LA ZATTERA
di Emma Misitano
Mi sono destato per il dolore acuto alla gamba.
Nel sogno ero bloccato sotto le ruote di una carrozza; l’apertura di luce incorniciava il viso cinereo di una donna, che indossava un cappello con nastri e piume nere. La dama mi fissava dall’alto con i suoi occhi dal colore cangiante: l’azzurro era diventato verde,
poi giallo, infine volse al rosso; e quando iniziarono a sgorgare lacrime di sangue, la carrozza si mosse sopra di me. E mi sono svegliato.
Apro gli occhi, sono in mezzo all’oceano ed è il sesto giorno su questa dannata zattera alla deriva. Il dondolio delle onde accompagna indifferente il conteggio a ritroso verso l’ora della morte. Lenta, troppo lenta. Dio ha deciso di salvarci dal naufragio per gustarsi
il graduale logorio delle nostre menti nei corpi straziati e fetidi.
Intorno a noi solo acqua.
Cerco di liberare la gamba dal peso che l’ha ridotta a un pezzo di legno – insensibile, non sembra più appartenermi – e mi accorgo che si tratta del corpo senza vita di Abel. I suoi ricci marroni e stopposi, il dorso moro irrigidito. Durante la notte è lui che hanno fatto
fuori: un altro nero. Quel nero che subito dopo il naufragio mi aveva aiutato ad aggrapparmi alla chiatta e stretto la mano fino a mettermi in salvo.
Mi divincolo dal suo cadavere nonostante non ci sia molto spazio. Mi domando, una volta sterminati tutti gli schiavi, chi sarà la prossima vittima. Spero di essere io.
Mi guardo intorno, siamo pezzi di carne, se vivi o morti non fa alcuna differenza. La nostra pelle è intrisa della puzza di pesce putrido e di sangue. Sotto il corpo di Abel, una chiazza scura si è allargata sulle doghe di legno: è la vita che è corsa via.
«No!» sento urlare dall’altra parte della chiatta. Un uomo si accascia a terra piangendo.
Stringe nelle mani una maglia fradicia. È un bianco che noi chiamiamo il Capitano, vittima dell’ennesimo miraggio. Solo lui riesce ad avvistare navi all’orizzonte: si sbraccia e urla fino a perdere la voce. Ma poi la realtà lo cinge con le sue braccia compassionevoli, e
lui si riduce a un lombrico che si arriccia su sé stesso.
È il sesto giorno, dicevo, e il mio stomaco è una pietra, sazio di tanto orrore. Ma la cosa più difficile è mantenerci lucidi, nonostante la sete. Beviamo la nostra urina col vano tentativo di ingannare la mente. Ma prima o poi se ne accorgerà, e spero allora di essere già morto, ucciso.
«Devi resistere!» mi incita il Capitano ripresosi dalla crisi. E capisco che saremo noi due, gli ultimi superstiti su questa fottuta zattera.
Intanto le onde si ingrossano e si infrangono sul legno. Spostiamo il cadavere di Abel sull’orlo per proteggerci dagli spruzzi. Se non fossimo stati tanto avventati all’inizio, avremmo conservato i corpi degli altri neri per usarli come barriera. Invece li abbiamo gettati in mare come sacchi di riso.
Un uomo bianco mi fissa con sguardo vacuo, le sue labbra si muovono ma io non riesco a sentirlo. Ha la maglia strappata alle maniche, la pelle grigia. Un altro è disteso sulle sue gambe e intona una cantilena.
«Zitto!» gli urla un terzo. La sua mano macerata dall’acqua salina gli tappa la bocca fino a togliergli il respiro e alle mie spalle scoppia la risata di una donna. Fresca e leggera.
Asciutta.
Non mi volto neanche, per evitare la delusione nello scoprire che dietro di me c’è solo il mare. Mi piace cullarmi con l’idea che sia la Morte, sopraggiunta per prenderci tutti.
Chiudo gli occhi e affondo il viso tra le mani. Premo sulle palpebre fino a vedere scintille bianche. E allora il mio corpo si solleva dalle doghe, nelle orecchie un frullo d’ali. Sto lasciando questo posto. Ma poi un’onda mi colpisce. L’acqua salata si insinua nel mio naso, nella bocca. Brucia. Sono ancora all’inferno.
Sento le vene gonfiarsi e pulsare. Il cuore urta violento sulle costole. Mi drizzo in piedi.
«Capitano!» E il mio urlo si disperde nell’aria: «Capitano! Se non sarà lei a uccidermi, lo chiederò all’ultimo nero di questa dannata zattera!» Mi avvicino a lui e mi accorgo che è ferito al braccio destro, rivoli di sangue gli rigano la pelle cinerea.
Lui rimane immobile e il silenzio che segue mi fa gridare ancora più forte: «Maledetti neri! Razza di animali da soma!» mi rivolgo agli ultimi due schiavi che giacciono distesi sulle doghe e che mi guardano con occhi strabuzzati. Ancora silenzio. I corpi ingrigiti, muti davanti a me.
Allora mi scaglio contro uno di loro, lo sollevo da terra e lo scuoto.
«Bastardo, se hai un briciolo di orgoglio uccidimi!»
Continuo a scrollarlo per le spalle e il capo gli ciondola avanti e indietro. Comincio a schiaffeggiarlo, poi lo colpisco con un pugno sul naso. Un naso largo dalle narici prominenti che non mi degna neanche di una goccia di sangue.
«Sono morti.» La voce di donna è tornata, tronfia. «Sono tutti morti da almeno due giorni.»
Nell’udirla, stavolta mi volgo e la vedo. La dama dal cappello con nastri e piume nere mi guarda. L’angolo della bocca le si curva in una smorfia.
«Ma il Capitano…» farfuglio io «mi ha parlato poco fa e la sua ferita sanguinava…»
Lo stomaco mi si contrae come un pugno chiuso che si prepara al combattimento.
Un’altra onda mi schiaffeggia ma io rimango immobile. Solo l’oscillare della chiatta alla deriva.
La camicia mi rimane incollata alla pelle, abbasso lo sguardo, è sporca di sangue. Sento qualcosa che cola dalla bocca, passo la mano tremante per asciugarmi e la scopro tinta di rosa.
«Acqua e sangue» afferma la dama col cappello, «il sangue che si è raggrumato intorno alla tua bocca affamata.»
«Sto morendo?» le chiedo.
Lei sorride.
«Non ancora. Il banchetto che hai inaugurato ti terrà sazio per qualche altro giorno.»
D’istinto avverto la lingua muoversi nella bocca e solleticare i filamenti intrappolati tra i denti. Mi torna alla memoria il sapore dolciastro e metallico della carne cruda, che ha lasciato il posto a un alito fetido.
La mia mente corre all’attimo in cui ho afferrato il braccio del Capitano morto e ho affondato i denti nella carne ancora morbida. Ho strappato la pelle, sono arrivato al muscolo. Sento ancora nella bocca la massa fredda e succosa, la sua consistenza che le mie mandibole hanno ridotto a bocconi da ingoiare. La dama col cappello mi guarda e scoppia in una sonora risata. Le risa dapprima si amplificano, poi si riducono a ronzii che si insinuano nelle mie orecchie. Arrivano al cervello e sbattono come mosche impazzite.
Gli stessi ronzii che violentano adesso la mia pace e che mi fanno correre all’angolo della stanza dalle pareti grigie per rifugiarmi. E rimango lì in ginocchio, la testa tra le gambe, le mani sulle orecchie, ma nulla posso contro gli echi nella mia testa.
Gli uomini dai camici bianchi accorrono con una siringa a smorzare le mie urla. Li afferro per le braccia, loro si divincolano e sento la stoffa ruvida delle maniche scivolare tra le mie dita.
Poi avverto l’ago bucare la pelle e dopo pochi minuti un piacevole torpore si impossessa di me. Il corpo diventa pesante e chiudo gli occhi.
E lì vedo il Capitano, Abel e gli altri neri. Muovono le labbra, io non sento nulla ma so cosa mi stanno dicendo.
«La morte è ancora lontana.»