L’INFINITO LEOPARDI
(Brevissima storia della Letteratura Italiana n.7)
di Gianfranco Galliano
È ben noto, il tema de “L’infinito” è quello della negazione: la siepe che preclude la vista dell’orizzonte e, per estensione simbolica, Recanati che preclude l’immersione in un’Europa con più ampie prospettive culturali e in pieno fermento socio-politico; come accade spesso con la censura, tuttavia, tale negazione si tramuta paradossalmente in apertura positiva: se Leopardi non fa parte del mondo in trasformazione, proprio per questa ragione egli può giungere a vedere quel che di permanente vi è nella condizione esistenziale dell’umanità (da non confondersi con il creato intero: sarebbe un’associazione del tutto indebita per il poeta); per questa strada, la sua domanda diventerà essenziale e finirà per coincidere alla perfezione con quella di ogni uomo e di ogni donna, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi tempo si trovino, in una sorta di sfericità spaziotemporale (sempre relativa soltanto a noi).
Vale ora la pena di soffermarsi sulla negazione con esiti paradossali ai quali mi riferivo poco sopra per citarla senz’altro come esempio da aggiungere alla voce Eros nel significato più arcaico del termine, seguendo la definizione a firma Giovanni Bottiroli che dà l’Enciclopedia Filosofica Einaudi: la penìa (mancanza) materiale genera il poros (mezzo) mentale, che procura un piacere nettamente superiore a quello dell’edonismo volgare. Per sottolineare in modo adeguato e con forza la fisicità di tale piacere, riporto un passo della Certosa di Parma che Leopardi avrebbe certo sottoscritto: “Di quali miserie l’amore non fa la sua felicità! […] La miseria delle risorse impiegate dal povero prigioniero avrebbe dovuto, sembra, ispirare a Clelia una maggiore pietà. Egli voleva corrispondere con lei per mezzo di caratteri che tracciava sulla sua mano con un pezzo di carbone di cui aveva fatto nella stufa la preziosa scoperta; avrebbe formato le parole lettera a lettera, e successivamente. Quest’invenzione avrebbe raddoppiati i mezzi di conversazione nel senso che avrebbe permesso di dire cose precise”. Non c’è poi molta distanza tra questo materialismo e quello di un Genet, celebratore dell’eros di un tubetto di vaselina mezzo spremuto o apologeta del muco (Diario del ladro). O, per riavvicinarci al nostro tema, al “Meno vedi, più descrivi” di Heiner Müller (si pensi in particolare a Paesaggio sotto sorveglianza).
Ai giorni nostri, dopo il capillare genocidio consumistico e massmediale profetizzato con fin troppa precisone da Pasolini, genocidio a causa del quale la facoltà dell’immaginazione viene messa a dura prova dalla produzione di immagini sempre più iperreali, “L’infinito” suona come una scommessa sulle possibilità del pensiero di creare ancora ectoplasmi di desiderio in piena autonomia, ben al di là delle fantasie cristallizzate su qualsiasi schermo, e di ricavare il proprio “sensistico” piacere prima di tutto in questo scacco dato alle soluzioni immaginative preconfezionate e omogeneizzate. L’infinito, d’altro canto, risulterebbe ironicamente irrappresentabile da esse; per definizione.
In ogni caso, è naturale che ci si adegui ai limiti e alle libertà che le circostanze ci mettono di fronte, per cui non è ipotizzabile che con una semplice decisione intellettuale si creino appositamente ostacoli laddove questi mancano: per restare nel nostro ambito di discorso, per esempio, rappresenta il colmo dell’insensatezza cercare di eliminare le immagini da un mondo che ne è pieno, magari togliendo di mezzo la tv, il pc o il cellulare (esperimenti a suo tempo tristemente tentati anche in Italia), a meno di non voler ricadere nell’ambito di un volontarismo empatico borghese, come Simon Weil quando, da filosofa, provò a fare l’operaia, o Mishima, quando da scrittore fondò un gruppuscolo militare: patetismi entrambi. Meglio lasciar fare alla casuale necessità della storia collettiva o di quella individuale: “Un cineasta russo, forse Ejzenstein, Pudovkin o Evrejnov, ha scritto che la superiorità dei registi sovietici della fine degli anni Venti si deve unicamente al fatto che all’inizio della loro carriera non avevano pellicola. La guerra mondiale e la rivoluzione sospesero le importazioni di pellicola cinematografica e tutto quel che i cineasti avrebbero potuto fare era sedersi attorno a un tavolo a teorizzare, e cioè esattamente quello che fecero per cinque anni” (D. Mamet, Note in margine a una tovaglia); “Detenuto in un ambiente brulicante di impulsi mascolini distorti [una prigione di massima sicurezza], Beausoleil ha furiosamente attinto ai suoi impulsi erotici interiori per trascendere ciò che lo circondava. Gli esperimenti di Beausoleil con il suo subconscio sono gli elementi chiave del suo continuo sviluppo spirituale ed estetico. […] è ironico che un prigioniero debba essere così libero da nevrosi sessuali, mentre la maggioranza degli americani contemporanei, apparentemente in possesso della “libertà”, trascorrono la loro intera esistenza torturati da disfunzioni sessuali nella mente e nel corpo. ” (M. Moynihan, “Inaugurator of the Pleasure Dome: Bobby Beausoleil”, in VV AA, Apocalypse Culture II).