La Soglia Oscura
Racconti

I SUONI DELLA MORTE
di Gian Filippo Pizzo

Si muoveva silenziosamente nella mezza luce dei corridoi. Anche in piena notte in un ospedale non è mai buio completo, ma le luci nascoste che avrebbero dovuto generare solo una penombra facevano invece sembrare tutto più luminoso per via delle pareti bianche. Niente aveva un’ombra, a parte quella che seguiva lei passo passo.

Ovviamente era abituata al silenzio del reparto dei lungodegenti e a quello, in qualche modo più movimentato, della terapia intensiva. Nelle ore notturne era un silenzio puntellato da mille piccoli rumori: il respiro affannoso di alcuni pazienti più gravi, il ticchettio sommesso delle apparecchiature di controllo, il bip-bip lieve dei monitor che misuravano costantemente pressione, respirazione, battito cardiaco, attività cerebrale e altro ancora. Più lontano, molto in sottofondo, l’attività costante e frenetica del pronto soccorso giungeva ai piani come un brusio indistinto.

Lei c’era abituata, ma il parente di un ricoverato che si fosse trovato nell’ospedale in quelle ore avrebbe avuto paura, proprio per il contrasto tra la luce e il silenzio, l’irrealtà dei lunghi corridoi bianchi e degli stanzoni, i macchinari e gli attrezzi che si intravedevano a ogni passo. E per l’odore.

L’odore di morte.

Morti passate o morti imminenti, che lasciano il segno della loro presenza.

A un tratto si udì il suono rauco di un campanello d’allarme, la richiesta d’aiuto da parte di un malato. L’unico rumore che poteva spezzare l’incanto di quelle notti.

Vide una luce rossa lampeggiare davanti a una camera in fondo al corridoio e attese, appiattita contro la parete, che da una stanza dall’altra parte giungessero gli infermieri. Qualunque fosse l’intervento desiderato, si svolse – anche questo – nel silenzio quasi assoluto. Non aveva modo (non azzardava sporgere la testa) di sapere quando sarebbe finito, ma la sua ombra stagliata sulla parete di fronte le fece un gesto per indicare che la via era libera.

Proseguendo nel suo cammino, gli zoccoli in mano per evitare di farsi sentire, passò davanti alla stanza del negro.

Si fermò ancora una volta a guardare quelle labbra così carnose e prominenti, quel naso così schiacciato e largo, quei capelli così crespi, quel colorito così scuro… certo una bestia, non un essere umano. Una bestia parlante, se poteva definirsi linguaggio quell’insieme di suoni gutturali, spezzati e atoni che emetteva quella scimmia un po’ evoluta. Poco evoluta in realtà: si sapeva benissimo cosa facevano quegli esseri alle loro femmine, come le trattavano, quanto poco le considerassero se non per i lavori domestici (e anche per lavori più pesanti, come andare a prendere l’acqua o la legna per il fuoco). Le vendevano, anche, le barattavano con cammelli o pecore, e soprattutto sfogavano su di esse i loro istinti sessuali smisurati, chiavandole continuamente. Le tornavano sempre in mente i racconti di alcune colleghe che avevano lavorato nelle missioni e rabbrividiva.

Tu sarai il prossimo, pensò.

Poi si mosse, sollecitata da un gesto imperioso della sua ombra, e giunse dove era diretta: la stanza del vecchiaccio.

L’uomo era alto e magro, con una barba bianca che accarezzava spesso. Aveva un paio di occhiali tondi dalla leggera montatura nera, dietro la quale gli occhi erano intensi e profondi. Elegantissimo, indossava un completo grigio con gilet, dal quale pendeva la catena d’argento dell’orologio, e un papillon più scuro. In mano teneva un sigaro, al momento spento.

L’accolse con una gentilezza non solo formale e la fece distendere su una specie di lettino, una via di mezzo tra un divanetto e un triclinio, mettendosi dietro di lei pronto a scrivere appunti su un blocco. «Si rilassi e mi racconti ancora della prima volta» disse.

Gliene aveva già parlato ma non le dispiaceva ripetere, perché era da lì che era iniziato tutto e le sue motivazioni erano sempre valide, mentre la sua decisione ancora maggiore.

Era una bambina – raccontò – ed era conciata molto male. Non sapeva cosa le fosse successo, forse investita o forse caduta dal balcone, ma era in coma e non c’era nessuna speranza. Le faceva pena, ma ancora di più ne provava per i genitori: sempre presenti ogni volta che era possibile, spesso imploravano gli infermieri di lasciarli oltre l’orario delle visite; a volte erano accompagnati da un altro dei loro tre figli, uno ancora poppante e di cui non sapeva il sesso, l’altro un maschietto già grandicello che restava imbambolato a guardare la sorellina, colpito da quella immobilità così contrastante con la vivacità che doveva avere a casa.

Le accarezzavano le braccia, stando bene attenti a non toccare gli aghi delle flebo, ne ascoltavano il respiro che era fievole ma regolare solo perché assistito da una macchina. Osservavano i grafici dei monitor: quello cardiocircolatorio, regolare con i suoi picchi distanziati in modo uniforme, quello cerebrale irrimediabilmente piatto. Le parlavano, raccontandole di parenti e amici, della vita familiare, dei compagni di scuola… ma mai un accenno di reazione.

Discutevano anche, sommessamente, tra di loro e lei riusciva a carpire brandelli di quelle conversazioni, che vertevano sempre sui problemi di soldi, sulle troppe assenze dal lavoro, sul fatto che per poter venire in ospedale dovevano chiedere cambi di turno e favori ad amici e parenti che potessero badare ai figlioli. Non era una situazione sostenibile a lungo.

«Così non poteva durare, mi dissi, e mi convinsi che la mancanza della figliola non avrebbe fatto altro che del bene a tutti: a noi dell’ospedale che non avremmo più dovuto accudirla, a lei stessa che tanto era come fosse già morta, e soprattutto ai genitori che avrebbero ripreso una vita regolare.

«Perciò una notte le staccai la spina, come dicono i giornali, ben sapendo che nessuno avrebbe nutrito alcun sospetto».

L’uomo grigio annuì silenziosamente con la testa. Non aveva preso appunti, non c’era nulla di diverso da quello che aveva scritto la volta precedente.

«Bene, allora alla prossima seduta».

La camera era una di quelle private, con tutti i comfort: il vecchio aveva soldi.

Ma rimaneva un essere sordido, che aveva vissuto anche troppo. Era ingiusto che un tipo così indegno fosse ancora in giro e che la sua malattia non fosse terminale. Angela sapeva che, sebbene in condizioni per il momento abbastanza gravi, la situazione si sarebbe risolta e quello sarebbe tornato ai suoi affari, alle sue malversazioni e (forse) all’attività di usuraio che – si sussurrava – fosse all’origine delle sue ricchezze.

Ma in quel momento lei pensava principalmente ai torti che aveva dovuto subire di persona. Le toccava il sedere, e una volta – si era d’estate e spesso sotto il camice lei portava solo la biancheria – era riuscito a infilarle un dito nel culo, senza che lei potesse ribellarsi perché c’erano i medici per la visita di controllo, dall’altra parte del letto. Un’altra volta, mentre lei lo stava pulendo e cambiando, le aveva afferrato la mano e l’aveva spostata sul suo sesso, che aveva già un principio di erezione. Gli aveva dato un sonoro schiaffone, a cui lui aveva replicato con un sorrisino di sufficienza.

Vecchiaccio infame.

Studiò la situazione, anche se conosceva perfettamente qual era, e capì che quello che aveva deciso andava bene. Gli avevano praticato una tracheotomia e l’avevano intubato per farlo respirare, ma l’apparecchiatura era regolata al minimo per stimolare i polmoni, e infatti respirava con la bocca aperta. Una crisi respiratoria era però sempre possibile e non avrebbe destato sospetti…

Gli diede uno schiaffetto per svegliarlo: voleva che vedesse.

Ignorò il sorriso stupito ma quasi contento che vide nei suoi occhi e afferrò un cuscino, premendolo sul naso e sulla bocca. Lo tenne a lungo, sempre guardandolo fisso e osservando l’espressione degli occhi cambiare, da stupore a paura a disperazione, fino a che lo sguardo si spense.

Assieme a movimenti scomposti nel tentativo di liberarsi, un rantolo sempre più flebile aveva accompagnato tutta l’operazione: un altro dei suoni della morte.

Guardò l’ombra annuire ripetutamente, soddisfatta, e si affrettò ad allontanarsi appena prima che i macchinari attaccati al paziente dessero l’allarme.

L’uomo le sembrava più grigio del solito, anzi era tutto grigio: le pareti, la scrivania, il lettino sul quale era stata fatta adagiare. Tutto le appariva sgranato, quasi sfocato.

«Mi parli della seconda volta. Fu una bambina anche quella, giusto?».

«Sì. Doveva essere più grandicella dell’altra e non era così conciata male, ma la situazione generale era identica. Parenti disperati, carenza di soldi, mancanza di tempo… e lei che soffriva terribilmente, aveva una flebo che somministrava cinque milligrammi di morfina all’ora; col risultato che era completamente istupidita ma il dolore era soltanto appena attenuato. Piangeva, delirava…».

L’uomo prendeva appunti sul suo blocco note, seduto sulla sua poltroncina grigia dove lei non poteva scorgerlo.

«Così lei si disse che sarebbe stato meglio non farla soffrire più, giusto? E che anche i suoi genitori ne avrebbero tratto giovamento, giusto?».

Angela annuì senza parlare, era proprio quello che aveva pensato: fuori il dente fuori il dolore, diceva il proverbio.

«Però» proseguì l’anziano psicoanalista, «nei casi successivi ci fu qualcosa di diverso… Non erano tutti casi degni di una, per quanto opinabile, forma di eutanasia…».

Certo, annuì lei, sempre senza parlare ma ripensando al percorso seguito. Eutanasia, sì: chiamiamola eutanasia sociale; oppure pulizia. Poveretti, sbandati, gente senza famiglia, ebrei, omosessuali che avevano il coraggio di sbandierare la loro diversità quasi fosse una cosa di cui essere orgogliosi anziché una devianza. Negri, barboni senza casa, arabi che si lamentavano per prima cosa del fatto che il loro letto non era rivolto verso la Mecca e che in quanto degenti non potevano pregare le cinque volte giornaliere prescritte… come se per pregare Cristo fosse davvero necessario recarsi in chiesa o assumere pose particolari; gli islamisti erano persino peggiori dei senzadio perché pretendevano il rispetto di usanze assurde. E poi cinesi, turchi, slavi, tutta gente dal colore e dalle usanze inconcepibili che minano il nostro stato sociale.

«Ma anche» proseguì l’analista, quasi fosse entrato nei suoi pensieri e avesse seguito tutto il ragionamento, «gente del nostro popolo che in qualche modo si era macchiata di comportamenti scorretti: usurai, broker di borsa che avevano imbrogliato i risparmiatori, amministratori e politici corrotti, persino meccanici che non avevano emesso fattura!».

Sì, sì, proprio così, annuiva lei, sempre senza parlare ma scuotendo energicamente la testa.

Poi il dottore si alzò e le si mise davanti, sovrastandola.

«Ma lei sa che la bambina avrebbe potuto essere salvata? Il suo stato era transitorio, la sofferenza sarebbe presto passata e, sebbene sembrasse al momento gravissima, sarebbe guarita e tornata a giocare, a correre nei prati…

«Quanto agli altri, come può permettersi di giudicare, ha forse scagliato lei la prima pietra? Come può pensare di potersi sostituire alla società? Quello che lei chiama pulizia io lo definisco in un altro modo: omicidio!».

Si era infervorato come mai gli succedeva, come non avrebbe dovuto fare mentre eseguiva una terapia.

Anche Angela saltò su a sedere, guardandolo con odio.

In quel momento scomparve.

Scomparve lui, il lettino, lo studio, tutto il grigio.

Angela si voltò verso l’ombra. Sei stato tu?

No, rispose quella, scuotendo la testa e indicandola ripetutamente con la mano. Sei stata tu!

Il negro dormiva di un sonno agitato. Meditò se svegliarlo, ma poi decise di no, non aveva niente di personale contro di lui. Non era come altri che aveva soffocato o a cui aveva praticato iniezioni che avevano provocato loro delle convulsioni, sempre guardandoli dritto negli occhi perché sapessero che era arrivato il momento dell’angelo sterminatore – dell’Angela, in questo caso. No, stavolta era un’operazione di pulizia sociale, importava solo che la scimmia scomparisse.

Non era un suo paziente, per fortuna, e quindi non ne conosceva esattamente le condizioni. Il reparto di terapia intensiva era grande e non le era capitato di dover badare a quello. Studiò i monitor, i tracciati, la cartella clinica e alla fine decise che la cosa migliore era provocare un’embolia. Dal cestino dei rifiuti prelevò una siringa già usata (c’era il rischio, per quanto remoto, che quelle nuove fossero contate) e poi praticò un’iniezione di aria nel tubicino della flebo di soluzione di glucosio, badando di utilizzare uno dei buchini già presenti e già praticamente richiusi. La bollicina d’aria cominciò il suo lento viaggio lungo il tubo, poi sarebbe passata nelle vene e infine avrebbe raggiunto il cervello, o forse il cuore, provocando un ictus o un infarto. Non era un sistema sicurissimo, la bolla avrebbe anche potuto dissolversi oppure non provocare una morte subitanea, ma tanto non c’era fretta: poteva sempre terminarlo in un altro momento. Le dispiaceva solo non poter sentire quale suono avrebbe prodotto quest’altra morte.

Tante volte era ricorsa a sistemi simili, per esempio praticando iniezioni di glucosio a pazienti diabetici, e non sempre lo shock era risultato mortale. Tutto per non farsi scoprire, perché quella stupida società non avrebbe capito il valore della sua missione, a cominciare da quel medico che – ora ricordava – aveva visto per la prima volta in una fotografia in bianco e nero dei primi del Novecento.

Non sapeva come mai l’ombra non ci fosse mai quando lei era a casa sua: si presentava solo al momento in cui doveva compiere la sua missione. Anche quella sera la cercò invano, come le accadeva spesso, sui muri del suo squallido monolocale.

Squallido, disordinato e sporco; un amico – se ne avesse avuti – si sarebbe meravigliato molto della poca attenzione e della scarsa pulizia del suo appartamento, che creavano un forte contrasto con l’immagine di lei da infermiera specializzata e assolutamente professionale, ligia a mantenere sterilizzate e asettiche le camere dei degenti, le attrezzature, il suo abbigliamento. Vestiti abbandonati dappertutto, piatti sporchi e polvere facevano sembrare l’abitazione quella di un giovane scapolo.

Per prima cosa si diresse verso l’impianto ad alta fedeltà e rovistò tra i compact disc: Britten, Richard Strauss o Wagner? No, Britten era troppo moderno, meglio il solito Wagner, i cui preludi avevano una profondità così totalizzante e ricca di suggestioni che a volte la facevano piangere, e quando la storia e la musica giungevano al culmine – come nella celeberrima Cavalcata – le infondevano coraggio e determinazione come nessun’altra cosa avrebbe potuto fare. Al momento di inserire il cd nel lettore si accorse che ne aveva lasciato dentro un altro: era dei Focus, un gruppo tedesco come lei (o forse era olandese?) di qualche decennio prima che probabilmente era stato il vero misconosciuto anticipatore dell’heavy metal e del rock satanico. Ma stasera non aveva voglia di rock, mise su Wagner.

Mentre le note si diffondevano nella stanza si cucinò due uova al tegamino, come sempre non aveva voglia di preparare piatti più elaborati.

Poi sedette sul divano e si mise a sfogliare il libro che ultimamente accompagnava tutte le sue serate domestiche, sperando che ancora una volta si ripetesse la magia… Si concentrò stavolta su un’altra figura, più giovane della precedente, con un viso più pieno ma più stempiato, il volto sbarbato ma con un paio di grossi baffoni grigi e gli occhiali – anche questi tondi – appoggiati sulla fronte. Ma non si materializzò nessuno studio.

Peccato. Raccontare le sue sensazioni all’analista la faceva sentire meglio e le dispiaceva che il primo fosse scomparso – oltretutto dopo averla offesa indebitamente. E quasi pregustava il colloquio con questo nuovo (discepolo ma poi avversario del precedente), convinta che discutendo di inconscio collettivo le sue ragioni sarebbero state meglio accolte. Chissà se i suoni della morte potevano essere  considerati archetipi?

Lasciò cadere il grosso volume e si fece prendere dal sonno, lì sul divano.

Quella notte era quasi euforica, anche se non sapeva spiegarsene esattamente il motivo. Forse perché sarebbe riuscita, per la prima volta, a compiere due azioni in un giorno. La mattina aveva sostituito un collega al reparto di traumatologia e si era divertita ad allentare le placche metalliche che tenevano ferme tibia e perone di un paziente, del quale in effetti non sapeva nulla se non che era uno slavo, forse uno zingaro: e questo bastava. Appena quello si fosse mosso la frattura si sarebbe scomposta e con un po’ di fortuna nessuno se ne sarebbe accorto fino alla prossima radiografia. Sarebbe rimasto zoppo e questo era solo una parte di quello che avrebbe meritato!

Dopo un pomeriggio di riposo le toccava il turno di notte, quello che lei preferiva e che avrebbe dedicato a un’altra delle sue missioni di pulizia, già pianificata da qualche tempo. Era più pericolosa del solito perché avrebbe destato qualche sospetto e forse ci sarebbe stata un’inchiesta, ma d’altra parte non poteva sempre riuscire a provocare morti che sembrassero assolutamente naturali.

Il ricoverato era un operaio rimasto intossicato mentre puliva una cisterna e il suo corpo era pieno di sostanze letali, che nel tempo si erano infiltrate nei suoi tessuti fino ad accumularsi e provocare un trauma. Un’iniezione di arsenico l’avrebbe stroncato definitivamente e forse la quantità di veleno rilevata dalla successiva autopsia non sarebbe sembrata eccessiva… forse.

Aveva nella tasca del camice verde la siringa già pronta, sarebbe bastato togliere la capsula che proteggeva l’ago e iniettare velocemente la sostanza in qualunque parte del corpo.

Ma quando dal buio uscì il camice bianco di un medico fu presa dal panico.

Restò immobile per pochi secondi, con la siringa in mano, mentre il cuore le pulsava così velocemente da occludere la vista e l’udito. Non capì – non sentì – che il dottore, dopo aver chiesto imperiosamente «Cosa fa lei qui?» aveva rilassato il tono concludendo: «Oh, ma è lei, Anghela…».

Fu presa dal panico. Si lanciò in una corsa furiosa lungo i corridoi, arrivò al balcone mentre urlava una sirena e medici e infermieri uscivano dalle corsie… si sentì perduta. Appoggiata alla ringhiera mentre oltre la vetrata confluivano medici, operatori sociosanitari, guardie giurate, vide l’ombra formarsi sul muro nonostante non ci fosse luce diretta: l’ombra allargò le braccia e prese a muoverle ritmicamente, lentamente, come quelle del condor quando si alza sulle Ande. Posso volare?, si chiese.

La caduta dal secondo piano fu brevissima, ma lei ebbe il tempo di rivedere i volti delle sue vittime che la osservavano. Stranamente, non sogghignavano, non dicevano ti aspettiamo, sembravano indifferenti, apatici.

Schiacciata sul selciato, ebbe ancora il tempo di vedere la sua ombra formarsi nuovamente sul muro esterno dell’ospedale. L’Ombra alzò le spalle più volte, con fare rassegnato, mentre sul volto si disegnava una luna bianca che doveva essere un sorriso. Poi sparì, un attimo prima della sua coscienza.

Questa volta, la morte non aveva fatto rumore.

Tratto dall’antologia di racconti
“Sinistre presenze” – Bietti

Per gentile concessione dell’Autore