato un tesoro nella cassetta che aveva appena dissotterrato, ma fu deluso.

Invece dell’agognato oro, vi trovò delle ossa.

Stizzito, stava per lanciarla fra i detriti accumulati dallo scavo, ma il ragazzo fu più veloce.

Afferrò la cassetta, attratto dalla scritta latina posta sopra il coperchio “Dantis ossa a me fratre Antonio Santi hic posita” e quello che sembrava un giorno qualunque divenne leggenda.

«Sono le ossa di Dante!» esclamò, commosso Anastasio Matteucci, salvando così per la seconda volta le spoglie del sommo poeta.

La prima accadde nel ‘500 a opera dei padri Francescani, allora custodi dei resti umani di Dante, morto nel 1321, a Ravenna.

Rifiutandosi di obbedire al desiderio di papa, Leone X, poco prima dell’arrivo della delegazione,

nascosero le ossa nel loro convento fino al 1810.

Quando furono costretti ad abbandonare l’edificio, sotterrarono i resti di Dante nella zona del Quadrarco di Braccioforte, sperando che un giorno fossero ritrovati.

Ora ditemi voi! Caso o destino?

 

Bibliografia “Ravenna curiosa” di Franco Gàbici

https://www.google.it/maps/place/Quadrarco+di+Braccioforte/@44.4162198,12.200877,17z/data=!4m14!1m7!3m6!1s0x477df956d7841af3:0xc0e97b568b906d1c!2sQuadrarco+di+Braccioforte!8m2!3d44.4161276!4d12.2007269!16s%2Fg%2F11hbgh4dr0!3m5!1s0x477df956d7841af3:0xc0e97b568b906d1c!8m2!3d44.4161276!4d12.2007269!16s%2Fg%2F11hbgh4dr0?entry=ttu&g_ep=EgoyMDI0MTIwNC4wIKXMDSoASAFQAw%3D%3D

foto di proprietà dell’autrice

 

L’anima di Stradivari e il segreto del successo

Cari, audaci lettori,

che siano spine nel fianco per chi li custodisce o respiri salutari per gli appassionati del genere, i segreti fanno parte della vita sin dagli arbori dell’umanità e tuttora restano il sale del tessuto sociale.

Per ben cominciare, scelgo quello che a mio parere resta il più grande fra i grandi: il segreto dei violini Stradivari.

Non sono una musicista e nemmeno un’esperta della materia, eppure, ogni volta che sento suonare un violino Stradivari ogni fibra del mio essere vibra e non posso fare a meno di fermarmi ad assorbirne il suono.

Succede anche a voi?

Sono estasiata e grata del felice momento durante l’ascolto e ho la sensazione di accordarmi alla melodia.

Questo, però, mi accade solo con gli Stradivari.

Assurdo, dite? Forse lo è, ma pensate all’esperienza del suono di uno Stradivari. Nei secoli è rimasta vivida nell’immaginario collettivo, tanto da arrivare fino a noi. Un’emozione spontanea che trascende il tempo è qualcosa di straordinario.

Ecco perché scelgo Antonio Stradivari o, meglio, il segreto dei suoi violini per inaugurare la mia nuova rubrica.

Il mito nasce con il celebre Antonio Stradivari. Della sua vita conosciamo poco, persino la data di nascita è incerta, stimata fra il 1643 e il 1649. Non abbiamo neppure la certezza che sia di origine cremonese.  Sappiamo solo che nel 1676 lascia l’esperienza maturata come allievo di Nicola Amati, liutaio di Cremona, per creare il suo modello di “violino ideale”. Lo termina intorno al 1700, facendo esperimenti con i materiali utilizzati e ottenendo lo strumento che sarà adorato dal pubblico del suo tempo e delle successive generazioni. E non solo. Oggi i violini Stradivari hanno una quotazione di vendita stratosferica, oltre i due milioni di euro.

Gli esperti affermano che il segreto dell’immortalità di Stradivari risiede nell’unicità e nell’equilibrio del timbro dei suoi violini. Ed è così; è stato dimostrato da un’indagine condotta dal Cnr e pubblicata sul “The Journal of the Acoustical Society of America” nel 2022.

Lo studio, condotto con l’ausilio di settanta liutai, mirava a stabilire quale tra quattro violini diversi (due moderni, uno di fabbrica e uno Stradivari) selezionati e ascoltati in “doppio cieco” avesse il timbro sonoro migliore, attraverso l’ascolto di cinque note musicali.  La preferenza cadde sullo Stradivari senza alcuna esitazione.

Per ascolto in “doppio cieco” si intende un esperimento condotto senza che gli ascoltatori e gli sperimentatori sappiano quale violino stia suonando al momento dell’ascolto.  Utilizzando lo stimolo sonoro della scala musicale, poi, si ottiene che i giudizi siano determinati solo dal timbro del violino e non da elementi esterni, legati alla preferenza o antipatia per un particolare brano suonato”.

Quello che mi colpisce dello Stradivari è la capacità di far brillare l’anima nel profondo e così a lungo da toccare i secoli in un istante.

Nel documentario “Falling for Stradivari”, in visione streaming sulla piattaforma Now, la musicista Janine Janser è chiamata a suonare dodici Stradivari, dimostrando che ognuno dei violini a disposizione ha caratteristiche e dinamiche diverse.

Se non l’avete ancora visto, vi consiglio di non perderne la visione.

Ed ecco, le mie impressioni a riguardo.

Il violino “Tyrrell” del 1717 appartiene al periodo più produttivo e magistrale di Stradivari. È uno dei violini Stradivari meglio conservati. Poco usurato, dotato di estrema lucentezza, ha un timbro rotondo e corposo.

L’ “Alard” del 1715, produce un suono grave, malinconico, struggente.

Il “Capitan Savel” del 1680, uno dei primi Stradivari, ha un suono cupo. Aspetto, colore e suono sono diversi da quelli del periodo d’ oro. Mi trasmette concretezza, solidità e impegno.

Il “Milstein” del 1716 è tra i miei preferiti. Il suono è tra i più limpidi che abbia mai sentito.

Ascoltandolo, percepisco persino le note disegnare l’aria. Deciso, versatile, denso di dolcezza e vitalità, cattura facilmente la mia attenzione.

Anche l’”Hubermann Kreisler” del 1733 ha il vibrato acuto che sa commuovermi.

Il “Kreisler” del 1734 ha un suono altezzoso, pungente, quasi che il violino fosse oltraggiato dall’ essere suonato.

Il “San Lorenzo” del 1718, uno dei venti grandi violini, ha un suono elegante e sofisticato. Adatto a celebrare, commemorare, amare da lontano, come in una romanza. Ha impresso su entrambi i lati le parole” gloria, ricchezza e giustizia”. Credo sia d’interesse sapere che fu un regalo di nozze donato da Stradivari al musicista Mauro D’Alay.

Per concludere, i violini creati da Stradivari mantengono l’anno di creazione, ma alcuni assumono il nome dei proprietari più illustri a cui sono appartenuti. È questo il senso dei nomi a loro assegnati.

La vernice, il legno e i minerali impiegati per la realizzazione dei celeberrimi violini sono senz’altro parte del segreto, ma credo che ci sia di più da scoprire.

Antonio Stradivari lavorò fino alla fine della sua esistenza, morendo il 18 dicembre del 1737, alla veneranda età di novantatré anni.

La ditta “W.E. Hill & Sons” (“Hill”), ha stimato che il mitico liutaio cremonese, Antonio Stradivari, costruì mille centosedici strumenti, di cui seicento novanta violini. Di questi, quattrocentocinquanta violini Stradivari risultano sopravvissuti al tempo.

Cosa spingeva l’anziano Stradivari a ricercare la perfezione? Non poteva trattarsi il bisogno materiale, già nel 1710 il suo lavoro era riconosciuto e remunerato come eccellenza italiana.

Allora, perché non si fermava a riposare?

Il suo sembra un bisogno atavico, incontrollabile, che spingeva la sua passione al limite.

Che la chiave del suo segreto fosse la passione? Genuina, ma anche imprescindibile dalla sua persona, forse fu la passione a regalargli il sogno di eternità, a imprimere l’essenza e l’energia appresa sulla terra dal noto liutaio nei suoi violini.

Non abbiamo materiale per dimostrare che Antonio Stradivari fosse dedito o affiliato agli studi alchemici, eppure il successo ottenuto mi porta a riflettere.

La scienza ci aiuta a capire il procedimento utilizzato da Antonio Stradivari per la realizzazione dei suoi mitici strumenti, vediamo come.

Uno studio dell’Università di Cambridge, analizzati i frammenti di un violoncello realizzato da Antonio Stradivari nel 1711, ha concluso che l’elemento determinante contenuto nella vernice sia cenere vulcanica.

Un gruppo di scienziati della Texas A&M University, College Station, diretti da Joseph Nagyvary, ha dimostrato che le vernici usate da Antonio Stradivari erano arricchite con cristalli minerali sub microscopici; individuati ventidue, ma potrebbero essercene anche altri. Dalle prove condotte, sappiamo anche che Stradivari utilizzava una preparazione vitrea, composta di potassa, silice e carbone per rinforzare il legno che si cristallizzava. A seguire, applicava un isolante, preparato con albume, miele, zucchero e gomma arabica. Per poi stendere la vernice che riusciva a non impregnare completamente il legno del violino. Questo gli ha permesso di resistere al tempo.

I legni utilizzati dal celebre liutaio erano l’acero dei Balcani per costituire il fondo, le fasce e il manico dello strumento e l’abete rosso della val di Fiemme, specie quello dei boschi di Paneveggio per creare la tavola armonica. Imbevuti nel bagno chimico di alluminio, calcio, rame, sodio, potassio e zinco tenevano lontano funghi e parassiti, diceva il Maestro, oppure il complesso iter nascondeva anche un altro scopo?

Non avendo traccia storica che lo confermi, non possiamo affermare che abbia conosciuto esponenti del movimento alchemico del suo tempo. Sappiamo, però, che dalla seconda metà del XVI secolo, i trattati sulla materia si erano diffusi ovunque, anche in Italia. Quindi, l’ipotesi potrebbe essere realistica.

Supposizioni a parte, io credo che sia la relazione viscerale tra passione e opera dell’artista il vero segreto legato al grande Antonio Stradivari.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mormorìo del mare

 

La marchesa uscì alle cinque. Quella mattina, Rose si sentiva pronta per affrontare la giornata.

Ancora non sapeva definire il sentimento che provava, ma era finalmente lucida e voleva ascoltare il mare.

Qualcuno le aveva sussurrato il consiglio durante una delle tante notti insonni, trascorse a ballare forsennatamente e a trangugiare margarita, il suo cocktail preferito.

«Hai mai ascoltato il mormorio del mare all’alba?» le aveva sussurrato l’affascinante Hugò dai tratti mediterranei, stringendola in un lento appassionato.

Rose de Cotillon aveva scosso i lunghi boccoli corvini. No, non lo aveva mai fatto. Anzi, lei evitava accuratamente il mare.

«Potremmo farlo insieme domani» le aveva risposto ancora Hugò.

La pelle diafana della giovane marchesa, quasi trasparente, non le garantiva un’esposizione gradevole al sole, ma la mattina di quel sabato di giugno, il tre per l’esattezza, il cielo plumbeo prometteva una giornata senza sole.

Rose scese i settantacinque gradoni di legno, incastonati nel folto bosco di lecci, e raggiunse la spiaggia della “Paolina”, di un fine color cipria.

La ragazza chiuse gli occhi, annusando il profumo del mare. Avvertiva il suono delle onde infrangersi sulla battigia, i gabbiani gracchiare in lontananza e un rumore di passi che si avvicinavano.

«Buongiorno, Rose.»

La vivace marchesa riconobbe la voce di Erinne e abbozzò un sorriso di circostanza, lasciando che si sedesse sullo scoglio accanto a sé, limitandosi a ricambiare il saluto.

Erinne e Rose si conoscevano dai tempi del liceo. Non erano amiche, ma la condizione altolocata di entrambe aveva permesso loro di restare in contatto.

Le due erano completamente diverse. E non solo per l’aspetto fisico. Eppure, avevano gli stessi gusti in fatto di ragazzi.

«Allora? Non mi hai ancora raccontato di Hugó!»  disse la bionda Erinne, spezzando il silenzio imbarazzante che si era creato.

Nemmeno sotto tortura le avrebbe raccontato spontaneamente del suo ultimo flirt, così Rose alzò le spalle, mordendosi le labbra, pronta a mentirle.

Non ce ne fu bisogno.

«Ecco Hugò!»  riprese Erinne, alzandosi in piedi a salutare il ragazzo che sopraggiungeva da solo. Lo baciò sulle guance.

Rose restò seduta, invece. Un broncio accattivante le disegnava il volto dai lineamenti regolari.

«Pronte per la seduta?»  chiese Hugò a entrambe, pur rivolgendo lo sguardo solo sulla marchesa.

Rose scosse la testa, cercando di capire.

«La seduta spiritica, ti ho invitata ieri, ricordi?»

Certo, la seduta. Rose era ubriaca persa, come al solito, e lo aveva ascoltato appena. Ma pensava stesse scherzando. O meglio, approfittando dell’occasione per rivederla.

Invece, si sbagliava. Decisamente. E non solo per la presenza di Erinne. Guardava Hugó impegnarsi per rendere credibile la seduta all’ aperto.

In effetti, il ragazzo le aveva raccontato della sua passione per il soprannaturale, ma Rose aveva soprasseduto. Perché gli piaceva, naturalmente.

E, come al solito, quando si infatuava perdeva il senso della realtà.

L’italiano srotolò una stuoia e le posizionò ai lati quattro fiaccole di bambù. L’odore dell’olio delle fiaccole si mescolò a quello salmastro del mare, creando uno strano connubio.

«Il mormorio del mare è la nostra chiave in codice, l’ha inventata Hugò per rendere segrete le sedute. Non è fantastico?» intervenne Erinne.

No, per la marchesa non lo era per niente, soprattutto ora che aveva avuto conferma di avere una spietata concorrenza.

«Andiamo, Rose. So che non ci credi, ma cos’hai da perdere? E poi è più salutare che scolarsi drink ogni notte» le disse Hugò.

Rose accusò il colpo, maledicendo la sua parlantina.

Preda dei fumi dell’alcool, notte dopo notte gli aveva raccontato del rapporto tempestoso con sua madre, bruscamente interrotto tre mesi prima.

Da lei aveva ereditato il titolo di marchesa e ancora non sapeva come gestirlo.

Con un sospiro, Rose si unì ai due compagni d’avventura, prendendo posto sulla stuoia e chiudendo il cerchio.

Si aiutò con il respiro controllato, lasciando che le parole pacate di Hugò la calmassero.

«Qualunque cosa accada, tenete strette le mie mani e non lasciate il cerchio.»

Rose trattenne a stento uno sbadiglio. Non aveva dormito per essere puntuale all’appuntamento con Hugò e adesso sentiva tutta la stanchezza della notte insonne.

«Siamo composti da materia ed energia. Oggi, ci concentreremo sulla nostra energia per accedere al mondo immateriale» proseguì il ragazzo.

Erinne, gli occhi socchiusi e le labbra distese in un sorriso storto, accettava passivamente l’esperienza. Ma non lei. La marchesa, Rose De Cotillon, non credeva ai fantasmi. Alla cattiveria umana sì, anche lei ne era stata artefice e vittima a sua volta, ma all’Aldilà? No, niente sopravviveva al piano materiale.

Erano solo giochi infantili, niente di più, non poteva accaderle niente di terribile dall’esperienza, a meno che si fosse sparsa la voce.

L’ultima cosa di cui aveva bisogno era essere additata dalla stampa come una strana, pensava la marchesa.

Intanto, il sorgere del sole, anche se oscurato dalle nubi, aveva cambiato la luce sulla spiaggia e Hugò iniziò il suo dialogo interiore.

L’ atteggiamento scettico di Rose non le impediva comunque di osservare la scena.

L’ isola d’ Elba era ancora deserta quando Hugó pronunciò le fatidiche parole:

«Henriette De Cotillon, sei qui?»

Nessuna risposta. Il silenzio ancora pervadeva il tratto dell’Isola

D’ Elba, osservato dai tre ragazzi.

«Rose?»

La marchesa annuì, comprendendo che doveva essere lei a farlo.

«Mamma?»

Il vento le sibilò in risposta.

Non aveva mai interagito con sua madre. Complice la ricchezza della famiglia, c’erano state tante, troppe distrazioni a frapporsi fra le due per costruire un rapporto affettuoso. Ma Hugò la sollecitava e lei non riusciva a negargli niente. Non ancora, perlomeno. Perciò decise di essere sincera, liberando le emozioni finora soffocate.

«È strano. Ora che vorrei parlarti tu non ci sei più ad ascoltarmi.»

Un tonfo in acqua sorprese i tre che sobbalzarono al rumore improvviso. A Erinne scappò una risata isterica. Hugò e Rose, invece, si girarono a guardare se ci fossero estranei, facendo sempre attenzione a non rompere il cerchio, ma non videro nessuno.

«Ecco, volevo solo dirti che ti voglio bene. Mi dispiace per il tempo che abbiamo perso. Ora so che non potrò più recuperarlo e mi fa male.»

La sabbia vicino al cerchio umano vorticò in risposta. Quando si fermò, i ragazzi poterono leggere la parola registrata dal vento. In due decimi di secondo, un semplice “sì” provocò la risata di Hugò, lo sguardo frastornato di Rose e l’urlo di Erinne.

La marchesa adesso era completamente sveglia. Una scarica di adrenalina l’aveva scossa alla vista delle due semplici sillabe.

Hugò si limitò a stringere le mani delle due compagne di viaggio, infondendo loro la calma necessaria a proseguire la seduta.

«Mamma, non ti dimentico. Ci sarai nelle nuove azioni che compirò come marchesa.»

Erinne e Hugò rimasero in silenzio, stavolta. Entrambi sapevano che in nessun caso dovevano interrompere il flusso emozionale di Rose.

Intorno a loro, il vento aveva ripreso a spirare, scompigliando i lunghi capelli delle due ragazze.

«Quando mi raccontavi la storia del nostro titolo, credevo che fossi pesante, troppo puntigliosa e snob. Non avevo capito che lo avrei ereditato in ogni caso, solo per il fatto di essere la tua sola figlia femmina. Ma tu lo sapevi. Perché non me lo hai detto?»

Un raggio di sole squarciò il cielo, creando un grafismo color oro sulle nubi. Hugò spalancò gli occhi per la sorpresa. Non aveva mai visto una runa disegnata in aria. Memorizzò ogni tratto, sperando di poterlo ricordare e studiare in seguito.

«La mia strada è un cammino che non posso più ignorare. Adesso ne sono consapevole.»

Rose fece una pausa e l’atmosfera sembrò rarefarsi sotto l’assalto di un vento che da tiepido, ora spirava gelido, imperversando sulla spiaggia.

«Non sarà come il tuo, però. È per questo che non ho voluto parlarne al funerale. Ho scioccato tutti i presenti, lo hai visto anche tu?»

Un sussurro nel vento le riportò una risata come risposta.

«Niente più raccolte fondi, niente galà, niente convegni. Cercherò un percorso tutto mio per aiutare gli altri senza sprecare altro tempo.»

Rose concluse il suo monologo. Ancora non ci credeva, non stava parlando a sua madre. Sicuramente era stata la mancanza di sonno delle ultime notti a mostrarle i fenomeni, ma le aveva fatto bene esternare il dialogo.

Un anomalo refolo di vento colpì un’onda. L’ acqua di mare roteò fino a generare un mulinello in aria. Per un istante, assunse la forma di una donna sorridente per poi cadere a riva e ritornare allo stato naturale. Si trattò di un attimo, ma fu sufficiente. Le lacrime che finora non era riuscita a versare bagnarono il viso della giovane marchesa.

Il cerchio si sciolse.

In silenzio, i tre ragazzi raccolsero il materiale sulla spiaggia.

«Stasera cocktail lounge?» chiese Erinne, piccata per la piega inaspettata della seduta. Come sempre, quando arrivava Rose si prendeva la scena e ormai non riusciva più a sopportarlo.

Nessuno dei due ragazzi le rispose.

«Ne vuoi parlare?» disse, invece, Hugò.

Rose scosse la testa.

«No, ho bisogno di tempo per metabolizzare.»

Il sorriso accecante di Erinne non rovinò il momento a Rose. Sapeva di aver sbagliato finora, era necessario che capisse come rimediare al meglio.

La marchesa non aveva più bisogno di essere perdonata per la superficialità della sua condotta. Era riuscita a dirlo a sua madre, finalmente. Voleva essere se stessa senza più compromessi. Senza il peso di un’eredità scomoda. Doveva solo trovare il vento giusto per lei, quello che l’avrebbe aiutata a salpare.

Racconto pubblicato in TCN 

Istantanee di un’anima ribelle

Dopo “La famiglia Meomeo e l’ospite pancione, vi presento il mio nuovo libro “Istantanee di un’anima ribelle”.

Cliccando “Buy on Amazon”, potrete avere il mio nuovo ebook.

Fra gli altri, in chiave misteriosa, troverete la vicenda della miniera di Marcinelle, la versione romance di una giovane Marie Curie, un micro- giallo e brani che affrontano i rapporti interpersonali con leggerezza.

Il filo conduttore rimane la condizione umana, declinata in vari generi letterari con uno sguardo vigile sul nostro futuro prossimo e incursioni nel passato.

Se volete farvi un’idea più dettagliata del contenuto, qui di seguito, vi propongo la sinossi dei trenta racconti che compongono la raccolta.

 

 

Sinossi racconti:

01 Sic Est

Uno sguardo al prossimo futuro della Terra e del genere umano.

Ce lo racconta Elisya, trentenne geologa terrestre, alle prese con la sua prima gravidanza.

 02 Tormento

Ronnie Ducci, giornalista romano affermato, di fronte alla sua ex compagna di liceo ritrova di nuovo il timido ragazzo, colpevole di tanti errori del passato. Riuscirà a superare le sue fobie o sarà costretto a conviverci?

03 Faith

Quanto ci condizionano le superstizioni? Lo scoprirete con Faith, veterinaria del Parco di Introd, in Valle d’Aosta.

04 Il cammino della pioggia

Scritto come omaggio della saga “Matrix”, il racconto brevissimo narra la vicenda di Hilde e Scilla, due sorelle particolari, così come è insolito il legame che le unisce.

05 MeCHo (Medical Clinic Home)

Uno sguardo su un possibile futuro. A ciò che potrebbe accadere se solo le risorse fossero gestite da persone geniali, capaci di rendere la tecnologia un bene a disposizione di tutti. Questo è” MeCHo”.

06 Il futuro negli occhi

La Tecnologia è il nostro vanto, la nostra conquista. Ma anche il progresso ha un lato oscuro che deve essere monitorato. Prima ne saremo consapevoli e migliore sarà il Mondo che lasceremo ai nostri figli!

07 Marta, l’eroina

Sono sempre gli atteggiamenti a rovinare i rapporti. Il racconto si sviluppa sulle prime esperienze di Marta a contatto con l’universo maschile. Una sfida di carattere, una conquista di consapevolezza verso se stessa e gli altri.

 08 La leggenda della tartaruga che non voleva nuotare

Amore e ossessione possono essere i due volti della stessa medaglia. Ma non è sempre facile riconoscerne gli effetti.  È quello che vive Alice all’interno del brano.

09 Pulcini

Dialogo a due, discutendo d’amore.

10 La cosa giusta

Il miracolo del Natale, quello vero!

11 L’insolito colore del cielo

Una battuta di caccia, una veterinaria e un tenente carabiniere affrontano un cinghiale fantasma. Mito e realtà a confronto.

12 Monella

Antonio è un pilota, drogato di adrenalina e corse. Insieme alla sua “Bmw M-serie 3 berlina” partecipa alla corsa più calda dell’anno. Lo accompagna Jeremia, un essere speciale, non previsto dal regolamento della gara, ma a cui Antonio non può negare il passaggio. Il dialogo fra i due aiuta il protagonista ad essere finalmente consapevole dei suoi comportamenti ossessivo compulsivi.

13 Loop

Un micro-giallo ambientato in azienda. Un industriale ucciso nel proprio ufficio. È il quinto della stagione e il Vicequestore, Andrea Nenni, ancora brancola nel buio. Una sola luce, una prova inoppugnabile a suo vantaggio gli basterà per fare giustizia?

 14 Quando Venere incontra Marte

Spassoso dialogo interiore di una trentenne alle prese con l’ansia dei primi appuntamenti.

15 La via di casa

Il filo che lega le nostre vite è così nascosto nelle pieghe del tempo da sembrarci invisibile. Ma per alcuni istanti può cambiare colore, diventare rosso e permetterci di sbirciare attraverso il velo che ci tiene ancorati a terra. È quello che accade a Luca Tamberi, dirigente d’azienda, un fatidico Natale, poco prima di raggiungere la casa della sua infanzia.

16 Radiografia

Giada è una quarantenne alle prese con se stessa e la vita. Sarà finalmente sincera, parlando d’amore?

17 L’impatto

Venerdì, 17, ore 14:35 potrà mai essere un giorno felice? Ci prova a spiegarlo Alberto, un Broker di Piazza Affari alle prese con un incubo.

18 Lo scherzo

Milano, 11 novembre 1926. La Trattoria Bagutta è già uno dei locali più frequentati dai giornalisti e artisti della città. Alice è una giovane cameriera appena arrivata in città, in cerca di lavoro. Ama i libri e la cultura. Ed è proprio al Bagutta che scoprirà come unire l’utile al dilettevole, scoprendo il suo talento nascosto.

19 Starleyet

Di tutto quello che conosciamo, le stelle rimangono la parte oscura, la più misteriosa dove buio e luce si incrociano. In questo lampo di luce, Starleyet racconta la sua leggenda.

20 Il portale inespresso

Goriot e Finnie sono amici, ma appartengono a mondi diversi.

Riusciranno ad appianare le divergenze che li separano solo volendosi bene?

21 L’incompreso

La realtà è una patina di ghiaccio, spessa o sottile a seconda di chi ci guarda. Può restare immobile oppure rompersi, regalandoci un tuffo nell’infinito. Accade a una comitiva di amici in questo brevissimo racconto.

22 Paranoia

Il peggior incubo può diventare realtà se un ragazzo decide di coltivare al buio il suo sinistro talento.

 23 Fuori di qui

Luca è uno studente di Psicologia, ambizioso e caparbio. È capace di tutto, pur di dimostrare le sue teorie sulla “sindrome da dimenticanza”. Persino calpestare una persona.

24 Effetto domino

Etica e realtà possono convivere oppure è solo un’illusione?

È il dubbio che angustia Ines Delgado, insegnante ispanica, emigrata a Milano.

25 La cucina di Sophia

Elsa è una ragazza che non ama le imposizioni, soprattutto quelle genitoriali. La morte della madre, Sophia, però, la costringe a tornare a casa, nella cucina e trattoria che l’ha vista crescere, per riflettere sul suo percorso. Non limitandosi a sentire le parole, ma ascoltando finalmente la voce nascosta delle sue emozioni.

 26 Virtual books

Ebola Contea di York 3527 d.c.

Il barbaro Kullermo e il suo compagno di sventura, Don Abbondio da Lecco, sono i protagonisti di questo micro-fantasy dove la realtà virtuale supera i confini conosciuti.

Pro e contro di universi in conflitto.

27 La matricola

Il viaggio verso la conoscenza emoziona la giovane Marie, matricola presso l’Università della Sorbona, a Parigi.

 28 Pagina venticinque

Una biblioteca misteriosa, un custode e un consulente sono i protagonisti di questa storia dai contorni fantasy.

 29 Dicotomia di un dettaglio

Belgio. Charleroi. 8.08.1956. L’incendio nella miniera di carbone nell’ area di Bois du Cazier a Marcinelle, provocò la morte di 262 minatori, di cui 136 italiani.

In ricordo della tragedia, oggi la miniera Bois du Cazier è patrimonio Unesco.

Il racconto narra la vicenda romanzata in chiave misteriosa del disastro di Marcinelle dalla parte di sei vittime che, inspiegabilmente, ritornano fra noi.

Nel 2003 la “Rai” ha ricordato tale catastrofe con la miniserie televisiva Marcinelle.

Nel 2006 l’89º “Giro d’Italia” è partito dal Belgio in omaggio alle migliaia di emigrati italiani di quelle zone.

 30 Il Circus in fabula

Luc de Girac è un artista con uno spiccato senso estetico.

Ha più passioni e una bellissima collezione da foot locker che condivide con il suo pubblico.

Ama il teatro di strada, ma riuscirà in poche battute a conquistare la platea?

La strana vita di Penelope Patton

Le esperienze temprano il carattere. Anche in quelle più complicate, il ritorno di energia è sempre assicurato.

Penelope Patton, questo lo credeva. E, di più, lo ricercava.

La donna amava circondarsi di amici. Le piaceva il cicaleccio della gente nei ristoranti.

Persino al cinema sopportava i rumori di sottofondo senza scomporsi.

Penelope aveva da poco superato i quaranta.

Era una bionda naturale, così soleva rammentare al suo parrucchiere ogni mese, invitandolo a tingerle i lunghi e folti capelli di uno scioccante biondo platino.

Si riteneva una persona di media intelligenza. Né troppa né troppo poca, diceva alle amiche, sorridendo alla vita.

Di formazione cattolica, rigidamente imposta fin dalla nascita, Penelope aveva fatto del credo una sorta di bandiera contro le avversità della vita.

Non aveva figli. E nemmeno un marito. Qualcuno aveva bussato alla porta in passato, ma nessuno le era mai sembrato adatto a ricoprirne il ruolo a titolo permanente.

Eppure, Penelope credeva ancora che l’amore stesse arrivando anche per lei, solo che il suo era in dannatissimo ritardo. Era una cosa che stava imparando a comprendere, il ritardo.

Esattamente da quando le era stato notificato il trasferimento della sua posizione impiegatizia a Milano, aprendo il campo a nuove esperienze.

Alle ore sette, di martedì diciassette, la banchina della stazione ferroviaria monzese brulicava di persone che non conosceva.

Il treno S9 era in ritardo. Come al solito, mormoravano i pendolari, intorno a lei. Penelope, però, non poteva ancora affermarlo, era la prima volta che viaggiava in treno.

Si sentiva a disagio, ma cercava di nasconderlo, fingendo di controllare il suo cellulare.  Nemmeno osservare le reazioni stralunate delle persone che stavano attendendo con lei riusciva a calmarla.

L’arrivo del treno fu accompagnato dal fischio stordente del controllore che sollecitò la chiusura delle porte. Penelope, presa alla sprovvista, si lasciò trascinare dal fiume umano dei pendolari, salendo a sua volta sul mezzo.

Quindi, rimase in piedi a fissare il balletto degli sconosciuti che in pochi secondi si erano già appropriati dei posti a sedere.

Si sarebbe concessa una bella risata se fosse stata serena, ma le sue labbra rimasero chiuse, primo sintomo che qualcosa non andava.

Il rollio del treno in transito le causò subito nausea. Serrò le labbra, trattenendo a stento i conati e si aggrappò alla maniglia del sedile più vicino a lei.

Chiuse gli occhi. La respirazione modulata che applicò riuscì nell’ intento di calmarla, ma non sopì l’istinto atavico di voler scendere subito dal mezzo.

Penelope lo ignorò. Un passo alla volta e una voce guida che annunciava le fermate, ecco quello che le serviva per superare l’ostacolo e raggiungere il traguardo.

Penelope ne era consapevole, lucida a sufficienza per leggere i cartelli delle stazioni successive, compresa la sua, quella di Milano Lambrate.

Infatti, la vide ma non riuscì a fare altro che osservarla passare. La ressa alle porte le indicava l’uscita, eppure Penelope non si mosse.

Un uomo liberò il posto e la fece sedere. Fu un atto gentile che segnò la fine.

Arrivò al capolinea, esattamente dieci fermate dopo la sua e, finalmente, riuscì a scendere dal treno.

Non senza l’aiuto del controllore che la scortò a terra, trattenendola per il braccio.

E adesso, che poteva fare?

«Per tornare indietro, il prossimo parte fra dieci minuti al binario 4» le disse il controllore, per poi lasciarla sola.

Penelope o, meglio, il corpo di Penelope, si rifiutò di riprendere il treno nella direzione opposta.

Era ancora incredula per l’esperienza appena vissuta. Mai avrebbe pensato di essere fobica. A Monza utilizzava l’ autobus per spostarsi senza nessun tipo di problema.

Eppure, con il treno le era successo. Stavolta Penelope assecondò l’istinto. Scelse un taxi per raggiungere la nuova sede di lavoro, dimenticandosi della disavventura fino al termine dell’attività lavorativa. Ma la sera, per il rientro a Monza, il panico vissuto la mattina le ripresentò il conto.

La salata riflessione la portò a due considerazioni: poteva prosciugare entro pochi giorni il conto in banca, fruendo ancora del trasporto taxi, oppure dare fiducia alla nuova esperienza. E magari, provare anche a sorriderci. Scelse rapidamente la seconda, affrettandosi a raggiungere la stazione ferroviaria di Milano Lambrate.

La sera, il popolo dei pendolari era ancor più numeroso del mattino. E questo le diede coraggio. Se in tanti riuscivano a scendere dal treno, perché mai lei non sarebbe riuscita nell’intento? Si trattava solo di una questione di volontà. Di coraggio e volontà, promise a se stessa.

Appena salita, Penelope decise di non sedersi, memore dell’esperienza disastrosa del viaggio di andata. Così, forse, le gambe avrebbero obbedito al comando, non mancando la stazione di Monza.

«Si sente bene?»

Penelope si limitò ad annuire, restando aggrappata alla maniglia posta a lato del sedile passeggero.

«È capitato anche a me» proseguì lo sconosciuto «vuole sedersi?»

E Penelope sorrise. Scosse la testa in segno di diniego, rivolgendo lo sguardo degli occhi blu cobalto verso l’uomo brizzolato che la stava osservando a sua volta. Aveva giusto bisogno di solidarietà gratuita.

«Scende a Monza?»

«Sì.»

«Le sarei grata se mi aiutasse per la discesa dal treno.»

L’uomo annuì, pur non capendo la difficoltà della bella donna. Pensava che avesse avuto un capogiro. Non vedeva difetti di deambulazione in lei. Anzi, le gambe affusolate che spuntavano da sotto il completo elegante erano un piacevolissimo spettacolo a cui non voleva rinunciare.

Così l’ assecondò.

«Io sono Alberto, piacere!» disse, soltanto, tendendole una mano.

Penelope la strinse, sentendosi meglio. Ancora non staccava la mano sinistra dalla maniglia del sedile, ma parlare le stava facendo bene.

«Penelope» gli rispose.

«Ancora quattro fermate e saremo a Monza.»

La donna annuì, stringendo le labbra, ma stavolta non era il panico a parlare. I piedi stretti nelle décolleté” color carne, tacco dieci, le rendevano difficile pensare ad altro che non fosse l’insolita situazione in cui si trovava.

Era abituata ai tacchi fin da ragazzina. Persino quando si spostava in bicicletta non rinunciava mai all’eleganza del piede femminile fasciato da una scarpa d’eccezione, come la “Mary Jane”, ad esempio, con il cinturino nero di vernice risultava comoda e affascinante al contempo. Eppure, adesso i piedi le dolevano terribilmente. Ed era un evento inspiegabile per lei.

«Monza, stazione di Monza» pronunciò finalmente la voce elettronica in filodiffusione e Penelope sospirò.

Strinse fra le sue la mano dello sconosciuto e si preparò a scendere dal treno. Impresa che si rivelò più difficile del previsto.

A differenza del treno del mattino, munito di porte a chiamata con apertura automatica, il mezzo aveva maniglie di color rosso pomodoro.

Naturalmente, fu Alberto a proporsi. Cercò di aprire le ante del vecchio treno regionale con tutta la forza che aveva, non appena il treno si arrestò.

Ci riuscì solo al terzo tentativo, imprecando contro non si sa quale dio della meccanica.

Le porte sferragliarono, ma obbedirono finalmente al comando, consentendo ai viaggiatori di scendere dal treno.

E Penelope sorrise, ringraziando la provvidenza che le aveva fatto incontrare Alberto.

Dopotutto, la prima giornata a Milano si era rivelata sorprendente.

Era questo il bello della vita, lasciarsi sorprendere dalle esperienze impreviste e farne tesoro.

Penelope aveva imparato tanto di sé, compreso come gestire un attacco di panico, e aveva conosciuto un nuovo amico.

Soddisfatta di come fosse sopravvissuta al primo giorno sul treno, non diede retta a nessuno dei consigli che le propinarono i suoi familiari, informati dell’accaduto.

In particolare, alla vocetta stridula di sua madre che al telefono la implorava di non recarsi al lavoro, l’indomani.

«Prendi malattia. Devi capire perché ti è successo» la implorò ancora la sua anziana genitrice.

«È stata provante, ma domani andrà meglio, ma’. Mi basta solo dormire bene stanotte!» concluse Penelope, serafica.

Del resto, Alberto le aveva promesso di esserci e, comunque, i passeggeri non mancavano a Monza. In ogni caso avrebbe trovato qualcuno disposto ad aiutarla.

Il mattino seguente Penelope aveva recuperato le forze e persino il buonumore, nonostante fosse in netto ritardo sulla tabella di marcia.

Arrivata in stazione, non vide Alberto, ma non se ne preoccupò.

Doveva farcela, anzi, poteva farcela anche da sola. Salì sul mezzo e riuscì persino a mantenere l’ equilibrio senza aggrapparsi subito a un sostegno.

Una scarica di adrenalina la pervase.

Il successo la spronò a recuperare minuti preziosi, decidendo di camminare anche lei tra le carrozze per portarsi il più avanti possibile e risparmiare tempo.

La passerella di intercomunicazione tra le vetture era aperta, aveva appena visto alcuni ragazzi attraversarla, poteva farlo anche lei!

Sempre sorridendo, Penelope affrontò il passaggio. Le porte si chiusero improvvisamente e con loro scomparvero sicurezza e fortuna, intrappolandola. Il panico la sopraffece. La gola si chiuse, impedendole di urlare.

Cercò di raggiungere l’oblò per premere il pulsante di apertura o almeno bussare sul vetro e richiamare l’attenzione dei passeggeri, ma non riuscì ad arrivarci. La sciarpa che indossava, una preziosa firmata Armani, le si impigliò fra le intercapedini, trattenendola, complice il forte vento che proveniva dall’esterno della vettura.

Borsa e PC le sfuggirono di mano, sbilanciandole la presa.

Cercò di girarsi per tornare indietro, ma una scarpa le rimase incastrata fra le due lamiere in continuo movimento che ricoprivano il pavimento. Bastò una frenata improvvisa del treno per fratturarle il piede. Alla seconda, le cedette il ginocchio. La voce ritornò dentro l’urlo di dolore.

Penelope svenne, accasciandosi al suolo, ma nessuno la vide cadere, nessuno fermò la corsa del treno che arrivò tranquillamente al capolinea.

Il corpo della donna fu rinvenuto solo più tardi dal personale viaggiante, adibito alla pulizia della carrozza.

Penelope non riprese conoscenza fino al ricovero ospedaliero.

Nei mesi successivi alla riabilitazione, ripercorse mentalmente la tragedia più e più volte, cercando di capire cosa fosse accaduto di così sbagliato da causarle tanto dolore.

Alla fine, pensò di averlo compreso. Aveva ignorato l’istinto senza ascoltarsi e questo le era stato fatale.

La paura pesa l’anima, è il debito che il corpo sopporta per sopravvivere. Ma, a volte, rivela anche l’unica strada giusta da percorrere in un mondo imperfetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nuvole

Nuvole

– L’hai ordinata tu?
– Che cosa?
– Abbiamo una bambola in casa. Luca, ti rendi conto?
– Una che?
– È arrivata con Amazon. Sei l’unico che acquista on line. Quindi…
– Quindi cosa?
– Sii sincero, ammettilo!
– Ah ah… carina questa. Ok, lo ammetto, Isa. Questo è il tuo scherzo
migliore da quando hai tentato di mettermi a dieta.
– Non l’hai ancora dimenticato. Che noia!
– Eh, io senza biscotti per una settimana. Difficile riuscire a scordarlo.
– Hai ragione. Questo è il brivido. Il dipinto su tela di un uomo distrutto.
– Isa, Isa… Te lo giuro. Quella cosa non è mia!
– Eppure, guarda… c’è il tuo nome sul pacco. Oddio, Luca, chi può averti
donato una bambola?
– Ho in rubrica dei folli che potrebbero.
– No. Questo è il regalo di una donna.
– Perché?
– È trendy, snella e di stoffa. È una bambola che sa adattarsi a ogni
situazione. È un invito!
– Isa, sei seria? No, se scherzi, va bene. Ma finisce qui la cosa.
– Ok, ok, ok. Ora mi calmo. Bevo un bicchiere d’acqua e mi passa.
– Ecco, brava!
– Senti…Bruciamola!
– Isa, oh… ma la pianti?
– Dai, tesoro. Lo sai che amo solo te!
– È inutile che mi abbracci. Se mi ami, scegli. O lei o me!
– Te. Decisamente te, ma vorrei anche evitare una denuncia dei vicini per
fumi molesti ti pare? Ci sono! Potremmo regalarla alla tua amica, quella
con la bambina piccola!
– Luca, no. Non puoi farlo.
– Perché no?
– Teresa non ama le bambole.
– Tutte le bambine amano le bambole.
– Beh, Teresa no. Dice che la guardano.
– Guardano chi?
– Come chi? Teresa. Le bambole guardano Teresa!
– Hai ragione, non possiamo regalarla a lei.
– Infatti, non è carino alimentare le fobie altrui.
– Cambiamo meta. Che ne dici di tua madre?

 

foto da Pixabay