L’ARCHEOLOGO
di Gianfranco Galliano
Leggo in un mio vecchio articolo, “H. P. Lovecraft retore”:
Per spiegarci meglio, partiamo dai protagonisti tipici delle sue opere: si tratta di bianchi privi di caratteristiche specifiche dal punto di vista del carattere e della psicologia, impiegati in un’attività intellettuale (dallo studente allo scienziato, spazio nel quale possiamo senza dubbio collocare Lovecraft stesso), per nulla dotati dal punto di vista fisico (anzi per lo più gracili e con problemi psicologici), né con tratti eroici sul modello del Conan di Robert Howard…insomma niente più di fantocci che fanno tutt’uno con il solo loro ostinato ricercare. Ma cosa? In due parole, per amore o per forza, la realtà che la nostra quotidianità nasconde: “dietro ciò che ne sappiamo [della vita] appaiono i baluginii di una verità demoniaca” (“Le vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia”).
Il balio asciutto (1958) è un music–hall non particolarmente brillante scritto e diretto da Frank Tashlin con la collaborazione intellettuale di Preston Sturges (accreditato come fonte d’ispirazione nei titoli di testa), in cui si narrano le avventure di una stella del cinema, Carla, sposata e subito vedova, ma non prima di esser stata messa incinta dal suo defunto coniuge torero. Se la cosa si risapesse avrebbe riflessi assai negativi sull’intera carriera della star poiché di lì a poco dovrà interpretare una vergine immacolata (in una superproduzione hollywoodiana) che deve esserlo altrettanto nella morale reale della protagonista. Puritanesimo all’americana, insomma, per cui all’attrice non resta che nascondere al resto del mondo, ma non al suo agente, la propria condizione e partorire alla chetichella ben tre bambine. Infine le lascia – beninteso come trovatelle perché non si scopra l’identità della madre – a un vecchio amico e ammiratore, Clayton (Jerry Lewis, il vero protagonista della pellicola), fidanzato con sua sorella Sandy; neppure costoro sanno che le piccole sono di Carla. Clayton si affeziona talmente a esse che, pur di tenerle con sé, frequenta addirittura un corso per diventare madre delle poppanti, ma il tribunale non gli consente comunque di adottarle. Il padre di Carla, però, una volta scoperto che le bimbe sono sue nipotine, impone a Clayton di impalmare Sandy fingendo che le piccole siano frutto dell’amore dei due. (Per inciso, questo burbero anziano è di certo il personaggio più divertente di tutto il mazzo grazie al fatto che parla citando spesso e volentieri opportuni pezzi d’opera). Carla – mentre le bambine sono sul punto di essere affidate a una qualche famiglia del luogo – riconosce le figlie e annuncia infine che sposerà il proprio agente, mentre Clayton avrà addirittura cinque gemelli da Sandy e diventerà quindi l’eroe del paesino realizzando così il proprio sogno. Come dicevo all’inizio, un film piuttosto debole, senza particolari ambizioni. Spesso, tuttavia, innocue chiesette sono state costruite sopra, e custodiscono ancora, minacciose cripte di horror perduto …
In effetti, che Tashlin si basi sulle idee di Preston Sturges, o per essere più precisi sul film Il miracolo del villaggio (1944), dal quale ha ricavato il protagonista assai poco macho, il rustico padre e i parti plurigemellari, indica qualcosa di preciso a chi riesca a coglierne fino in fondo il significato: il regista è stato sedotto, magari in una forma oscura, dalla proposta di intraprendere il viaggio intellettuale assai singolare e perturbante che è l’oggetto di questo articolo; lo ha fatto a proprio modo, cercando (e probabilmente riuscendo) a tranquillizzare sé stesso e il suo pubblico tramite l’esorcismo della reinterpretazione. Il miracolo del villaggio è una costruzione cinematografica sepolta (già nel 1958 era senza dubbio catalogabile come vecchio) che merita di venire dissotterrata anzitutto nella sua trama nuda e cruda. Dunque, eccola. Trudy frequenta Norval, cavalier servente tanto innamorato quanto timido e pasticcione, non corrispondendolo che in forma assai blanda. Servendosi di lui come accompagnatore e nonostante il padre poliziotto le vieti di farlo, la ragazza partecipa a una festa in onore dei militari in partenza per il fronte (siamo in piena II guerra mondiale); la mattina seguente, ubriaca fradicia, viene riportata a casa da Norval; un anello al dito le ricorda però che nella notte ha preso marito, anche se incredibilmente non ricorda più chi sia lo sposo (di sicuro non il suo imbranato spasimante, ma forse un soldato di nome Ratzkywatzky o qualcosa del genere). Tempo dopo, scopre d’essere incinta e vorrebbe accomodar la faccenda sposando Norval; il tentativo fallisce miseramente a causa della dabbenaggine del ragazzo. In seguito a una serie di equivoci egli viene arrestato, ma riesce a fuggire. Trudy, aiutata dal padre (burbero e autoritario solo all’apparenza), fa di tutto per scagionarlo dalle false colpe che gli sono state attribuite. Ricoverata in clinica, dà alla luce sei maschietti e infine celebra le sue nozze con Norval.
Già alla censura dell’epoca questa pellicola non parve affatto una delle tante commedie di costume sulla società americana degli anni ’40 se è vero che la Collezione MPAA/PCA della AMPAS Library rivela quanto segue: la Production Code Administration nel 1942, per rinforzare il Motion Picture Production Code (stabilito dalla Motion Picture Producers and Distributors of America), inviò una lettera sulla storia di Sturges nella quale sollecitava una speciale attenzione a proposito di quanto diceva la quattordicenne sorella della protagonista, Emmy, troppo scabroso per l’epoca, e censurava il fatto che Trudy venisse mostrata ubriaca (al massimo poteva esser brilla). Inoltre tutto quanto riguardava la gravidanza di quest’ultima doveva essere drasticamente ridotto e riscritto. Infine non ci doveva essere nessun parallelo, neppur velato, fra Trudy e la Madonna. Come se non bastasse la censura religiosa, il Dipartimento della Guerra obiettò che i soldati venivano dipinti come privi di un comportamento corretto, mentre in realtà si trattava soltanto di giovani che si stavano divertendo durante una serata; in termini più espliciti non erano certo, come lasciava intendere Sturges, dei cinici stupratori. Non è chiaro se fossero i sospetti di blasfemia e violenza carnale, che tanto avrebbero dato all’horror americano solo qualche decennio dopo (con L’esorcista e L’ultima casa a sinistra, per esempio), a ritardare in maniera eccessiva l’uscita del film (già pronto per le sale nel 1942!) in quanto non esistono conferme a riguardo, ma è sicuro invece che il regista lasciò la Paramount di lì a poco. Egli, nella sua autobiografia afferma con candore che voleva “mostrare cosa accade a una giovane che ignori i consigli dei genitori e confonda il patriottismo con la promiscuità”. In ogni caso, mentre la Production Code Administration ricevette numerose lettere di protesta, la Paramount ricevette invece la notizia che Il miracolo era stato il proprio campione d’incassi per il 1944 e Sturges nominato a un Academy Award per la miglior sceneggiatura originale. A conclusione dell’analisi sulla censura che la pellicola subì, e della quale in sostanza si fece beffe, non si può dire meglio di quanto fece a suo tempo il critico James Agee: “L’ufficio di Hays dev’essere stato stuprato nel sonno”. Ovviamente da Sturges.
Ma forse la medesima cosa accadde al regista (che fu anche sceneggiatore e produttore de Il miracolo del villaggio): in effetti la provincia e il genere brillante sono semplici quinte funzionali a un raffinato esercizio di intelligenza cinematografica totale che richiama con precisione il dotto e visionario studio sul matriarcato primordiale di Bachofen; non è dato sapere, tuttavia, se l’autore de I dimenticati conoscesse o meno Il matriarcato. Di certo non ne ha mai fatto menzione, quindi il problema semmai sarebbe: da chi è stato – intellettualmente – stuprato Sturges? Mistero. Limitiamoci quindi a dimostrare quanto abbiamo appena affermato tirando in ballo l’antropologo–giurista svizzero. Forse è proprio il momento di estrema necessità, la guerra su scala planetaria durante la quale fu girato il film e della quale in esso si parla sia pure dalle retrovie, a imporre il ritorno a una forma culturale ormai dimenticata da millenni: la prostituzione sacra. Questo è il motivo per cui, durante la festa, Trudy balla con ogni tipo di uomo: alto, basso, grasso, bello, brutto… l’elenco, non senza ragione, è virtualmente infinito. Poco prima, aveva esclamato: “Non è giusto lasciare andare al fronte questi ragazzi senza un ultimo bacio, senza un ultimo abbraccio!”, e Norval aveva replicato: “Ma credi di essere l’unica donna a Morgan’s Creek?”. In un certo senso sì: lei è la ierodula: “L’eterismo praticato dalle matrone viene ora ristretto alle giovani, esso non è praticato durante il matrimonio, ma solo prima di esso, e non più indiscriminatamente, da parte di tutte, ma solo da determinate persone. A queste limitazioni si collega la istituzione religiosa delle ierodule (prostitute sacre)” (J. J. Bachofen, Introduzione al diritto materno). Trudy diventa tale nel momento in cui batte incidentalmente il capo mentre danza: ciò le provoca infatti un vuoto di memoria non individuale, ma collettiva; così, libera da millenari schemi, ritrova quelli sepolti di Demetra, che le consentono, anzi le ordinano con un imperativo a cui non può sfuggire, di darsi a tutti. La scoperta dell’anello nuziale resta solo per un attimo una concessione al genere commedia: Sturges, infatti, poco dopo informa lo spettatore della gravidanza della protagonista. Come se non bastasse il regista sconfessa apertamente ogni possibile lettura tranquillizzante de Il miracolo, magari in chiave di satira del puritanesimo, non sciogliendo affatto l’enigma della paternità: quest’ultima resterà per sempre avvolta nell’anonimato, proprio come ai tempi dell’eterismo trionfante. Qualsiasi tentativo d’indagine in questo senso, anzi, è destinato a risultare vano a priori in quanto l’interrogativo, come il vuoto di memoria della ragazza, è posto su di un piano culturale collettivo e non semplicemente individuale (una prospettiva, quest’ultima, che non sfiora neppure l’autore): in tale dimensione non ha senso chiedersi e magari tentare di scoprire chi abbia messo incinta Trudy; occorrerà semmai domandarsi che significa e da dove provenga il suo comportamento: in altre parole, cosa si esprima attraverso di lei. Per rispondere, non ci resta che tornare a Bachofen: “La natura esclusiva della maternità, che non conosce alcun padre, che designa i figli apatores (senza padre), nello stesso senso, polupateres (di molti padri), spurii, spartoi (seminati) o con un significato equivalente, unilaterales (generati da una sola parte), e il genitore come oudeis (nessuno), Sertor, Semo (seminatore), è altrettanto storica quanto lo è il dominio demetrico di questa stessa maternità sul principio della paternità.” Trudy è tout-court la Grande Madre America: per questo i potenti della Terra (da Hitler a Stalin) restano attoniti alla notizia del parto plurigemellare, che dispiega l’enorme potenza creatrice del Nuovo Mondo proprio nel momento in cui è più necessaria: ecco nuova carne (i figli di Trudy sono tutti maschi), indispensabile per rimpiazzare quella che il piombo ha spazzato via e per farla dimenticare in fretta. La ragazza, dopo un periodo di eterismo per “ragioni di superiore servizio patriottico”, deve infine tornare nei ranghi sposandosi per dare un padre legittimo ai propri figli; la sua prostituzione, inoltre, diventa garanzia della fedeltà coniugale, “la cui osservanza rigorosa richiede una previa realizzazione naturale da parte della donna” (Bachofen); l’unico marito possibile, a questo punto, sarà un marito morale, che rima con nominale: Norval, dunque, come la stessa Trudy un semplice fantoccio in balia di eventi e demoni ben più grandi di lui. Egli, all’inizio del film, le ricorda un episodio del loro passato comune: “Ricordi quella festa in cui tu ti sedesti sulla marmellata, e diedero la colpa a me?”; detto in sintesi allusivamente erotica, è un po’ tutto il destino di Norval (fidanzato cornuto e bastonato prima, marito contento poi) disegnato con una prolessi: la sera in cui Trudy andò a quello che ora possiamo definire senz’altro rito orgiastico, si sposò (con chi?, o meglio: con quanti?) e consumò i suoi numerosi matrimoni, quella sera fu proprio Norval a farle da involontario mezzano portandola alla festa e soprattutto fu lui ad assumersi sulle sue esili spalle di cane di paglia le ‘colpe’ degli altri: egli divenne capro espiatorio. Proprio il cavalier servente della giovane, l’unico che non indossa la divisa (nessuno escluso: anche il padre di Trudy veste quella di poliziotto), e anzi è stato più volte scartato alla visita di leva per turbe psicosomatiche delle quali nel corso del film ci dà qualche umoristico esempio, il solo che non ha di certo fecondato la ragazza (i sei gemelli alludono forse anche, per condensazione, a sei figli di sei padri diversi), diventerà in via retroattiva e simbolica colonnello degli Stati Uniti per nomina governativa, coronando così il proprio sogno di venire ammesso fra i maschi adulti guerrieri; egli conquisterà dunque per necessità di fondazione sociale l’identità, o meglio avrà la parte, in senso tutto teatrale, di padre potente. Non a caso il film termina con questo epilogo tratto dalla Dodicesima notte [Atto II, Scena IV]: “Ma Norval si ristabilì e divenne sempre più felice perché, come disse Shakespeare, – Qualcuno è nato grande, qualcuno raggiunge la grandezza e ad altri ancora la grandezza viene imposta. –” Alla fine del film, il più avveduto “spettatore […] traccia una croce sulla sceneggiatura e fa la sottrazione: privato del suo alibi, il comportamento della società e degli individui appare nella sua oscena nudità di rituale che non si conosce” (A. Bazin, Il cinema della crudeltà). Ma ancora non basta: le forze “di […] grandi poteri o creature” mosse da Sturges “potrebbero essere plausibilmente una sopravvivenza […] di un periodo enormemente remoto quando […] la consapevolezza si manifestò, forse, nelle sagome e nelle forme da lungo tempo scomparse prima della marea dell’umanità che avanzava… sagome delle quali la poesia catturò una memoria fluttuante e le chiamò dei, mostri, esseri d’ogni genere” (HPL? No, Algernon Blackwood).