La Soglia Oscura
Racconti

DODICI CENTIMETRI DI PERFIDIA
di Daniela Micheli

Il colpo arrivò alla base della nuca.

Violento, secco, preciso.

La donna si accasciò svenuta sulla scrivania ingombra di carte; il pesante libro cadde a terra con un tonfo.
L’assassino continuò a infierire, fino a quando i capelli furono una scivolosa massa di sangue e materia cerebrale.
Nel momento in cui si rese conto che era morta, abbassò il braccio.

Ripose l’oggetto cilindrico nella ventiquattrore, avvolgendolo in una cartellina di plastica portadocumenti, lasciando il cadavere sulla poltrona di pelle.
Riportò il volume dello stereo al minimo poi si diresse alla porta; abbassò la maniglia lentamente, facendo molta attenzione che non cigolasse.
Sbirciò l’ingresso, di fronte a lui: il carrello di Evelyn, la donna delle pulizie, non si vedeva, segno che la donna era ancora al secondo piano; in caso contrario, sarebbe dovuto uscire dalla finestra.
Si allontanò in silenzio com’era arrivato: un’ombra che tornava a confondersi con la nebbiosa notte padana.
A passi veloci, rasentando i muri ed evitando i coni di luce che proiettavano i lampioni, raggiunse l’anonima utilitaria della moglie, parcheggiata a un chilometro di distanza dallo stabile, in una stradina laterale.
Salì in macchina.
Non era accaduto nulla, era solamente finito l’incubo.
L’uomo tirò un respiro di sollievo: il primo che riusciva ad aprirgli i polmoni completamente, dopo mesi e mesi.

Lavorava presso la Six Solutions da molti anni: fresco di diploma, tra le tante offerte d’impiego che erano fioccate a seguito dei risultati scolastici conseguiti, aveva alla fine scelto quella piccola azienda produttrice di divani in pelle.
La carriera in verticale, costante e veloce, lo aveva portato a occupare la poltrona dirigenziale dell’ufficio amministrativo.
Con l’aumento delle responsabilità era proporzionalmente cresciuto il trattamento economico; Roberto era riuscito a mettere da parte a sufficienza per comprarsi una casetta e sposarsi con Emma.
Le cose andarono bene per molto tempo, sia a casa sia al lavoro.
Tutto funzionò fino a quando giunse in azienda la figlia del proprietario, una stronzetta viziata e arrogante che il padre pose immediatamente sullo scalino più alto.
Spesso Roberto scherzava con gli operai della fabbrica paragonando Lucia, la laureata d’assalto, al mega direttore generale di fantozziana memoria.
“La manca solo la poltrona di pelle umana ed è tale e quale, compreso il ficus benjamin alla porta”.

Ciò che Roberto non aveva considerato era l’invidia profonda che Lucia nutriva nei suoi confronti: la ragazza si rendeva conto che il collega valeva molto più di lei e provava una sorta di piacere fisico nel metterlo sotto pressione, spiando continuamente il suo lavoro, alitandogli sul collo come un corvo appollaiato sulla spalla, in attesa della mossa sbagliata che, immediatamente, era rinfacciata con grande eco.
Poco alla volta lo defraudò del suo lavoro, mettendo in discussione il suo comportamento, cambiando le password di accesso ai dati riservati, rilevando inesistenti errori.
Ogni giorno così, uno stillicidio.
Roberto incassava anche se ogni mattino, quando saliva in auto per recarsi al lavoro, una morsa gli serrava lo stomaco.
In occasione della riunione del consiglio d’amministrazione per l’approvazione del bilancio, arrivò l’ultima e definitiva mazzata: mentre Lucia si fingeva impegnata ad ammirarsi le lunghe unghie laccate di cremisi e le griffatissime scarpe, il signor Sausa annunciò che tutta la direzione economica, amministrativa e finanziaria sarebbe passata nelle mani della figlia mentre Roberto sarebbe stato trasferito all’ufficio spedizioni, alla fatturazione, in sostituzione di una maternità.
Roberto ammutolì; nel cervello, solo un groviglio di pensieri rabbiosi.
C’era riuscita la stronza, alla fine lo aveva distrutto.
Per Roberto iniziò un periodo nero: non riusciva a mangiare, dimagriva, non dormiva; spesso al mattino non aveva la forza di tirarsi su dal letto, e restava a rimuginare.
I colleghi non riconoscevano più, nella figura stropicciata, lo storico direttore Roberto Benanti.
Si prese un periodo di malattia, e cominciò a soffrire di impotenza.
Emma lo pregò di rivolgersi a uno specialista che lo sottopose a una serie infinita di accertamenti: fisicamente tutto era perfetto, mentalmente no.
Roberto stava lentamente lasciandosi uccidere dall’apatia provocata dalla grande rabbia.
Ascoltata la coppia, il medico consigliò loro di rivolgersi a un legale: se mai erano stati evidenti e chiari i danni che una causa di mobbing potevano provocare, erano lì, davanti ai suoi occhi e l’avere un obiettivo poteva essere un motivo in più per ritrovare la forza di uscire dal baratro in cui era scivolato.
Così intentarono una causa alla Six Solutions per danno biologico.
Ci vollero tre anni ma alla fine l’avvocato lo fece vincere: oltre a un risarcimento cospicuo, la sentenza condannava l’azienda a restituirgli il posto e riassegnargli le funzioni che aveva sempre svolto.

Significava tornare a lavorare a fianco di Lucia.

Erano già alcuni giorni che pensava di riprendersi dal vecchio ufficio le sue foto e gli altri accessori che stavano lì a prendere polvere in uno scatolone sul pavimento, chiuso malamente da un pezzo di scotch e un foglio di carta con scribacchiato il suo nome.
L’ora di chiusura era già passata da un pezzo quando entrò nell’ufficio deserto, prese lo scatolone e vi sbirciò dentro.
All’interno, sul fondo, un cilindro di pelle nera riempito per metà di sabbia: un pesante accessorio non terminato della seduta di un divano, che chissà come era finito tra la sua roba.
Roberto stava per gettarlo nel cestino dei rifiuti ma, nel soppesarlo tra le mani, un’idea si insinuò lentamente tra i suoi pensieri.
Restava solamente da studiare i dettagli, tutto il resto, in quei pochi istanti, era già chiaro, come se si fosse già svolto.

– Sfinita, sono sfinita – pensava Lucia mentre si gettava sulla poltrona scalciando le scarpe che le stavano martoriando i piedi: era dal mattino che stava in bilico su dodici centimetri a stiletto e non vedeva l’ora di arrivare a casa, gettarsi dentro una vasca bollente e profumata e infilarsi a letto.
Le restava solamente da controllare una cosa sul Codice Civile e poteva andarsene.
Si avvicinò allo stereo e infilò nel lettore il suo CD preferito, le note di Feeling Good e la voce di Nina Simone invasero la stanza.
Prese il grosso volume dalla libreria e iniziò a sfogliarlo in cerca degli articoli che le servivano.
Si bloccò, girandosi verso la porta: le era parso di percepire un movimento alle sue spalle.
– Evelyn, sei tu? – chiese abbassando con il telecomando il volume della musica.
Nessuna risposta.
Scrollò le spalle e riprese a leggere, ma un rumore la interruppe.
Un click nella sala. Lo scatto di una serratura?
Poi dei passi. Una pausa. Un altro passo. Poi silenzio.
Lucia si rivolse a Roberto, rialzando il volume della musica: non era un ospite che meritava il silenzio della sua canzone preferita.
– Che fai qui Roberto? L’ufficio personale mi ha detto che oggi eri in ferie, come se non ne avessi fatte abbastanza…-.
La mano di Roberto scattò, senza una parola: un colpo secco, preciso, a quel maledetto collo da cigno, proprio sotto la corta e curatissima zazzera di capelli rossi.
– Ora puoi andare all’inferno. Però sempre sui tacchi a spillo, stronza! –