La Morte contadina – di Daniele Vacchino
Senza che ce ne fossimo accorti, la notte era sopraggiunta con il suo corpo muto. Dai campi di riso salivano esili rumori, come se bambini acquattati lungo i fossi stessero bisbigliando tra loro. Vanni, il mio fraterno amico, ed io stavamo camminando sulla strada, parlando delle nostre faccende, per allontanare la calura estiva che aveva assediato la città. Di lontano, qualche rara luce cominciava a fare capolino, le automobili rientravano nei cancelli, perché l’ora di cena si apprestava.
Superammo il cavalcavia che scavalcava l’autostrada e piombammo tra i campi di mais, in un silenzio di strada periferica. Fu allora che sentimmo un tintinnio lontano, un fremito metallico che nasceva dalla pancia buia della campagna.
– Cosa vuoi che sia, è la morte contadina – disse Vanni indifferente – ci siamo spinti troppo fuori? E ora viene ad accoglierci.
Lo guardai dubbioso.
– Tu che sei uno di città non puoi capire. Quando per questi paesucoli dimenticati dal Signore gironzoli per la campagna, ti si fa incontro la morte, con il suo sudario nero. Magari se ne stava lì nascosta al buio, a farsi i fatti suoi? E tu l’hai disturbata, così viene a reclamare qualcosa.
– E ha questo rumore metallico?
– Secondo te, quando la luna nuova si presenta in cielo, perché ha quella forma? E’ la falce argentea della morte, che viene a ricordarci che tutti noi dobbiamo morire. Guarda su: la luna non c’è; vuol dire che se la sta portando appresso la morte e la trascina dietro di sé. Ecco cos’è quel rumore.