La Soglia Oscura
Monografie

D’ANNUNZIO BODY ARTIST E PERFORMER
(Brevissima storia della Letteratura Italiana n.8)
di Gianfranco Galliano

La biografia di Gabriele Rapagnetta D’Annunzio non va studiata in quanto tale, alla stregua di quella d’un Petrarca, di un Leopardi o d’un qualunque altro scrittore, come una serie di fatti esistenziali che supportano in maniera più o meno evidente un corpus artistico, ma come una vera e propria opera d’arte in sé, e anzi la maggiore, di un body-artist che fin dai suoi inizi si rese conto, certo dapprima fumosamente e quindi con progressiva e sempre maggiore lucidità, che il suo asso nella manica rispetto a tutti gli altri alfieri del decadentismo – di sicuro più abili e originali di lui nell’esercizio della pura letteratura – stava proprio nell’avere il coraggio (anche fisico, caratteristica che non gli è mai mancata) di passare dall’altra parte dello specchio: non cercare di essere Huysmans bensì Des Esseintes, non Wilde ma Gray… o meglio, visto che qui parliamo di un attore perennemente cangiante, fare in modo che Sperelli, Cantelmo, Effrena e soci da una parte e i vari D’Annunzio dall’altra coincidessero. Lo stesso valse nei confronti dei futuristi: impossibile batterli sul terreno novecentesco delle loro parole in libertà attraverso un Notturno ancora inguaribilmente ottocentesco (le frasi telegrafiche di esso, infatti, tradiscono pur sempre un intimismo rigettato da FTM e soci), ben diverso il caso se si giocava d’anticipo esponendo il proprio corpo come opera d’arte alla maniera di Vito Acconci, Carolee Schneemann e Charlotte Moorman più di cinquant’anni prima che le idee stesse di happening, performance e body art, e addirittura i nomi per designarle, esistessero!
L’unica vera, multiforme opera totale destinata ai posteri da D’Annunzio è gran parte della sua vita e ha uno svolgimento ben preciso (volontario o involontario che sia): incomincia inventando mode, con il desiderio che la massa lo segua per poi distaccarsene immediatamente spingendosi a crearne di sempre nuove per sfuggire alla volgarità piccolo borghese, arriva al suo apice con l’interminabile e ineguagliabile (non meno che discutibile) happening chiamato Fiume e si conclude col monumento – ma sarebbe forse meglio chiamarlo installazione perenne – rappresentato dal Vittoriale e ripreso a suo modo da John Hamilton Finlay col suo Stonypath (1966), poi rinominato Little Sparta (1983). Il tutto passando attraverso il rischio bellico che gli costò un occhio e che ricorda i tagli sul corpo di Gina Pane, per fare un solo nome (1).
In sostanza, quindi, è proprio l’opera dannunziana tradizionale (poesia, romanzi e drammaturgia) a supportare in maniera più o meno evidente la sua esistenza. Si può addirittura arrivare ad affermare che se venne preso come fonte d’ispirazione, lo fu più dal punto di vista biografico che letterario. Se qualcuno avesse dei dubbi su questa interpretazione del vate gli consiglierei di andarsi a leggere le pagine di Mishima che ne fanno una propria fonte di ispirazione diretta per la fondazione della società paramilitare “Associazione degli Scudi”, paragonabile agli Arditi fiumani: là dove Rjeka venne occupata militarmente da D’Annunzio, Mishima, col suo gruppuscolo di fedelissimi occupa l’ufficio del generale Mashita, legge il suo ultimo discorso nazionalista (simile a quelli di D’Annunzio) e quindi si suicida. Prima di tutto ciò, l’autore giapponese aveva esplicitamente riconosciuto il proprio debito intellettuale col Vate traducendone (tutto il masochismo de) Le martyre de Saint Sebastien.(2) Ultima annotazione shakesperiana (come al solito troppo in anticipo sui tempi): Tito, non trovando giustizia in Terra, scocca i suoi messaggi verso gli Dei del Cielo e infine nella reggia di Saturnino suscitandone l’impotente ira. In questa forma di protesta si può già cogliere un’idea di politica dello sberleffo che troverà i suoi alfieri negli indiani metropolitani, nei situazionisti e prima ancora nel lancio del pitale su Montecitorio da parte dell’ardito Keller (body-artist anch’egli, e naturalmente partecipante all’occupazione estetico-politica di Fiume). E qui ci troviamo davvero solo a un passo dalla Merda d’artista di Manzoni.

Note

(1) Nel caso di Pane ci troviamo forse di fronte a una vera e propria incarnazione delle tele tagliate di Fontana e a una variante delle azioni alla Schwarzkogler.

(2) A proposito dei rapporti fra i nipponici e D’Annunzio è il caso di soffermarsi anche sulla sensualità nelle varianti del narcisismo superomistico e della dissoluzione panica: per esse vale la pena di ricordare quella che a oggi è anche una delle ultime sopravvissute del dannunzianesimo orientaleggiante (almeno quanto ad alcune sue opere degli anni ’60), beninteso senza tracciare in questa occasione linee di filiazione dirette: nel 1962 Kusama Yayoi si fa ritrarre nuda sul suo bianco Phallic Sofa: il sofà di Crébillon fils, sovraeccitato dal tanto narrare di avventure erotiche che trovarono posto sulla sua schiena ospitale, protrude tutti gli aculei fallici che può estroflettere facendoli diventare reali, da ectoplasmatici che erano (un po’ il “dramma” di tutta l’arte contemporanea, la letteralità). Stilizzati cazzi d’ogni dimensione e forma dappertutto, come ti siedi ti siedi: un vero millepeni. Più di Crébillon fils, tuttavia, come fons princeps per il suo Sofà è forse il caso di ricordare “La poltrona umana” di  Ranpo Edogawa, racconto del 1925 in cui l’autore immaginava che un artigiano, tanto abile nel proprio mestiere quanto ossessionato dalle proprie eccentriche manie sessuali, coniugasse genialmente tali caratteristiche e costruisse un’ampia poltrona dentro la quale nascondersi per poter possedere così – per masochistiche vie traverse esoscheletre – le dame che vi/gli si sarebbero confortevolmente sedute sopra; secondo questa lettura, l’artista Kusama immaginerebbe dunque di essere una di tali donne, e anzi qualcosa in più: l’artigiano e la femmina, il masochista e la dominatrice insieme (pelle e torsolo di mela, per dirla con Mishima). Ancora: data la sterminata quantità di membri di cui la sua opera è dotata, la signora Kusama riterrebbe d’essere degna di un omaggio così totale non solo da parte di un uomo, ma di tutti (“la sterminata quantità” alluderebbe infatti all’infinito); apparentemente la superdonna, quindi. Poiché però è stata lei a ideare il Sofà, “tutti” equivale nella realtà a niente – proprio come in un sogno, nel quale siamo pur sempre noi a dettare le battute ai personaggi che lo popolano, per quanto sorprendenti esse possano apparirci. Diversi anni dopo, nel 1968 a New York, Kusama Yayoi dà vita – a onor del vero nella foto in mio possesso lei è una presenza soltanto congetturale – a Naked Event; come già per Phallic Sofà, anche in questo caso il titolo è didascalico: l’opera presenta infatti alcune partecipanti e un partecipante, tutti occidentali e completamente nudi, intenti a danzare intorno a una grande statua bronzea di George Washington: fanno la festa al puritanesimo (magari ci fossero riusciti davvero!). Yayoi è probabilmente la donna vista da dietro, vestita di tutto punto e con in mano qualcosa che potrebbe essere un aquilone: baso le mie deduzioni sulla capigliatura e sui cerchi che le chiazzano le gambe, il suo marchio di fabbrica che già si trova nel Sofà. L’ipotetica performeuse, ovviamente o per caso, si trova accanto all’unico modello maschio, e sembra condurre un gioco questa volta molto meno solipsistico del precedente, capace di includere addirittura altre donne oltre lei. Lei? Ma è proprio lei? E il fatto che quasi non la si noti per lo spazio che lascia alle altre è casuale? La foto non è stata certo scattata da qualcuno di passaggio e ha avuto il beneplacito dell’artista per la pubblicazione. Sei anni dopo, K. Y. sembra esser diventata volutamente anonima quanto i membri del Phallic Sofà, come se il suo corpo si fosse trasformato, si fosse dissolto in una forma di panismo erotico nel pineto del ’68.