La Soglia Oscura
Monografie

LO SCUDO DI FOSCOLO
(Brevissima storia della Letteratura Italiana n.6)
di Gianfranco Galliano

Nella celeberrima In morte del fratello Giovanni Foscolo fa un uso della citazione che si può quasi definire eccessivo (e ciò nonostante la sua sia sempre una poesia nella quale non mancano i riferimenti alla cultura del passato): fra Catullo, l’Eneide (due citazioni), Petrarca (idem), le Georgiche / (interpretabile anche come un’autocitazione dall’Ortis) si arriva a sei/sette citazioni nei soli 14 versi canonici del sonetto. Come sappiamo, tale utilizzazione di brani d’opere altrui nasce in forma magmatica dalle precedenti letture di uno scrittore, che trae ispirazione in forma spesso del tutto inconsapevole dal proprio inconscio culturale e tuttavia sceglie (ovviamente nei casi più riusciti, come questo), grazie a una sorta di istinto formatosi di pari passo con l’aumentare e l’approfondire il proprio patrimonio di conoscenze, proprio quanto occorre in quel punto preciso della sua opera non solo rubando ad altri, ma anche presentando persuasivamente al lettore più avvertito ed esperto quel certo brano del passato come se fosse stato scritto da lui per la prima volta. Nel sonetto in questione gli esempi di tali felici trascrizioni non mancano: i virgiliani “tendendo invano a te le mani, ahimè non più tua” e “senti gli dei ostili” diventano “ma io deluse a voi le palme tendo” e “sento gli avversi numi”; i petrarcheschi “indi trahendo poi l’antiquo fianco / per l’extreme giornate di sua vita” e “questo m’avanza di cotanta speme” vengono trasformati nelle formule “suo dì tardo traendo” e “Questo di tanta speme oggi mi resta!” (fulminante e addirittura migliorativa dell’originale, quest’ultima). Detto ciò, torniamo alla domanda posta all’inizio: come spiegare questo abuso della citazione, che non si trova invece, per riferirci a un altro sonetto fortemente autobiografico, in A Zacinto? Dato l’argomento, la lenta morte suicida del fratello di Foscolo, colpevole di aver rubato alla cassa di guerra per ripagare dei debiti di gioco, si può ipotizzare che – in forma del tutto involontaria, sia chiaro – da un lato il poeta volesse a ogni costo ricordare qualcuno che gli era comunque assai caro nonostante fosse moralmente indifendibile se non per quell’ultimo gesto di virile disperazione, ma dall’altro cercasse di tenere a bada questo eccesso di dolore tutto autobiografico attraverso la cintura protettiva formata dalle parole altrui. Parlare per bocca di altri (ed ecco affacciarsi allora alla memoria gli autori più amati, Catullo, Virgilio, Petrarca) per pudore di mostrare apertamente i propri sentimenti, insomma, ribaltando in anticipo sulla sua stessa formulazione questa riflessione di Cioran: “Che cosa dimostra un testo infarcito di citazioni? Modestia? viltà? o competenza? Direi piuttosto la volontà di sottolineare che l’argomento non vi riguarda direttamente” (1). Per Foscolo citare significa semmai evitare la prostituzione integrale e spettacolare della propria interiorità, cosa che egli fa anche nella sua breve lettera sull’evento ad Antonietta Fagnani Arese, essenziale e sobria come di rado ci accade di leggere nel carteggio che la riguarda, di solito fin troppo melenso; la riportiamo qui per intero:

“Mio fratello è morto: le sue fiere vicende, la sua anima generosa, un dolore profondo, lo stancarono della vita. Egli morì fra le braccia della sua povera Madre che è caduta malata, e che non ha né coraggio né forza di scrivermi. Addio addio.
— Temo che fra pochi giorni non le resterà di tre figli che questo giovinetto infelice che piange con me la nostra sciagurata famiglia. stanco e infelice. L’unica prova di amicizia che tu puoi darmi si è di farmi sapere lo stato della tua salute; ti vedrò quando tu mi indicherai come e dove. Poiché tu vuoi ch’io non ti veda; sarai ubbidita. Non farei che rattristarti con le infinite mie lagrime, e col mio dolore che presto sarà seppellito con questo corpo.

Il tuo Foscolo.”

Poche righe per sintetizzare la morte del fratello, senza entrare nei particolari né nominare quell’atto conclusivo che neppure concesse una benevola fine improvvisa, titanica e teatrale come avrebbe dovuto essere (Giovanni, o meglio Gian Dionisio, rivolse contro di sé una lama per evitare il disonore di un processo): nel rievocarla nei suoi dettagli infernali, il dolore non sarebbe potuto diventare che più acuto e insopportabile per Ugo. Fra reprimenda morale e ricordo purtroppo incancellabile della fine senza stile, perché non ci è dato morire con stile, Foscolo sceglie la trasformazione in arte come forma di salvezza di un’intera esistenza. Magra consolazione, per chi è morto a vent’anni, evitare di vedere inghiottito dai secoli il proprio ricordo attraverso una poesia, ma molto più di quanto è concesso alla gran parte di noi – e in perfetta linea con la concezione materialista di Foscolo sull’immortalità.

NOTA
(1) Fra il nostro autore e Cioran si pone in forma ancor più paradossale, questa volta all’estremo, Robert Brasillach, che scrive un breve saggio su André Chénier pochi giorni prima della propria esecuzione capitale, riconoscendo e mascherando il suo destino in quello già toccato al poeta delle Bucoliques, ucciso durante la Rivoluzione Francese: un rigore che sfiora l’assoluta crudeltà nei propri confronti. Un requiem in prosa analitica quando ci aspetteremmo l’abbandono lirico. Lacrime d’acciaio.