La Soglia Oscura
Racconti

La leggenda del drago verde – di Daniele Bello

1. Holdfast

i.

Negli anni in cui gli dei avevano già abbandonato gli uomini a loro stessi, ma durante i quali le terre conosciute erano ancora funestate da mostri di cui oggi è appena lecito sussurrare il nome, il regno di Sylvania venne sconvolto da un orribile flagello; i draghi scesero in picchiata dai cieli a tormentare gli abitanti dei villaggi, facendo razzia di bestiame e giungendo persino a rapire una fanciulla del borgo. La sventurata Alina era la figlia del fornaio e stava andando al pozzo alla ricerca di acqua da bere, quando dei grossi artigli uncinati la ghermirono con violenza per condurla sul picco di una montagna. Un enorme serpente alato dalle squame verdi e dai denti aguzzi era giunto a capofitto dalle nuvole bianche, l’aveva afferrata con forza e l’aveva condotta sino alle cime più elevate della catena dei Massicci Oscuri. A poco erano valse le grida di disperazione dei genitori della fanciulla: nessuno avrebbe mai osato affrontare quelle creature demoniache e men che meno per la figlia di un volgare bottegaio; la ragazza era destinata a rimanere prigioniera del drago per il resto della sua vita o ad essere il macabro pasto di quella orribile creatura…

ii.

Il drago Holdfast stava contemplando con soddisfazione l’antro che da diversi anni aveva adibito a sua dimora abituale; qualcuno avrebbe potuto considerarla buia, fredda ed inospitale, ma per lui costituiva l’emblema della sua magnificenza e del suo potere: all’interno della caverna, giacevano ammassati i tesori che era riuscito ad accumulare in anni di guerre e di saccheggi: erano il frutto dei suoi frequenti e ripetuti assalti agli insediamenti umani, si trattasse di villaggi indifesi o di castelli inespugnabili; in alcuni casi, egli si era persino spinto sin nelle foreste degli elfi e nelle cave sotterranee dei nani, sempre comunque attratto dalla lucentezza dei metalli o delle gemme. In un’occasione, Holdfast aveva addirittura ingaggiato una lotta all’ultimo sangue con un drago dalle squame color ebano (i draghi verdi, come è noto, sono impegnati da tempo immemore in una sanguinosa faida con i draghi neri) ed era riuscito infine, dopo un duello che lo aveva lasciato quasi in fin di vita, a conquistarne il ricco tesoro. E così nel suo antro si erano accumulati, negli anni, fortune dal valore inestimabile: gioielli e monili scintillanti, pietre preziose rutilanti di colori, monete e medaglioni di pregio… Holdfast giaceva letteralmente sopra un’immensa distesa d’oro, d’argento e di altre leghe metalliche. E poi, da ultimo, si era voluto anche concedere il lusso di avere una schiava personale: dopo averla rapita da un villaggio delle terre limitrofe, ne aveva annullato del tutto la volontà grazie ai suoi poteri ipnotici e l’aveva resa succube dei suoi desideri; una magnifica preda, in mezzo ai suoi tesori, in grado di fargli da serva e da cameriera ogniqualvolta ne sentisse il bisogno. Soddisfatto di quanto aveva realizzato nel corso della sua esistenza millenaria, Holdfast sentì il desiderio di riposare; si avviluppò in una posizione che consentiva a tutti i suoi muscoli di rilassarsi completamente, abbassò le sue enormi ali e si mise a dormire di un sonno profondo e beato.

iii.

Da diversi giorni, ormai, la vita era diventata un incubo per Alina; sin da quando aveva visto i draghi calare dall’alto per mettere a ferro e fuoco il suo borgo, la sua mente era impazzita ed aveva iniziato un lento ma inesorabile percorso che l’avrebbe potuta condurre solamente alla follia. Quella creatura immonda dalle scaglie verdi l’aveva sottratta brutalmente alla sua vita quotidiana e l’aveva fatta prigioniera in una terra straniera, circondata da montagne impervie e sferzata da un vento che faceva impazzire gli esseri più deboli; in quella landa desolata, solo i rapaci ed i draghi alati potevano sopravvivere: oltre, ovviamente, ai loro schiavi. Già, perché inizialmente Alina aveva pensato che il mostro l’aveva trascinata sino alla sua tana solo per divorarla più comodamente; invece il drago le aveva parlato con il linguaggio della mente, le aveva spiegato che da quel giorno in poi lei gli apparteneva, non avrebbe avuto più alcuna volontà autonoma ma sarebbe vissuta solo ed unicamente in funzione dei capricci e di quanto sarebbe andato a genio al suo padrone. E da quel giorno, Alina si era rassegnata al suo destino di serva: le sue facoltà mentali non le consentivano neppure lontanamente di concepire una ribellione; ma ogni tanto, soprattutto quando il drago si assopiva e il suo potere ipnotico si allentava (sia pure di poco), riusciva a nascondersi in un cantuccio della caverna e a piangere ancora calde lacrime sulla sua infelice sorte.

2. Il Cavaliere Bianco

Da alcune ore un guerriero stava cavalcando a spron battuto per raggiungere le pendici dei Massicci Oscuri; chiunque avesse avuto la ventura di scorgerlo nella sua corsa forsennata, non avrebbe potuto fare a meno di restare ammutolito per la maestà che promanava da quel cavaliere errante. L’uomo era armato di tutto punto, con una corazza a piastre, un elmo e dei gambali color della neve; anche il suo palafreno aveva un manto interamente bianco, rivestito con paramenti verdi e rossi; egli portava con sé uno scudo ed una lunga lancia appuntita e brandiva una spada che riluceva ai raggi del sole: molto spesso, il cavaliere la puntava in direzione della montagna e gridava: “Holdfast! Siamo alla resa dei conti! Libera la ragazza o sarà peggio per te!”.

Quello che dall’alto delle vette più elevate della catena montuosa era poco più di un lontano brusio giunse alle orecchie del drago verde, il quale captò immediatamente la possibile minaccia che proveniva dall’esterno e si mise subito nella posizione di chi deve sferrare un attacco mortale. Holdfast uscì fuori dalla caverna e distese le sue immense ali, poi andò subito a raggiungere il punto più alto della montagna, dal quale poteva dominare tutto l’orizzonte: i suoi sensi di belva ancestrale gli permisero ben presto di scorgere un punto in lontananza che risaliva a gran velocità il sentiero che l’avrebbe condotto a lui. Spinto da un vorace appetito e solleticato dall’idea di una nuova preda che si avvicinava a lui nel patetico tentativo di contrastarlo, il drago verde aprì le fauci ed emanò un soffio di letali e velenosi vapori mefitici; senza scopo, se non quello di spaventare a morte un possibile avversario di fronte ad una tale manifestazione di potenza. Il Cavaliere Bianco non diede segno di essere impaurito dalle tremende risorse del serpente alato ma continuò la sua corsa senza rallentare: quando scorse di fronte a lui la sagoma del suo avversario, mise la lancia in resta e puntò deciso in direzione del drago. “Adesso pagherai per i tuoi misfatti, serpe malefico”, urlò l’impavido guerriero mentre spronava sempre di più la sua cavalcatura. “Stai scherzando, vero?” urlò il drago, che esalava ancora sbuffi di vapore velenoso dalle narici. “Piccolo verme insolente! Ti schiaccerò con il mio potere prima ancora che tu possa rendertene conto”. Ma il Cavaliere Bianco non desisteva, anzi puntava dritto verso le spire del mostro, senza mostrare esitazione o cedimento. L’impatto tra i due nemici fu fragoroso e assordante; l’impeto della cavalcatura lanciata a tutta velocità unita all’effetto letale del metallo acuminato avrebbero demolito qualsiasi avversario ma non riuscirono neppure a scalfire la corazza coriacea di Holdfast; il cavaliere si ritrovò così disarcionato, con la lancia spezzata e con il drago che avanzava verso di lui con sguardo di perversa malignità. “Tutta qui la forza del nostro prode cavaliere?” esclamò beffardo il drago verde. “Adesso ti faccio vedere io di cosa sono capace”. E nell’ultimare quella frase minacciosa, esalò nuovamente quel suo soffio malefico. Il Cavaliere Bianco ebbe la prontezza di riflessi di afferrare lo scudo e di frapporlo tra sé ed i vapori mortiferi del drago: l’alito del mostro, tuttavia, era così rovente da mettere a dura prova la capacità di resistenza del guerriero, che dubitava di poter resistere dopo un’altra sbuffata di veleno.

Nel mentre, Alina assisteva alla scena, impotente. Davanti a lei si parava l’eterna lotta tra il Bene ed il Male, tra l’Ordine ed il Caos, simboleggiata dall’archetipo del duello tra l’eroe ed il mostro. Da un lato, ella compativa il destino di quello sventurato che aveva deciso di affrontare Holdfast; dall’altro, non era assolutamente in grado di venire in soccorso del cavaliere, soggiogata com’era dai poteri del drago. Durante la tremenda colluttazione, tuttavia, le facoltà mentali del mostro si erano evidentemente concentrate tutte nello scontro con il suo avversario perché sia pure per un istante Alina si sentì libera dagli effetti dell’ipnosi. La fanciulla prese in mano una grossa pepita d’oro e la tirò con forza in direzione del drago, gridando: “La pancia, cavaliere! Lo colpisca nella pancia! E’ l’unica parte del corpo a non essere protetta dall’armatura!” Il ciottolo colpì Holdfast nell’occhio, che scosse irritato la testa in direzione del misterioso aggressore: questo consentì al cavaliere, non più tormentato dal soffio, di riprendere fiato e di concentrarsi sul prezioso suggerimento di Alina. Un attimo dopo, egli aveva afferrato un pugnale e lo aveva scagliato con fredda precisione all’altezza del cuore del drago. Un grido che sembrava provenire dalle profondità della terra riecheggiò nel firmamento: quell’essere immondo, per la prima volta nella sua vita millenaria, urlò di dolore e di spavento. Il Cavaliere Bianco approfittò di quel momento di debolezza temporanea del suo avversario per impugnare la spada e affondarla con tutta la forza di cui era capace nel ventre del drago, sino all’elsa; l’arma squarciò orribilmente le viscere del mostro, che emise un altro spaventoso urlo, prima di crollare a terra esanime e di esalare l’ultimo respiro. Copiosi fiotti di sangue uscirono dalla enorme carcassa di Holdfast, ricoprendo completamente l’armatura bianca del guerriero, che brandiva in alto la sua spada in segno di vittoria: con voce disumana, egli gridava al cielo delle sue coraggiose gesta, celebrando ancora una volta le millenaria ed ancestrale storia della lotta tra cacciatore e preda.

3. Passione e coraggio

Alina assisteva ammutolita a quello spettacolo di morte e terrore, incapace di emettere anche il minimo suono; di lì a poco, tuttavia, ella trovò il coraggio di sussurrare al suo salvatore timide parole di ringraziamento: “Cavaliere Bianco, siete giunto sin qui per me? Ma chi siete, in realtà?”. Il guerriero si tolse l’elmo, rivelando una chioma bionda ed un volto albino. “Lamorak!”, esclamò la figlia del fornaio. “Sì, sono io” rispose il cavaliere mentre si toglieva pian piano l’armatura. “E’ da troppo tempo che seguo i tuoi passi, tra i vicoli del borgo, cercando di trovare il coraggio di chiedere la tua mano. E non avrei permesso a nessuno, neppure a Holdfast, di privarmi di questo diritto”. “Ma, mio cavaliere, io sono solo una semplice popolana e…” Lamorak si era ormai spogliato del tutto delle sue armi e la interruppe: “Qui dentro non esistono né nobili né plebei; siamo solamente io e te… e io ti voglio”. Il corpo del cavaliere era martoriato da ferite ed ustioni, chiazzato qui e là dal sangue del drago; ciò nonostante, in quel momento egli suscitava in Alina un sentimento di trasporto e passione, quale mai ella aveva provato nella sua vita; l’odore della morte, la gioia di essere di nuovo libera, l’orgoglio di essere stata salvata da un uomo coraggioso, tutto contribuiva a scombussolare la mente e il cuore della fanciulla. In pochi istanti, Lamorak la strinse a sé e la baciò con trasporto; il contatto tra i due corpi non fece che moltiplicare la loro attrazione reciproca, che si trasformò ben presto in vera e propria eccitazione. Il cavaliere iniziò a togliersi le vesti e a spogliare Alina con foga; poco tempo dopo, i due giovani erano entrambi sdraiati su di un pagliericcio, pelle contro pelle, uniti in un abbraccio che non ammetteva di essere interrotto, mentre i loro cuori battevano all’impazzata. Lamorak cominciò a baciare con passione il collo, le guance, il morbido seno e stringeva tra le mani le generose forme della fanciulla che aveva liberato dalle grinfie del drago; Alina, invece, si abbandonava totalmente all’ardore amoroso di colui che l’aveva salvata, incoraggiandone le iniziative con i movimenti del suo corpo. Ci volle poco, al cavaliere, per percorrere la breve via che portava al piacere più intenso; Lamorak violò così il pudore di Alina con veemenza e frenesia, mentre la fanciulla accettava di buon grado la sua iniziazione ai giochi dell’amore. Travolti da una passione che non conosceva limiti, i due amanti raggiunsero ben presto l’apice del piacere e trassero entrambi godimento l’uno dall’altra, nella celebrazione di un rito antichissimo, fatto di calore e desiderio. I due giovani crollarono l’uno nelle braccia dell’altro nella tana del drago ucciso, spossati da una immane fatica fisica ed emotiva. Alina mise la testa sul petto del cavaliere e si addormentò, dolcemente cullata dalle carezze di Lamorak che le sussurrava di continuo parole d’amore.

Quando le luci dell’alba rischiararono la caverna, la giovane fanciulla aprì gli occhi: i suoi occhi, non ancora abituati ai raggi del sole, facevano fatica ad orientarsi, ma sin da subito ella sentiva che qualcosa non andava. Lamorak era sparito e il pagliericcio nel quale avevano consumato la loro passione amorosa era freddo e vuoto; anche il tesoro del drago era stato, in gran parte, portato via. Prima di partire, qualcuno aveva tuttavia lasciato in bella vista un piccolo frammento di pergamena. Alina lo prese in mano e cominciò a leggere:

“Perdonami, amore mio; i miei genitori mi hanno promesso ad una giovane rampolla di un casato alleato e io non ho la forza per oppormi al loro volere. Sappi che ti porterò sempre nel mio cuore”

La fanciulla appallottolò con rabbia quel pezzo di carta e cominciò a singhiozzare per la disperazione. Dunque, il coraggio di un uomo poteva spingerlo ad affrontare un mostro ma non ad andare contro le regole di convenienza e le convenzioni sociali? Alina decise che da quella esperienza avrebbe tratto una lezione che avrebbe ricordato per la vita intera. Un’ora dopo, si stava equipaggiando per tornare alla casa dei suoi genitori, portando con sé gli oggetti d’oro che avrebbero consentito a lei e alla sua famiglia una esistenza dignitosa per gli anni a venire.

Epilogo

“E poi, mamma?”, esclamò una bambina di nove anni dai capelli lunghi e biondi, che stringeva la mano al fratellino più piccolo. “E poi cosa?”, rispose una donna indaffarata a preparare uno stufato per la cena. “Cosa successe dopo che il cavaliere uccise il drago e ti salvò, lasciandoti una parte del tesoro?”. Alina sospirò e per un attimo guardò in direzione del vuoto: “Dopo venne tuo padre, un uomo onesto ed affidabile; mi promise amore, ma non quell’amore che dura un giorno solo: quello su cui ci si può contare per una vita intera. E di lì a poco siete nati voi due: le gioie della mia vita, gli unici tesori a cui io tengo veramente”. La bimba dai capelli biondi sorrise: “Ti vogliamo bene, mamma”. La donna rispose: “Anche io vi voglio bene. Però adesso è ora che andiate tutti e due a lavarvi le mani; tra un po’ è ora di cena”. I due pargoli andarono trotterellando verso la fonte, mentre Alina srotolava di nascosto un piccolo foglio di pergamena; alcuni istanti dopo, la tavola era imbandita nell’attesa di celebrare il quotidiano rituale del focolare domestico: colei che un tempo era stata la fanciulla rapita dal drago sorrideva serenamente, mentre il fuoco scoppiettava più allegro, alimentato da un pezzo di carta ingiallito.

È molto più facile essere eroi che galantuomini. Eroe si può essere una volta tanto, galantuomo si deve essere sempre. (Luigi Pirandello)

Daniele Bello – Scheda dell’Autore