Shorts 480 caratteri
Per la serie, se sai scrivere puoi farlo anche in breve, tornano gli shorts. Così il Collettivo di TCN a partecipazione libera lancia la nuova sfida puzzle:
L’orribile gesto
Alla trattoria “Cantailvento” tutti l’amavano eppure nessuno era riuscito a salvarla dall’orribile gesto. Con lo sguardo muto rivolto a terra, al colore porpora che si mischiava al marrone del pavimento rustico dove i resti giacevano inerti, ora gli ospiti le rivolgevano l’ultimo, straziante commiato. Anche il gatto rossiccio della locanda, un certo Ricò, rimaneva colpevolmente in silenzio. L’unica, l’ambita e pluripremiata quiche di lamponi ormai era perduta.
Gatto Goriot
Gatto Goriot, per gli amici GG, dialogò con la folla assiepata fra la trattoria e il muretto della proprietà in disuso. Il silenzio dei felini era interrotto dai miagolii brevi di Goriot che presentava al branco l’ anziano al suo fianco. L’uomo di colore sedeva muto accanto a GG, ma lo rimase solo per poco. A un cenno del suo preferito gridò la soluzione da tempo agognata: «lascito solidale!».
Goriot annuì, traducendo le parole in lingua gattese.
«Questa casa è già nostra.»
Superpotere
Quella sera il silenzio dominava gli ospiti in attesa. Un gatto dal colore indefinibile era entrato in trattoria, catalizzando subito l’attenzione del branco. Muto, sporco e affamato, il povero felino si era comunque inchinato di fronte alla padrona di casa, prima di avvicinarsi al cibo. Bastet ricambiò lo sguardo, ammaliata dal gesto elegante, e comprese. I cattivi trascorsi non lo avevano scalfito . Miagolò in risposta il suo nome. Flight era tornato a casa.
L’orrore a disegno
Muto, come il colore nefasto, il quadro se ne stava immobile su tavolo della trattoria, sorvegliato da JJ, il gatto tigrato. Nella stessa stanza, un uomo e una donna si scrutavano in silenzio da ore in cerca di una scusa per litigare o forse dell’ispirazione giusta per appendere l’opera. Avevano opinioni diverse sulla questione, ma su una cosa erano sempre d’accordo. Ci pensò JJ a risolvere il dramma. Fece pipì sul dannato orrore a disegno, riportando serenità nella coppia.
Echi
Una trattoria che non conosco. Io, il mio gatto e il silenzio spezzato da un eco. No, sbaglio. Sono più echi che raccontano un dove e un perché. Muto, avido solo di ascoltare le voci, osservo l’interno del locale dove ci troviamo. La situazione singolare mi coglie impreparato. Sulle pareti vedo istantanee di me, della mia vita. Le foto hanno un unico colore, il mio. È allora che comprendo, guardo il gatto, ricambiando l’ultimo saluto: io sono già morto.
Tracce di un assassino
A occhi chiusi nel buio, ascolto quella voce che pian piano si avvicina e
canta. Ha il timbro flautato mentre intona le note della nostra canzone:
“La sera suona il silenzio
Socchiudo gli occhi
Pensando a te
Entrando nella camerata
Vidi qualcuno triste come me
Qualcosa mi si strinse in gola
Ed una lacrima mi scese giù…”
«Non riesci a dormire neanche oggi?» le sussurro, appena termina il
canto. Non mi risponde, ma la sento toccarmi la spalla. Con lei vicino,
fatico a riaddormentarmi.
Il mattino seguente la piccola Elsa non è più nel letto.
Scuoto la corta chioma castana, portandomi le ciocche dietro alle
orecchie, una lavata al viso e sono pronta a vestirmi. Maglietta e
calzoncini verde militare, il colore delle gufette, la squadra a cui
appartengo. Oggi nella colonia è prevista l’ultima sfida per aggiudicarsi il
trofeo.
Palla e fuoco, altrimenti detta, palla prigioniera, si rivela un disastro.
Vengo subito colpita, finendo tra le escluse. Lisa resiste più di me, ma alla
fine deve cedere il posto alle valchirie che si aggiudicano la partita e, con
essa, anche il torneo.
Guardo sconsolata il cartellone appeso all’ ingresso della spiaggia:
“25 luglio – Festa di fine giochi 1982”
«Cosa ti è preso oggi?»
Alzo le spalle, stanca persino di parlare alla mia amica. Penso soltanto a
quando potremo tuffarci in acqua. Il mare è una tavola invitante di colori,
dall’ acquamarina al verde.
«Trenta minuti al bagno in mare» annuncia la capogruppo.
Guardo nello zainetto e mi ricordo di non aver preso il ricambio.
«Hai il mio costume?» Chiedo a Lisa.
«Che numero sei?»
«358» le rispondo, affannata, mentre continuo a rovistare tra le mie
cose.
Ogni ragazza della colonia ha un numero che la identifica, un po’ come
ad Auschwitz. Ma è solo cucito sul retro di tutti gli indumenti. I tatuaggi
non sono richiesti, per fortuna. Il mio è il 358. Per non rischiare di
dimenticarsi, mia madre inizia a ricamarlo a maggio sul mio corredo, tanto
è contenta che partecipi alla vacanza di luglio.
«Niente, mi dispiace, ho solo il mio» replica Lisa.
Alzo la mano in gesto di resa e la capogruppo lo scambia per una
richiesta.
«Che aspetti? Corri a prenderlo!» Grida poi, facendomi sobbalzare.
Non amo le urla, anzi le detesto, ma in questa particolare occasione
apprezzo il gesto. Anche perché di solito ci è vietato rientrare in camerata
prima della cena. Galvanizzata dalla situazione straordinaria, corro,
superando subito la sabbia bollente. Rallento solo quando imbocco il
sentiero che dalla spiaggia riporta alla casa coloniale.
L’ ho percorso mille volte con le compagne, in fila ordinata a due a due,
tenendoci per mano. Dovrei conoscere ogni filo d’ erba. Invece, oggi è tutto
sbagliato. La luce che filtra dai rami crea ombre innaturali, oserei dire
giganti. Osservo il prato che lo costeggia da ambo i lati e noto subito una
grande area dove l’erba è schiacciata, sembra sia stato trascinato qualcosa.
Stamattina non c’ era, ne sono certa. Dovrei muovermi, ma le gambe sono
intorpidite e fatico a camminare.
Mi fermo e seguo ancora l’ erba con lo sguardo. È ipnotica, un
caleidoscopio di variazioni di verde. Ruoto la testa di trenta gradi e
intravedo qualcuno a terra. Mi avvicino. Ora riesco a vedere bene la
bambina dai lunghi capelli biondo oro. È nuda. Il suo costumino, un intero
blu, è appoggiato accanto a lei, all’ altezza del busto. Sembra dormire, ma
la posizione innaturale delle braccia, poste sopra la testa, mi dice il
contrario. Entrambe le braccia sono piegate all’esterno, come se gliele
avessero spezzate e poi ricomposte per una foto, ma non vedo fratture sulla
pelle e nemmeno sangue. Ho la strana sensazione di guardarla attraverso
uno specchio. Una mano è aperta e l’ altra chiusa a pugno. Vicino al
costume, un cappellino bianco a campana, di pregevole fattura e rifinito da
un nastro azzurro, completa la sinistra opera. Mi avvicino ancora. Devo
guardare. L’interno del cappellino contiene due bulbi azzurro cielo
primaverile, ancora iniettati di sangue che ricambiano il mio sguardo.
Il terrore arriva. È un’onda che mi attanaglia lo stomaco. Sussulto. Un
tremito mi scuote il corpo.
È morta. Oddio, è morta! Pronuncio, rendendomi finalmente conto di
quello che sto osservando. Mi sento cadere. Solo quando tocco terra, mi
accorgo che non sono sola. Dietro un albero, in lontananza, intravedo un
uomo. Alto, longilineo, i capelli biondi corti, un taglio alla nordica. Non
riesco a muovermi, paralizzata dalla sua presenza ingombrante. Ha gli occhi
azzurro ghiaccio che sondano il terreno dove è sdraiata la bambina. Sono
terrorizzata eppure non emetto suono. Ho l’ impressione che l’ atmosfera
sia rarefatta intorno a noi.
E si fa buio.
Ha preso un colpo di calore», sentenzia la capogruppo venuta a
cercarmi. L’infermiera si preoccupa di visitare il mio corpo senza prestare
attenzione allo stato di shock.
Per fortuna.
Questo mi permette di meditare sulla strana disavventura che ho appena
vissuto.
Ho avuto un terrore cieco, il primo che io ricordi, ne sono rimasta
paralizzata. Letteralmente. Eppure sono riuscita a immagazzinare
moltissime informazioni come se fossi cristallizzata dentro a un film.
L’ infermiera mi offre acqua e zucchero che bevo diligentemente. Tutto
pur di poter tornare all’ aria aperta.
Lisa è in piazzetta. Mi ha tenuto il panino con Nutella, il mio preferito.
Per la merenda possiamo scegliere da tre cestini picnic, contenenti tre
panini diversi:
Cotto, salame e Nutella. Io alterno solo gli ultimi due.
«Stai bene?»
«No. Non sto bene per niente», dico mentre le riassumo l’incubo che ho
appena vissuto e addento il mio panino.
Lisa ascolta senza interrompere. Questo mi piace di lei. Qualunque cosa
io le racconti, non mi guarda come se fossi pazza. Poi, però, si prepara a
smantellarmi. È fatta così. Deve sempre stare un gradino sopra di me.
«Non avrai digerito le melanzane del pranzo» mi dice, infatti.
Come se a non digerire si potesse sognare horror. Mi scappa un sorriso.
«E hai fatto pure il bis, te lo ricordi?», riprende.
Lisa ha la madre medico. Di solito sbuffo ascoltandola, è di un palloso
quando parte con la filippica sull’ alimentazione sana e senza grassi. Manco
fossimo vecchiette, ma oggi devo darle ragione. È stato sicuramente il
pranzo, devo pensare di più all’ alimentazione. Sì, perché altrimenti tutti
avrebbero visto il cadavere della bambina e adesso saremmo interrogate
dalla polizia, anziché goderci l’ aria tiepida della sera.
Sorrido e tamburello con le dita sul pavimento delle scale dove siamo
ancora sedute, all’ esterno del refettorio.
«Stasera ci pensi tu a Elsa?»
Elsa è una bambina di sei anni. Noi dodicenni, le grandi, come ci
chiamano i responsabili della colonia, abbiamo il compito di aiutarle anche
durante la notte e spesso le piccole se ne approfittano, cercando la
protezione di un letto amico. Nella mia camerata quest’anno c’è solo Elsa.
«Elsa dorme sempre tranquilla.»
«Ti sbagli, sono almeno cinque notti che viene da me. La sento
camminare, trascinando i piedi, e intonare l’inno del silenzio per poi
addormentarsi sulla mia spalla.»
«Uhm…ok, stasera ci penso io.»
Il ritmico rollare della batteria in piazza catalizza la nostra attenzione. E’
il rito corale che precede la cena. Ci permette di scatenarci in pista,
scaricando l’ energia che resta sopita durante il pasto. Per il bene dei nostri
responsabili, Eddy e Renato. Noi li chiamiamo la strana coppia perché
fanno tutto insieme. Cantano, ballano, recitano, non ci riprendono mai,
insomma con loro ci divertiamo. Sono i più fighi della colonia e quest’ anno
sono i responsabili della mia camerata, la più invidiata!
Dopo la cena, l’ inno del silenzio chiude la nostra giornata. Poi tutte in
camerata per il riposo.
La malinconia mi prende sempre la gola quando la canto. Le nostre
famiglie sono lontane e la tristezza si fa sentire. Ma anche qui c’ è uno
scopo: piangere richiede energia, quella che non potremmo impiegare in
altro.
Ecco, lo scopo. Non ci avevo mai riflettuto, ma adesso mi accorgo che
tutto quello che organizzano i grandi ha uno scopo, un fine per imbrigliare
la nostra libertà, permettendo loro di non fare fatica.
La camerata è un’ enorme stanza a forma rettangolare, contenente dieci
letti e altrettanto comodini. Ognuna ha identificato il proprio numero su
letto e comodino.
È un mistero come il mio possa essere il 358 se nella colonia risiedono
solo cinquanta ragazze, ma ‘questo è e non si discute’, il motto della
colonia, già dice tutto. Qui le domande non esistono.
In fondo, appoggiati al muro, tre enormi armadi ci permettono di riporre
i vestiti in condivisione.
Lisa mostra il pollice, indicando Elsa nel suo letto, già quasi
addormentata. Io faccio altrettanto. Ho assolutamente bisogno di una notte
intera di buon sonno.
Lo scalpiccio di piedi nudi mi sveglia. La sento alzare il lenzuolo e
infilarsi nel mio letto. La luce della luna filtra dalle finestre aperte e mi
lascia intravedere la bambina sdraiata vicino a me. Ha lunghi capelli biondo
grano. Non è Elsa.
Apro la bocca, ma l’urlo muore in gola.
Lei mi artiglia il braccio. Le unghie si conficcano nella mia carne,
stillandomi sangue. Sento dolore e cerco di divincolarmi mentre la cosa si
avviluppa ancora di più sul mio corpo.
‘Vuoi giocare con me’?
Sento la paura sdoppiarmi, mentre ascolto la voce che si fa largo nel
buio e sussurra ancora ‘non mi lasciare andare’. E’ la stessa delle altre sere.
Commetto l’ errore di guardarla di nuovo. Ora non ha più la pelle. Vedo
solo lo scheletro, muscoli e arterie che le ricoprono le ossa.
Sopra il mio letto volteggia qualcosa, avverto solo la sua testa che scruta
nel buio. Ha gli occhi di ghiaccio che lampeggiano nel buio come fanali.
Sta cercando me. Il cuore accelera i battiti, sta per schizzarmi dal petto.
Serro gli occhi, non posso farne a meno, ho bisogno di aiuto e la mia
mano destra si muove da sola, risolvendo. L’ indice picchetta due volte il
materasso per poi appoggiare tutto il palmo, ancorandolo al letto.
L’ incubo scompare, sono al sicuro e finalmente cedo al sonno
ristoratore.
Il mattino apro gli occhi con la nausea che mi tormenta e ricordando
tutto del sogno. Ho bisogno di mangiare. È l’incentivo migliore per uscire
dal letto e prepararmi per la giornata. Le occhiaie allo specchio fanno così
paura che decido di approfittare della gentilezza di Luana, coprendole con
un correttore. Luana è la terza dodicenne della camerata, insieme a me e a
Lisa. Lei è sempre chic, l’unica munita di trucchi. Non so come abbia fatto
a portarli, qui sono vietati, ma ne approfitto.
Mancano quattro giorni al rientro a Milano. E quest’ anno non vedo l’
ora di andarmene, sigillando la porta dietro di me. Le fatiche sportive sono
ormai concluse. Ci attendono solo i giochi rituali in spiaggia. Una
passeggiata.
La colazione non sortisce l’effetto desiderato, caffè e latte con i biscotti
più cattivi che io abbia mai mangiato, e alla nausea ora si è aggiunta anche
l’ansia che mi attanaglia lo stomaco. Un giro in infermeria, dopo, non me lo
toglie nessuno, penso sconsolata.
Il vibrato potente del Gong distoglie la mia attenzione dai sintomi e ci
richiama tutte in piazza per l’apertura della giornata.
La vita in colonia è scandita dai momenti ufficiali, un assaggio della vita
politica che potremmo vivere se solo ci candidassimo alle elezioni.
Eddy e Renato sono già pronti sul palco, con i microfoni accesi.
«Care coloniette, oggi abbiamo un ospite illustre tra noi.» esordisce
Eddy. Il brusio che si propaga tra di noi è palpabile, viscido quanto un
pitone in piena attività. Tutte siamo in trepida attesa.
«E’ l’erede di casa, il nostro anfitrione, il proprietario della colonia,
ecco a voi, Eric Von Der Bruss!» conclude Renato, passando il microfono al
nuovo venuto.
L’applauso della massa mi permette di arretrare, nascondendomi dietro a
Luana, la più alta del mio gruppo. Intanto sbircio l’ospite.
Lisa guarda la mia espressione terrorizzata e lo capisce mentre io riesco
soltanto ad annuire. Ho già visto l’uomo sul palco. Ieri era appostato dietro
un albero e ora scopro che siamo su una sua proprietà.
L’uomo scruta la folla, ha lo sguardo di ghiaccio che ricordo bene,
somiglia a un rapace. Sofferma lo sguardo su Luana, la più carina della
colonia, pronuncia qualcosa che non comprendo e finalmente siamo libere
di lasciare la piazza. Il lato positivo è che non ho più la nausea e l’ansia si è
dissolta. Quello negativo, invece, riguarda Luana che si è appartata con il
rampollo e adesso ride alle sue battute. Sì infila le dita tra i bellissimi
riccioli neri e continua a scherzare. Mi avvicino. L’ uomo mi guarda solo
un istante, tornando subito a concentrarsi su Luana.
Non mi ha riconosciuto. Il sollievo che provo mi riempie di gioia,
manco fosse l’ ultimo giorno di scuola. Non so ancora cosa significhi, forse
davvero ieri non mi ha visto, forse io mi sono immaginata tutto perché è
innegabile che la mia fantasia abbia le ali, come dice sempre la mia prof di
italiano quando mi riconsegna i temi. Stanotte, poi, l’ inconscio potrebbe
aver triplicato le paure. In ogni caso, sentirmi protetta è una cosa che mi
piace.
La cosa bella di sentirsi al sicuro è la sensazione di tranquillità
sensoriale che si prova. Il cuore rimane fermo a sessanta battiti al minuto, la
mente è sgombra da pensieri ostili e tutto fila liscio, come i pattini sul
ghiaccio a Natale.
Ci pensa Lisa a riportarmi in tensione.
«Ho scoperto una cosa» dice, mentre raggiungiamo la spiaggia e ci
sediamo sui teli mare già predisposti sulla sabbia.
«I nostri numeri sono unici.»
«Che vuoi dire?»
«I numeri che ci assegnano sono progressivi.»
Scuoto la testa. La matematica è la mia più grande debolezza.
«Monica, sveglia! Significa che il tuo 358 è solo tuo.»
Sorrido. «Brava, hai risolto il mistero!»
Lisa sbuffa. Lei sì che ci capisce di numeri. È per questo che studierà
medicina.
«Qualcuno ha interesse a tenere il conteggio delle ragazze che hanno
frequentato la colonia»
Io annuisco, ma solo per cortesia.
«Ancora non ci arrivi, eh?»
Scuoto la testa, in segno di resa.
«A me sembra normale, invece, avere sotto controllo la statistica. Per gli
infortuni, per la nostra sicurezza» le ribatto ora con più convinzione,
ricordandomi le prove di evacuazione antincendio fatte a scuola.
Lisa si acciglia.
«Noi non lavoriamo in colonia. Ci trascorriamo una vacanza. Quindi,
per avere utilità la statistica dovrebbe essere annuale, azzerandosi l’ anno
successivo. È inquietante sapere che io sia il numero 400. Significa che
sono la quattrocentesima ragazza che ha camminato qui da quando la
colonia ha aperto.»
Io rimango in silenzio.
Vuol dire che tutte noi abbiamo una storia contenuta in qualche registro
contabile.»
Il mio sguardo perso nel vuoto fa arrabbiare Lisa.
«Ergo, la bambina dai capelli biondi che continui a sognare potrebbe
essere stata ospite della colonia e avere anche lei un numero. Se scopriamo
il numero, sapremo anche il suo nome e potremo rintracciarla. Ti pare?»
Ci rifletto.
«E come pensi di scoprirlo?»
Lisa indica con lo sguardo Luana che ancora scherza con Der Bruss.
«No, ti prego. Non farglielo chiedere.»
«Perché?»
«Ho una brutta sensazione!»
«Lo sai che succede alla gente che si tiene tutto dentro?»
«No.»
«Muore, Monica. Muore perché marcisce dentro!»
Lisa ha la straordinaria capacità di piegare la gente con la sua oratoria.
Sarà un ottimo medico, già la vedo convincere i malati a farsi operare, tanto
che avranno mai da perdere? Tra il rischio di marcire e sopravvivere scelgo
l’ ultimo, acconsentendo al suo piano, mio malgrado.
Luana ci raggiunge poco dopo.
È così presa da Von Der Bruss da raccontarci tutto senza forzarle la
mano.
«Ha venticinque anni, è ricco e da poco ha ereditato la tenuta di
famiglia» continua Luana con gli occhi che le brillano.
«Certo, la sintesi è proprio il tuo forte, commento» cercando di istillarle
almeno un dubbio sul suo comportamento libertino, ma Luana annuisce,
sorridendo.
«Mi ha invitata a casa sua» conclude poi, facendoci sobbalzare.
«Mica penserai di andarci!» Sbotto io, guadagnandomi un’occhiata di
rimprovero da Lisa.
«Perché no? Certo non è bello, ma ha fascino. E poi quando mi ricapita
di vedere un castello asburgico?»
Scuoto la testa. Sto per raccontarle quello che ho visto nei miei incubi
quando la capogruppo ci richiama all’ ordine.
Iniziano i giochi con l’acqua e tocca a me. Fronte mare sono disposte
cinque grandi cisterne. Ogni camerata deve partecipare, immergendo a
turno la testa per recuperare le mele ivi contenute. È un gioco innocuo che
abbiamo già fatto. Mi preparo davanti alla cisterna, portando le mani dietro
la schiena, come da regolamento. Affondo i denti, catturando la prima che
porgo con la bocca alle mie compagne e ricomincio. Sono alla quinta mela
quando perdo l’equilibrio e tutto il volto finisce in acqua. Annaspo,
recuperando fiato, gli occhi aperti vedono il fondo buio della cisterna
allargarsi per fare spazio ad altre immagini che da sfuocate si fanno via via
più nitide. La bimba mi saluta con una mano aperta, l’altra invece è stretta
contro il corpo e ancora chiusa a pugno. Svaniscono quando mi sento
sollevare, una mano preme la mia spalla che scotta. Urlo, scostandomi dallo
sconosciuto che mi sta ancora premendo contro.
«Stia lontano da me!»
Gli grido, senza ormai trattenermi più.
Ho lo sguardo offuscato, le mani mi tremano, sento che sto per avere
una crisi isterica.
«Ehi, calmiamoci» Eddy mi separa dall’asburgico che ancora non ha
proferito parola.
Il contatto con il mio responsabile ha il potere di calmarmi.
Guardo Renato, è pensieroso. Poche volte l’ ho visto così. La postura
del corpo tradisce ansia.
«Eravamo tutti spaventati» mi dice Eddy, confermando i miei sospetti.
«Stai bene? Prosegue poi.
Vedo Eddy e Von Der Bruss scambiarsi uno sguardo di intesa.
«Ho solo perso l’equilibrio e sono finita in acqua» gli rispondo
lentamente. Appena lo faccio, mi accorgo di riuscire a contenere la
tensione. Come se scandire lentamente le parole avesse un potere calmante
su di me.
Luana mi passa il suo pettine. Ho i capelli bagnati, completamente
spettinati, dalla sua espressione intuisco anche che sono uno scempio. Mi
rimetto in ordine come meglio posso, ritornando nel mio gruppo. Il gioco
prosegue e le valchirie, al solito, si aggiudicano il pass per il balletto serale
della loro camerata.
«Cavolo, avrei voluto esibirmi questa sera!», commenta Luana prima di
sorridere ancora a Eric.
Eddy e Renato fanno finta di nulla, eppure è evidente che il marpione ci
stia provando.
«Non è normale sta’ cosa» dico mentre siamo a pranzo. Luana mi
guarda con un sorrisetto stronzo, come se fossi gelosa di lei perché piace a
un ragazzo.
«Ha tredici anni più di te» interviene Lisa.
«E allora? Se avesse la mia età non potrebbe guidare.»
«Ti viene a prendere in auto?» Ho alzato la voce e Renato ha sollevato
lo sguardo su di noi.
«Ssstt, vuoi farmi mettere in punizione?»
Scuoto la testa.
«Certo che viene in auto. La tenuta è lontana, immersa nel parco.»
«Per quanto ne sai, potrebbe essere un assassino, ci pensi?»
«Oppure il mio principe azzurro. Allora, dopo il pranzo mi coprite?»
Lisa sorride, dandole ragione.
«Monica, ti ho prestato il correttore, ricordi?»
La guardo e annuisco. Adesso capisco perché è stata gentile con me.
Accumulava favori da richiedere alla prima occasione. In fondo la vita è
sua. Non posso farci niente se non ha il mio istinto e nemmeno il cervello di
Lisa. Siamo quello che siamo, solo gli sbagli possono correggerci. Prego
solo che per Luana non sia l’ultimo concessole mentre la osservo
sgattaiolare fuori dal cancello della colonia, stranamente indisturbata.
«A me ha prestato il mascara» dice solo Lisa in risposta al mio muto
rimprovero.
«Finiremo nei guai se non torna per la campana delle quindici.»
«Uh, altrimenti troveremo un diversivo.»
Luana è di parola perché allo scoccare delle quindici, con il suono della
campana che conclude il riposo pomeridiano, la vediamo rientrare e
mischiarsi alla camerata senza farsi notare. Un sospiro di sollievo ci sfugge
quasi all’ unisono. Luana è raggiante. Ha il vestito più corto di quando è
uscita, le labbra tumide di baci e i capelli in disordine, per il resto è a posto.
Ma non riusciamo ad avvicinarla fino a sera perché Von Der Bruss si
materializza in spiaggia e non la lascia mai sola. Ogni tanto mi lancia uno
sguardo di sfida che evito di raccogliere.
Quando finalmente rientriamo in camerata è già sera. Luana è pronta a
raccontarci del castello, una residenza con cinquanta vani a disposizione e
un arredamento sontuoso in stile classico, alla principessa Sissi.
«È uno scherzo? » Lisa parte subito in attacco e non è da lei, segno che
la situazione ci sta sfuggendo di mano.
Luana ci guarda e sorride.
«Sí. Eric ha insistito.»
«Perché?»
«Ha detto che sarebbe stato divertente vedere le vostre facce.»
Ho sempre detto a Lisa che Luana fa la stupida, ma oggi mi devo
ricredere: Luana è proprio stupida!
«Davvero ti ha nominato noi due?» Chiede Lisa.
«Sì, ma non ti montare la testa. Lui è mio. Mi ha già detto che ci
terremo in contatto.»
Per fortuna non si accorge del mio disagio.
«E quanti locali ha, invece?» insiste Lisa.
«Dieci. 2 salotti 3 bagni e 5 stanze da letto. E il parco, oh il parco è
spettacolare. L’ erba alta ha dei colori stupendi, credo sia coltivata perché
non ho mai visto…»
«Così tante tonalità di verde in natura.» concludo io, sorprendendola.
«Ci sei stata anche tu?» sibila Luana, improvvisamente aggressiva nei
miei confronti.
«No, ma figurati… sai che Monica ha una fantasia esplosiva» interviene
Lisa.
Luana si calma e ci lascia da sole, rintanandosi in bagno.
«Cosa ne pensi?» Chiedo alla mia amica. Siamo sdraiate al buio, ognuna
sul suo letto. Comincio a temere il sonno.
«Ci ha lanciato un amo. Vuole capire cosa sappiamo.»
Rabbrividisco. Non riesco nemmeno a pensarci.
«Hai ragione Non possiamo chiederlo tramite Luana. Der Bruss ci
mentirebbe senz’ altro. Invece è interessante il dieci dei suoi vani. Dieci
come il numero previsto per ogni camerata.»
Lisa è decisa, ma io ancora tergiverso. Credo sia meglio dimenticare
tutto. Due giorni, poi torneremo a casa. E non rivedremo più questo posto
dimenticato dal mondo.
Due giorni soltanto. Mi addormento, tenendo stretto questo pensiero
che mi conforta i sogni.
Il mattino seguente Lisa ha già elaborato una nuova strategia e non ho
avuto ancora il coraggio di tirarmi indietro. Io devo distrarre la segretaria
della colonia, permettendole di cercare il famigerato registro in Direzione.
«Ci vuole una parola d’ordine per farti scappare.» dico sperando di farla
desistere.
«Ok, parola d’ordine “CIAO”. Se ti sento urlarlo, esco subito,
qualunque cosa abbia trovato.»
«Lisa, credo sia il numero cinque.»
«Perché il cinque?»
«,L’ ho sempre vista con una mano aperta. E’ solo una sensazione, ma
partirei dalla numero cinque.»
Cinzia, la segretaria è una donna di mezza età, somiglia un po’ a mia
madre nei modi. Mi è facile avvicinarla prima che entri nell’edificio
principale e raccontarle che mi sento strana da qualche giorno. Ho così
tanto materiale da narrare e la donna è così presa dal mio racconto che Lisa
riesce ad entrare nell’ edificio con facilità.
Dieci minuti dopo la vedo uscire e dirigersi verso di noi. Ringrazio
Cinzia per la disponibilità, salutandola con un bacio sulla guancia.
«La cinque si chiamava Ellen Von Der Bruss» mi dice una volta
raggiunta la spiaggia «strano, eh?»
Annuisco, frastornata. Dopo il colpo di calore, ho ancora paura a
percorrere il sentiero, ma non ho più avuto crisi.
«E adesso?» le dico.
«Possiamo chiedere a Enzo.»
Enzo è il guardiano storico della colonia. È anziano, ma sempre
disponibile a scambiare qualche chiacchiera con noi. Potrebbe essere una
buona idea, sempre a non fare confusione. Annuisco ancora a Lisa,
sperando di sbagliarmi.
«Il parco, la colonia e la spiaggia sono dedicate a Ellen Von Der
Bruss.» dice, dopo averci ascoltato declamare la bellezza della natura che
abbiamo intorno.
«Quindi, parente di Eric Von Der Bruss?» chiede Lisa.
Il vecchio annuisce.
«La sorella. Ellen era una bellissima bambina dai lunghi capelli colore
del grano, ricordo che non li tagliava mai. Amava il mare e i giochi sulla
spiaggia. Ma era sempre sola, così il padre organizzò la colonia, regalandole
per l’ estate la compagnia che le mancava. Riuscì a divertirsi per cinque
anni. Morì di tisi a soli dodici anni.
La famiglia ogni anno tiene viva la memoria di Ellen, permettendo una
vacanza al mare a tante piccole come lei.
«E’ una storia triste» mi sento solo di dire.
«Non è quello che hai visto nei tuoi incubi» mi sussurra Lisa.
Alzo le spalle. Sono contenta di aver messo un punto alla vicenda, che
sia vera oppure no ha poco interesse per me. In ogni caso si tratta di una
vecchia storia di famiglia.
«Il sogno rimane qui» mentre lo dico, con la mano destra traccio due
linee parallele e un’ onda che le interseca, da sinistra verso destra. Non so
cosa stia facendo, ma sento il bisogno di ascoltare il mio istinto.
La terra sotto le mie dita passa dal tiepido al rovente in un attimo,
regalandomi una cicatrice bizzarra sulla pelle.
Enzo mi guarda e annuisce. So che racconterà tutto al suo padrone.
Anzi, è molto probabile che sia stato lo stesso Eric a confezionare la storia
che abbiamo sentito. Ma credo sia un bene anche per me. Forse ho trovato il
modo per non farmi male.
Ultimo giorno. Osservo il bellissimo mare dal mio scoglio preferito,
quello che ho utilizzato fin dal primo anno. Ne sono trascorsi altri cinque da
allora e adesso mi rendo conto che una parte della mia vita si sta per
concludere.
Salgo sul pullman, combattuta tra la voglia di lasciare la colonia e una
strana malinconia che mi riempie i sensi.
Le porte del mezzo si chiudono dietro di me. Lisa stringe la mia mano
mentre affronto lo sguardo enigmatico di Eric Von Der Bruss per l’ultima
volta.
foto da Pixabay
Il desiderio di Saule
I diversivi erano pronti.
Il Nord stava già impazzendo grazie agli addobbi di luminarie e giostre natalizie.
E presto l’ossessione del Natale avrebbe raggiunto l’intero pianeta.
Un marketing decisamente impeccabile per l’occasione.
A Saule spettava adesso l’ onere e l’ onore di gestire l’evento nella Notte Santa.
Tutto doveva essere perfetto. Così come lo era la sua persona.
Controllò la celebre Slitta, verificando che rispettasse i parametri di sicurezza e annuì al suo capo.
Babbo Natale gli sorrise in risposta, invitandolo a partecipare alla festa del Villaggio.
Lui vedeva sempre il buono negli altri.
E anche con Saule era convinto di averlo percepito, affidandogli la Security del suo circo. Ma Saule rimase al suo posto.
Ancora poche ore e il suo desiderio si sarebbe avverato.
Pregustò il momento.
Con Santa Claus in volo, Saule aveva una notte a disposizione, finalmente libero di trucidare un umano nella notte più magica dell’anno.
La via dispersa
Raggiunsero il ritrovo prima dell’alba. Un cupo bagliore li conduceva attraverso il sentiero.
La Via dispersa stava chiamando, ciascuno aveva un compito per riavvolgere il filo invisibile che dominava il tempo. Quello che cercavano richiedeva contemporaneità, molteplicità e integrazione. L’impresa bizzarra non aveva regole già scritte nondimeno il gruppo si preparava ad agire.
L’immortalità era la meta, il ricordo delle vite precedenti il viaggio.
I quattro arrivarono quasi simultaneamente, salutarono con un inchino la Luna piena di ottobre, per poi varcare la Soglia della caverna Oscura.
Annie, studiosa di occulto, Vivien, dispensatrice di ricordi perduti, Monique, novizia nelle dinamiche energetiche e Gabriel, esperto di negromanzia, si disposero per la seduta. Appoggiarono le mani a terra, recuperando il calore benefico, rilasciato dalla caverna, che la passeggiata notturna aveva dissolto.
Gabriel accese il grande e rosso cero votivo, pronunciando la formula, ripetuta anche all’unisono dagli altri:
«Il soffio è acceso. Noi siamo il cerchio, la luce e l’ombra. Il velo alzato nelle trame del tempo. A quelli che sono, che erano, e a quelli che saranno noi imponiamo il rito: che nessuno entri, che nessuno esca senza consenso!»
In quella notte, la notte fosca del Castoro toccava a Monique affrontare i suoi demoni e lo fece
nell’unico unico modo che conosceva.
“Siena, il Campo, 12 agosto 1880.
La Piazza è già in fermento per la preparazione del Palio. La contrada dell’Oca gareggia con il suo miglior fantino, ma la speranza di replicare la vittoria di Pirrino del ‘77 è solo un lumicino.
«L’Oca è qui, l’Oca vive!» urlo, alzandomi e battendo le mani.
Mi trovo ai margini della Conchiglia, nella parte alta della Piazza. Dalla mia posizione sopraelevata riesco a vedere la gente che si accalca per assistere alle prove. I cavalli nitriscono in lontananza, sentono la competizione almeno quando noi!
Qualcosa distrae la mia attenzione dalla festa.
Inesorabile, nero come il suo cappuccio calato sul volto, vedo un cavaliere in sella al suo destriero che guarda nella mia direzione. Il cavallo si impenna o forse è il suo fantino che lo sprona per poi partire al galoppo, lasciando la Piazza.
Mi risiedo, appoggiando le mani a terra. Ho avuto l’impulso di seguirlo e non è da me lanciarmi nell’ignoto senza credo. Sì, perché ho la strana sensazione che lo sconosciuto non sia di Siena e le regole della Città vietano rapporti con gli stranieri. È la prima volta che mi accade e non ne sono contenta. Non piacerà nemmeno alla mamma, per non parlare della nonna. Devo tacere, nascondere il segreto dentro di me e sperare di non rivederlo mai più!
Corro in negozio, mia madre mi aspetta al bancone. Lo sguardo è cupo perché sono in ritardo per l’ennesima volta.
«Tu non sai la fortuna che hai qui» tuona con la sua voce da contralto.
Chiudo gli occhi, mordendomi le labbra. Non è il caso di risponderle se voglio uscire questa sera.
«Fuori da Siena sei solo una femmina da sfruttare e distruggere. Usa la testa» mi dice ancora, mimando il gesto e toccandosi la tempia.
Non mi stupisce il suo intuito. Non le sfugge mai niente di me. Sicuramente mi avrà osservato di nascosto. Dalla vetrina del negozio è ben visibile Piazza del Campo.
Inizio la preparazione del panforte bianco. Non ha ancora un nome. Lo proporremo per la prima volta al Palio. Mancano solo quattro giorni e siamo in ritardo con la produzione. La novità dovrà far luccicare gli occhi a tutti i senesi e anche agli stranieri che arriveranno per assistere al Palio. Almeno questa è l’intenzione mentre peso coscienziosamente gli ingredienti per la preparazione dell’impasto.
50 grammi di candito di scorza d’arancia
300 grammi di candito di popone
300 grammi di mandorle pelate
250 grammi di zucchero bianco
120 grammi di farina 00
005 grammi di cannella di Ceylon in polvere
005 grammi di noce moscata in polvere
005grammi di vaniglia in polvere
005 grammi di zucchero vanigliato
E ricomincio a preparare un’altra ciotola di ingredienti. Non ho ancora il permesso di impastare, non sono brava con i dolci. A questo ci pensa mio padre, lo Speziale d’eccellenza della famiglia.
Quando l’ultimo cliente esce dal negozio, finalmente sono libera di appendere il grembiule e andarmene.
È una serata tranquilla a Fontebranda. Sotto i tre Archi, nella mia Contrada, posso passeggiare anche da sola.
Le tre vasche, il nostro vanto, di solito sono in piena attività. Ma non oggi. Tutti sono alla festa e la prima vasca, quella dell’acqua potabile è libera. Bevo la fresca acqua della Fonte. Vicino a me, un gatto approfitta della tranquillità del Rione per abbeverarsi a sua volta nella seconda vasca, quella dedicata all’abbeveratoio per animali. La terza raccoglie l’acqua scartata dalle prime due e funge da lavatoio. Anche questa è deserta, segno che i Senesi sono già pronti a scatenarsi al Campo per i riti serali.
Guardo dentro l’acqua e al riflesso di me stessa si aggiunge un’ombra. La figura scura indossa ancora il cappuccio. Mi giro e gli sorrido, riconoscendo il cavaliere sconosciuto che mi ha ammaliato questa mattina. Aspetta me, lui vuole me!
Il cuore aumenta i battiti, pompa sangue nelle vene, sangue che cade a terra mentre scorgo il suo volto. Gocce dapprima, poi scorre via, è un fiume che travolge tutto, persino il desiderio.
Porto le mani alla gola, al taglio che brucia, succhiandomi energia.
Ruoto e cado dentro l’acqua, con gli occhi aperti finché lo vedo: il teschio di un demone ora urla il mio nome!”
Vivien appoggiò la sua mano su quella di Monique. Il contatto interruppe il racconto, permettendo alla donna di riprendere lo stato di coscienza attuale. Il passaggio si compì senza problemi. Il cerchio intatto, ancora chiuso, aveva permesso un ritorno sereno.
«Non era un demone» disse Annie.
«E allora chi?» replicò Monique. L’avventura aveva scossa, ma non al punto da perdersi il finale.
«Uno spagnolo, forse un uomo di Carlo V. Sul fondo di una delle due vasche ora interrate, la leggenda racconta che vi sia una porta» intervenne Gabriel.
«Non ha alcun senso» riprese Monique. «Ho visto un teschio e il ghigno di un demone che pronunciava il mio nome, proprio come ora guardo te!»
«Non è rilevante» sostenne ancora Gabriel, per nulla impressionato dalla sicurezza della novizia «dalla porta si accede a cunicoli sotterranei dove fu nascosto un forziere alla fine del XVI secolo. Si racconta anche che lo scrigno fosse dotato di trabocchetti mortali. Potresti aver visto il destino che attendeva l’assassino della ragazza».
Il canto del gallo pose fine alla seduta. Non c’era più tempo. La luce del sole penetrava già l’Antro, cacciando l’oscurità nel fondo della caverna, alimentata da una fonte miracolosa.
«Il soffio è acceso. Noi siamo il cerchio, la luce e l’ombra. Il velo alzato nelle trame del tempo. A quelli che sono, che erano, e a quelli che saranno noi imponiamo il rito: che nessuno entri, che nessuno esca senza consenso!»
La formula spezzò il legame, il cerchio si aprì, consentendo al gruppo di riprendere il cammino, fino alla prossima riunione.
Un passo dopo l’altro, una vita dentro una vita, il percorso era ancora lontano sulla strada per l’Eterno.
Il mistero di Fiumelatte
Fiumelatte
È il Fiumelaccio, il quale cade da alto più che braccia 100
dalla vena donde nasce, a piombo sul lago, con inistimabile strepitio e romore. » |
(Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, folio 214) |
Ci sono luoghi dove la natura e l’uomo vivono in armonia ormai da secoli. Uno di questi è Fiumelatte, un grazioso Borgo in provincia di Lecco.
Si raggiunge percorrendo in auto prima la Statale 36 e poi la Statale 72 che da Lecco porta a Colico oppure utilizzando il treno con la linea F.S. Milano – Sondrio. Poco prima di arrivare a Varenna, sorge Fiumelatte, un gruppo di case incastonate sulle rocce occidentali della Grigna.
Fiumelatte è anche il nome del fiume intermittente che lo bagna ed è quest’ultimo particolare a rendere davvero speciale la visita.
Seguendo a ritroso il letto del fiume, si può vivere un’esperienza indimenticabile.
È interessante anche notare l’attenzione che gli abitanti del Borgo prestano al fiume e ai turisti che lo visitano.
A me è successo. Ho incontrato un valligiano che si è offerto di accompagnarmi gratuitamente alla sorgente.
Una camminata di quindici minuti permette la salita dal lago alla sorgente. Per farlo, è consigliabile munirsi di scarpe da ginnastica o da trekking.
Arrivati alla fonte, una fontana e un’ampia area pic nic sono a disposizione gratuita dei viandanti che possono riposarsi e rifocillarsi, godendo dell’incontaminata bellezza del paesaggio.
La straordinaria limpidezza dell’acqua, visibile fin dalla sorgente, muta in bianco latte non appena acquista velocità scivolando sulle rocce a strapiombo, per poi immettersi nel lago di Como. E da qui il suo nome.
Ogni anno, il fiume di origine carsica tra i più brevi d’Italia compare a fine marzo per poi scomparire i primi di ottobre.
Fiumelatte è chiamato anche il fiume delle due Madonne perché, di solito, inizia il corso proprio il venticinque marzo, giorno dell’Annunciazione della Madonna, e termina con la festa del Rosario, il sette ottobre, scandendo anche la vita religiosa del Paese.
La sua natura misteriosa è terreno fertile di leggende. La più famosa si perde nella notte dei tempi e narra di una splendida fanciulla chiesta in sposa da tre compaesani. Indecisa su chi scegliere, pensò di affidarsi al destino, sposando chi fra i tre le avrebbe rivelato l’origine del Fiumelatte, da lei tanto amato. I tre ragazzi, sebbene impauriti, entrarono nell’antro del fiume, rimanendovi per mesi.
Tornarono in superficie già anziani. Il loro aspetto era radicalmente mutato senza apparente correlazione con il tempo trascorso al buio delle caverne.
Due raccontarono di meravigliose vallate, fiumi di latte dolcissimo e splendide fanciulle che li avevano intrattenuti mentre il terzo rimase muto, rifiutandosi di commentare.
O forse non ebbe il tempo di superare lo shock per ciò che gli era accaduto perché, nei tre giorni successivi al loro ritorno, i tre giovani morirono di vecchiaia.
La splendida fanciulla, rea di averli coinvolti in quell’impresa sciagurata, rimase loro accanto fino all’esalazione dell’ultimo respiro per poi gettarsi nel Fiumelatte. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Alcuni bisbigliano che nelle notti di luna piena, quando la luce si infrange violentemente sul fiume, si possa ancora vederla sorridere e danzare con le sue sorelle Naiaidi.
Dopo la tragedia, nessuno degli abitanti osò più sfidare il Fiumelatte, il cui mistero è ancora inviolato. Forse è per questo che Fiumelatte non ha mai causato danni al paese, diventando nel tempo un amico fidato dei suoi abitanti che si preoccupano se non ricompare ogni anno, rispettando le date.
Considerando le bizzarrie del clima che mai ci prepara al suo funesto rovinare al suolo, rimane l’ordinata e costante intermittenza di Fiumelatte a portare un’oasi di pace nel caos della nostra bella Italia.