La Soglia Oscura
Monografie

DISSIPATIO H(ORROR) G.
di Davide Rosso

Cos’è estremo oggi, si chiedevano Roberto Curti e Tommaso La Selva nel commiato di un denso libro sui percorsi nel cinema estremo.
Cos’è estremo oggi? È ancora l’estremo a dover essere ricercato e indagato? La risposta non è molto importante, perché, come concludevano gli autori, per la sensibilità postmoderna ed alienata degli spettatori medi di oggi (adolescenti sempre più assuefatti e bombardati da un dominio digitale obbligatorio) nessuna bizzarria o eccentricità gore è veramente nuova. Tutto è già stato detto e fatto. Pochi altri generi come l’horror sembrano aver esaurito le proprie possibilità narrative e visive, passando dal gusto estetico e narrativo del XX secolo (e qui seguo il breve e seminale saggio di Giuseppe Lippi “Paure di oggi e di ieri” posto in calce al monumentale volume di racconti lovecraftiani ri-editato per Mondadori nel 2015) dei vari Machen, Blackwood, Leiber, Bloch, Lovecraft, Bradbury, Aickman, ai fermenti di uno sconfinamento corporale teorizzato su tutti da Clive Barker e inseguito da scrittori materici anni ’80 della corrente splatterpunk.

Nei primi anni zero questa violenza sadica sul e del corpo ha recuperato gli involucri di certo cinema americano degli anni ’70, purgato però da qualunque sottotesto puritano e apocalittico, in favore di una distruttività “torture” fine a se stessa. Purtuttavia il genere ha conosciuto (sia sugli schermi che nella letteratura) una sorta di impennata. Nella riedizione filologica del saggio “Danse macabre” di Stephen King (Frassinelli 2016) il curatore Giovanni Arduino ripercorre la storia editoriale del saggio, sia negli Usa che in Italia, aggiungendo due brevi saggi conclusivi di Antonio Faeti e Gianni Canova. Quello di Canova ha una sua importanza: il critico cinematografico si chiede come avrebbe proseguito il suo saggio King se si fosse confrontato con questi ultimi anni, di cosa avrebbe scritto? Quali sarebbero stati i suoi giudizi? Il lavoro di King ha il limite storico di fermarsi ai primi anni ’80, Canova prova a lanciare un’esca sulle paure del XXI secolo, immaginando i mutamenti radicali avvenuti negli ultimi vent’anni. Cita Bauman e individua il nocciolo delle nostre paure in un senso di angoscia e minaccia sfumato, liquido, indefinito. La percezione della minaccia è sotto pelle, a basso volume e fa emergere la nostra inadeguatezza, la nostra incertezza, la nostra precarietà umana, sociale, economica. La paura di cui parla Canova è lontana dai b-movies degli anni ’50 e ’60, è lontana dalle trame del gotico o dai sadomasochisti dell’oltretomba immaginati da Clive Barker (e da una cultura splatter generata dalla contestazione di un orrore quotidiano, da una anatomia in poltiglia fibrosa della retorica di massa televisiva).

La paura di questi ultimi anni è quella emotiva di non essere all’altezza della nostra contemporaneità. Di non riuscire a stare al passo di un mondo che percepiamo pieno di insicurezze e minacce (politiche ed economiche) ma che rimanda sempre al frantumarsi della nostra identità, puntinata e appiattita dalla minacciosa velocità di un tempo presente, iperbolico e intollerante. Ritmi di lavoro e scansioni periodiche sempre più ravvicinate incidono sull’esistenza umana producendo un’umiliante condizione di operatività incessante, di superamento dei propri limiti fisici e psichici in favore di un tempo immobile, senza interruzioni, senza ombre e apparenti cambiamenti storici. Il bisogno di essere ininterrottamente aldilà di ogni limite, circondati da immagini, messaggi, informazioni digitali ci consegna ad una paludosa dimensione del crepuscolo, quasi una bassa energia della coscienza. Non ci possiamo più veramente fermare, o sottrarre alla (in)sicurezza di un successo economico sempre a un passo dalla nostra portata. Ecco allora le ombre croniche dell’insonnia, gli attacchi allucinatori, i fantasmi prodotti dall’ambiente artificiale e alterato nel quale viviamo. Ecco allora le paure di non essere all’altezza, di non farcela di stare al passo, di impazzire e perdere la maschera sociale sotto la quale pulsano i quasar della nostra inadeguatezza. Nella società digitale, per moltissimi lavoratori, purtroppo essere un automa al servizio di un algoritmo è ormai una terribile consapevolezza. Per ognuno di noi è impossibile vivere fuori da questo profondo e inesorabile condizionamento capitalistico fatto di orologi, numeri, braccialetti elettronici sul luogo di lavoro, registri elettronici palmari sempre connessi, telecamere in ogni angolo di strada, in ogni negozio. Il nostro senso di spaesamento e di estraniazione radicale si scontra con una visione sociale sempre più radicale e fatta di apparenti certezze. E non è un caso che molti horror odierni giochino proprio su terrori tecnofobi, utilizzando vecchi e nuovi media, analogici o digitali non importa.

Di tutte queste paure, mi pare, viva l’horror del XXI secolo. Mi riferisco a film facilmente reperibili, distribuiti in Italia. Penso a quelli della Midnight factory, Kock media.

In particolare gli horror antologici della serie “VHS” (2012, 2013, 2014) sorta di requiem del found footage, di un’inquietudine che infetta il quotidiano attraverso i disturbi e i baluginii, lo scintillame analogico di una tecnologia superata obsoleta che continua comunque a intossicarci o finge di farlo. Le storie di VHS sono delle schegge non-sense, dei filmini senza scopo, giochi celibi di un manipolo di nuovi registi fighetti a loro volta intossicati e colonizzati nell’immaginario dai barlumi della tecnologia di massa. Registi ragazzini che giocano e si divertono senza alcuna riflessione critica se non quella – involontaria – del vuoto ideologico che ci circonda. Tutto è già stato detto, visto, fatto e i registi antologici di VHS non provano nemmeno ad andare altrove. Le loro storie sono dei segmenti che non hanno bisogno di altro, forse nemmeno più di una storia. Basta lo sfarfallio dell’immagine, l’effetto neve, il vuoto di uno schermo senza corrente. Un vuoto che può essere paesaggistico e rappresentare una sorta di limbo in cui il tempo (qualunque tempo, non solo quello lavorativo) smette di correre, e qui mi rifaccio all’altro horror antologico “Southbound – autostrada per l’inferno” (2015). O ancora le pallottole che spappolano i corpi lungo i margini di strade qualsiasi, strade interrotte, perdute nella wilderness americana, come quelle di “Downrange” (2017). Si può ancora giocare coi suburbi della celebrità, col bisogno di rinascere dalla propria mediocrità, come in “Starry eyes” (2014) e diventare (o immaginare di diventare) bellissime e aliene. Cercare nuovi inizi, lasciandosi alle spalle tutto ciò che si è stati, quel pochissimo che si è stati (il proprio anonimato) e affidarsi alla putredine di forze ctonie e carsiche, come nel cupissimo “Hereditary” (2018), rilettura senza troppa originalità degli horror in salsa satanica degli anni ‘70. Nel nostro aldiquà privato di qualunque contenuto si diffondono vecchi e nuovi miti, sopravvivenze superficiali dei culti satanici o nuove trame digitali: i creepypasta, racconti del nuovo millennio ammantati comunque di una fascino rétro, penso alle leggende urbane alla base di “Non bussare a quella porta” (2016), “The bye bye man” (2017), o a “Bedevil” (2016), quest’ultimo incentrato sui brividi che corrono dentro le tecnologie digitali, spazi spogli e infiniti in cui l’accumulo delle nostre identità e dei nostri comportamenti ci rendono esposti a qualunque tipo di strumentalizzazione e controllo. Il corpo non ha perso la sua centralità. Sul corpo e nel corpo albergano le medesime fragilità. Adolescenti, corpi senescenti, tutti accumunati da un bisogno sempre crescente di tranquillanti, antidolorifici e stimolanti contro una depressione endemica che modifica il nostro sistema nervoso. Sottrarsi all’interazione sociale significa esporsi ai fantasmi della mente, al rimosso dei propri incubi sessuali, come accade alla solitaria protagonista di “Excision” (2012), folgorante e macabro horror sulle pulsioni erotiche di una ragazza infettata da deliri autoptici e necrofili contrapposti all’abbacinante biancore sotto-traccia della produttività sociale (il sistema famiglia americano sempre più equiparato a un sistema aziendale dove i figli devono contribuire positivamente al benessere sociale e ai suoi consumi). Tutto questo ci porterà a un sognare a occhi aperti, a una sorta di coscienza bassa sempre in attesa di nuove connessioni, di nuovi impieghi. Nei rari intervalli, nei tempi morti, nelle zone morte, la nostra mente vagheggerà gli spettri della nostra inefficienza, i fantasmi di un mondo imperfetto e spento, a un passo da un exit. Un coma fantasmatico, non lontano da quello immaginato da “Ghost stories” (2017). Che altro? Pandemie, invasioni di zombi? Il cinema horror americano contemporaneo non si è fatto mancare nulla, eppure tutto è già stato visto, detto, saturato fino alla noi, come nella noiosissima saga di “The walking dead” o del suo gemello “Fear the walking dead”. Sotto sotto, i film più rappresentativi sono proprio quelli con meno trama, meno personaggi, meno orpelli, film girati con l’abusata e nauseante tecnica del found footage, pensiamo alla saga di “Paranormal Activity” in cui impianti audiovisivi e occhi elettronici spiano la nostra esistenza un istante dopo l’altro, creando una vera e propria dimensione fantasma, una fenomenologia dello spettrale che ci controlla a distanza (e non è un caso che i protagonisti di quei film siano sempre appartenenti a un ceto elevato, quasi tutta gente di un terziario tecnologico avanzato, programmatori digitali al servizio di evanescenti server aziendali, impiegati in lavori liquidi e socialmente virtuali). Che i demoni di “Paranormal Activity” non siano altro che una maledizione degli algoritmi stessi? In questi horror a basso budget girati con telecamere e stili di ripresa amatoriali il senso di sterilizzazione affettiva e vuoto emozionale è molto forte. Sembrano canovacci imbastiti sul nulla. Torniamo a Canova, a quelle parole. “Putroppo Danse macabre si arresta sulla soglia di quei mutamenti radicali che negli ultimi vent’anni hanno cambiato anche la nostra percezione della minaccia e della paura, facendo emergere l’inadeguatezza e l’incertezza come le nuove forme epocali del terrore individuale e collettivo nella società del confort globalizzato (…) E’ la paura di non essere all’altezza che segna in modo specifico lo scenario emotivo della contemporaneità. Tutte le altre paure legate alla percezione della minacciosità della devianza (la paura dello straniero, del diverso, del vagabondo, del misterioso) non sono che pillole sociali inventate per surrogare (e dissimulare) con una forte offerta identitaria la vera, radicale paura del nostro tempo.”

E in letteratura?

L’horror americano e non vive una grande ripresa grazie a scrittori borderline, che si muovono lungo i confini di un genere weird in grande riformulazione. Penso a Thomas Ligotti, Nathan Balligrud, Laird Barrow, Steve Rasnic Tem, Simon Strantzas, Livia Llewellyn. Gente che ha preso il posto dei vecchi maestri, King, Straub e Campbell su tutti. Il genere splatterpunk non ha mai veramente sfondato e Clive Barker ha finito per percorrere sentieri narrativi più dark e fantasy. Le insicurezze e le angosce del nostro tempo emergono con prepotenza nei racconti e romanzi dei narratori weird. E non solo. Scrittori più classici, con una formazione decisamente meno indefinibile del weird, hanno saputo scrivere grandi romanzi sul vuoto di questi anni. Penso a due libri editati dalla casa editrice specializzata Indipendent legions: “Widow’s Point” di Richard e Billy Chizmar e “Putridarium” del nostro Paolo Di Orazio. Entrambi i libri sono quasi dei pezzi di bravura, degli esperimenti narrativi giocati su pochissimi elementi (il primo parla di uno scrittore di true crime che si chiude dentro un faro della Nuova Scozia al centro di parecchie morti misteriose; il secondo, con una ambientazione bellissima e folgorante, descrive un convento arroccato sul mare, a strapiombo, un luogo di clausura, il putridarium appunto, in cui le suore anziane rinchiudono la novizia Angie, lasciandola sola a marcire nelle tenebre e nel silenzio), pochissimi personaggi, pochissime distrazioni o sotto trame. Ne escono due libri speculari che trovano le loro forze in una scrittura disturbante e solitaria, scandita dalle onde del mare e dilatata tra il sogno e la veglia, tra la follia e l’orrore e un desiderio narratologico di cupio dissolvi. Perché comunque la vera paura nasce da quei silenzi, da quei paesaggi, dal nulla del putridarium, dal vuoto assoluto e senza tempo, una presenza minacciosa e costante sulle nostre spalle, in qualunque momento della nostra, alienata giornata…