La Soglia Oscura
Racconti

LA VIA DISPERSA
di Monica Porta

Raggiunsero il ritrovo prima dell’alba. Un cupo bagliore li conduceva attraverso il sentiero.
La Via dispersa stava chiamando, ciascuno aveva un compito per riavvolgere il filo invisibile che dominava il tempo. Quello che cercavano richiedeva contemporaneità, molteplicità e integrazione. L’impresa bizzarra non aveva regole già scritte nondimeno il gruppo si preparava ad agire.
L’immortalità era la meta, il ricordo delle vite precedenti il viaggio.
I quattro arrivarono quasi simultaneamente, salutarono con un inchino la Luna piena di ottobre, per poi varcare la Soglia della caverna Oscura.
Annie, studiosa di occulto, Vivien, dispensatrice di ricordi perduti, Monique, novizia nelle dinamiche energetiche e Gabriel, esperto di negromanzia, si disposero per la seduta. Appoggiarono le mani a terra, recuperando il calore benefico rilasciato dalla caverna che la passeggiata notturna aveva dissolto.
Gabriel accese il grande e rosso cero votivo, pronunciando la formula, ripetuta anche all’unisono dagli altri:

«Il soffio è acceso. Noi siamo il cerchio, la luce e l’ombra. Il velo alzato nelle trame del tempo. A quelli che sono, che erano, e a quelli che saranno noi imponiamo il rito: che nessuno entri, che nessuno esca senza consenso!»
In quella notte, la notte fosca del Castoro toccava a Monique affrontare i suoi demoni e lo fece
nell’unico unico modo che conosceva.

“Siena, il Campo, 12 agosto 1880.
La Piazza è già in fermento per la preparazione del Palio. La contrada dell’Oca gareggia con il suo miglior fantino, ma la speranza di replicare la vittoria di Pirrino del ‘77 è solo un lumicino.
«L’Oca è qui, l’Oca vive!» urlo, alzandomi e battendo le mani.
Mi trovo ai margini della Conchiglia, nella parte alta della Piazza. Dalla mia posizione sopraelevata riesco a vedere la gente che si accalca per assistere alle prove. I cavalli nitriscono in lontananza, sentono la competizione almeno quando noi!
Qualcosa distrae la mia attenzione dalla festa.
Inesorabile, nero come il suo cappuccio calato sul volto, vedo un cavaliere in sella al suo destriero che guarda nella mia direzione. Il cavallo si impenna o forse è il suo fantino che lo sprona per poi partire al galoppo, lasciando la Piazza.
Mi risiedo, appoggiando le mani a terra. Ho avuto l’impulso di seguirlo e non è da me lanciarmi nell’ignoto senza credo. Sì, perché ho la strana sensazione che lo sconosciuto non sia di Siena e le regole della Città vietano rapporti con gli stranieri. È la prima volta che mi accade e non ne sono contenta. Non piacerà nemmeno alla mamma, per non parlare della nonna. Devo tacere, nascondere il segreto dentro di me e sperare di non rivederlo mai più!
Corro in negozio, mia madre mi aspetta al bancone. Lo sguardo è cupo perché sono in ritardo per l’ennesima volta.
«Tu non sai la fortuna che hai qui» tuona con la sua voce da contralto.
Chiudo gli occhi, mordendomi le labbra. Non è il caso di risponderle se voglio uscire questa sera.
«Fuori da Siena sei solo una femmina da sfruttare e distruggere. Usa la testa» mi dice ancora, mimando il gesto e toccandosi la tempia.
Non mi stupisce il suo intuito. Non le sfugge mai niente di me. Sicuramente mi avrà osservato di nascosto. Dalla vetrina del negozio è ben visibile Piazza del Campo.
Inizio la preparazione del panforte bianco. Non ha ancora un nome. Lo proporremo per la prima volta al Palio. Mancano solo quattro giorni e siamo in ritardo con la produzione. La novità dovrà far luccicare gli occhi a tutti i senesi e anche agli stranieri che arriveranno per assistere al Palio. Almeno questa è l’intenzione mentre peso coscienziosamente gli ingredienti per la preparazione dell’impasto.

50 grammi di candito di scorza d’arancia
300 grammi di candito di popone
300 grammi di mandorle pelate
250 grammi di zucchero bianco
120 grammi di farina 00
005 grammi di cannella di Ceylon in polvere
005 grammi di noce moscata in polvere
005grammi di vaniglia in polvere
005 grammi di zucchero vanigliato

E ricomincio a preparare un’altra ciotola di ingredienti. Non ho ancora il permesso di impastare, non sono brava con i dolci. A questo ci pensa mio padre, lo Speziale d’eccellenza della famiglia.
Quando l’ultimo cliente esce dal negozio, finalmente sono libera di appendere il grembiule e andarmene.
È una serata tranquilla a Fontebranda. Sotto i tre Archi, nella mia Contrada, posso passeggiare anche da sola.
Le tre vasche, il nostro vanto, di solito sono in piena attività. Ma non oggi. Tutti sono alla festa e la prima vasca, quella dell’acqua potabile è libera. Bevo la fresca acqua della Fonte. Vicino a me, un gatto approfitta della tranquillità del Rione per abbeverarsi a sua volta nella seconda vasca, quella dedicata all’abbeveratoio per animali. La terza raccoglie l’acqua scartata dalle prime due e funge da lavatoio. Anche questa è deserta, segno che i Senesi sono già pronti a scatenarsi al Campo per i riti serali.
Guardo dentro l’acqua e al riflesso di me stessa si aggiunge un’ombra. La figura scura indossa ancora il cappuccio. Mi giro e gli sorrido, riconoscendo il cavaliere sconosciuto che mi ha ammaliato questa mattina. Aspetta me, lui vuole me!
Il cuore aumenta i battiti, pompa sangue nelle vene, sangue che cade a terra mentre scorgo il suo volto. Gocce dapprima, poi scorre via, è un fiume che travolge tutto, persino il desiderio.
Porto le mani alla gola, al taglio che brucia, succhiandomi energia.
Ruoto e cado dentro l’acqua, con gli occhi aperti finché lo vedo: il teschio di un demone ora urla il mio nome!”

Vivien appoggiò la sua mano su quella di Monique. Il contatto interruppe il racconto, permettendo alla donna di riprendere lo stato di coscienza attuale. Il passaggio si compì senza problemi. Il cerchio intatto, ancora chiuso, aveva permesso un ritorno sereno.
«Non era un demone» disse Annie.
«E allora chi?» replicò Monique. L’avventura aveva scossa, ma non al punto da perdersi il finale.
«Uno spagnolo, forse un uomo di Carlo V. Sul fondo di una delle due vasche ora interrate, la leggenda racconta che vi sia una porta» intervenne Gabriel.
«Non ha alcun senso» riprese Monique. «Ho visto un teschio e il ghigno di un demone che pronunciava il mio nome, proprio come ora guardo te!»
«Non è rilevante» sostenne ancora Gabriel, per nulla impressionato dalla sicurezza della novizia «dalla porta si accede a cunicoli sotterranei dove fu nascosto un forziere alla fine del XVI secolo. Si racconta anche che lo scrigno fosse dotato di trabocchetti mortali. Potresti aver visto il destino che attendeva l’assassino della ragazza».
Il canto del gallo pose fine alla seduta. Non c’era più tempo. La luce del sole penetrava già l’Antro, cacciando l’oscurità nel fondo della caverna, alimentata da una fonte miracolosa.
«Il soffio è acceso. Noi siamo il cerchio, la luce e l’ombra. Il velo alzato nelle trame del tempo. A quelli che sono, che erano, e a quelli che saranno noi imponiamo il rito: che nessuno entri, che nessuno esca senza consenso!»
La formula spezzò il legame, il cerchio si aprì, consentendo al gruppo di riprendere il cammino, fino alla prossima riunione.
Un passo dopo l’altro, una vita dentro una vita, il percorso era ancora lontano sulla strada per l’Eterno.