La Soglia Oscura
Monografie

interZonE, polizia nova, Ah-Pook, impiccagioni & eiaculazioni in William S. Burroughs – di Davide Rosso

Autore tra i più radicali e originali del panorama sci-fi degli anni ’60 e ’70, William Burroughs ha sempre goduto, strano a dirsi, di una buona fortuna editoriale in Italia; dapprima tradotto per i tipi della SugarCo, oggi lo scrittore americano è entrato definitivamente nel pantheon della case editrice Adelphi di Milano.

Il suo libro più conosciuto è quel Pasto Nudo, trasposto sullo schermo da David Cronenberg, il regista della nuova carne anni ’80.

Il Pasto nudo fu scritto da Burroughs nella seconda metà degli anni ’50, quando l’autore, 40enne fallito e sbarellato, viveva come un relitto a Tangeri, a contatto con un crogiuolo etnico di straccioni, drogati e bohemien europei che amavano farsi inculare a poco prezzo dai ragazzini del luogo; Burroughs s’aggirava tra i vicoli marocchini portandosi addosso il soprannome de el hombre invisibile, mostrandosi emaciato, scavato. Il primo brogliaccio del romanzo assomigliava a un racconto convenzionale noir alla Chandler, con dialoghi scoppiettanti e una specie di super eroina che dava una forte dipendenza. A condire la trama c’era l’alter ego di Burroughs, William Lee, agente segreto pedinato da due sbirri corrotti usciti fuori da qualche saga di Ellroy. Col tempo, nelle estati surriscaldate del Marocco, ospite della villa delirium dell’Hotel Muniria, Burroughs scivola nella routine produttiva, alzandosi a mezzogiorno, prendendo un dolce all’hashish e trascorrendo i pomeriggi coi puttani Paco e Nimòn; intanto, sulla scrivania della camera, i fogli del pasto aumentano in modo caotico, mescolandosi tra loro, senza più seguire un ordine logico; ogni volta che finiva qualcosa, spediva puntualmente tutto per posta ad Allen Ginsberg a San Francisco. L’editing del libro fu fatto sul pavimento della camera, con centinaia di pagine dattiloscritti che venivano ricorrette con appunti e altre idee scribacchiate a mano. I testi vennero ribattuti a macchina ancora una volta, con l’aiuto consistente di Allen e Jack Kerouac. Ne esce un romanzo caotico, una estrapolazione surrealista di un resoconto giornalistico. Il libro si apre sul personaggio di William Lee in pieno trip paranoico, inseguito da una legge poliziesca metafisica e ubiqua. I set che fanno da sfondo alla tossicomania esemplare di Lee sono una metropolitana abitata da una galleria di drogati, volti, ricordi; Lee ci spiega come farsi un buco prendendo una spilla da balia e iniettando la droga con un contagocce, poi filosofeggia, senza un vero costrutto narrativo, sul male che abita da sempre la terra americana. Da New York l’azione si sposta in una cittadina distopica, Annexia, dove Lee lavora per conto della Islam Inc e deve incontrarsi col dottor Benway, altra figura chiave nella narrativa di questo autore. Annexia è una nuova colonia, dove regna il nuovo fascismo della falsa tolleranza, qualcosa di molto vicino a quando avrebbe scritto Pasolini ai tempi di Salò; Benway è un medico dai tratti nazifascisti e dirige un centro di Ricondizionamento, vero barnum di freak sottoposti ad esperimenti atroci ed esilaranti, quasi sempre scatologici, con una predilezione (fissa di Burroughs) per il culo, la merda e il menarsi l’uccello – le donne invece si infilano nella figa genitali recisi e muovono convulsamente il bacino. All’interno del libro si aprono dei piccoli capitoli/racconti slegati, costruiti su una girandola di personaggi caotici e appena accennati, giovani catatonici, trafficanti di carne nera e finti appunti diaristici sulla disintossicazione o sull’astinenza dalla morfina. La scrittura alterna pezzi narrativi, ad altri giornalistici o teatrali. La parte centrale del romanzo si apre su lunghe suite d’immagini, ancora una volta fortemente pornografiche e omosessuali, che richiamano la carne protesi dei dipinti di Bacon, una carne escremento in fuga dal proprio corpo. Già nel Pasto Nudo appaiono i primi ragazzi selvaggi, giovani reietti, pre-punk, puttani da strada, giovanissimi omosessuali scomposti in un dedalo di immagini sconce ed eiaculazioni: mark, Johnny, Mary scopano tra loro e piante spuntano dai cazzi, mentre una luce al neon verde clorofilla si accende e si spegne, destrutturando una scrittura non ancora arrivata alla soglia estrema, non ancora collage, cut-up. Nonostante la violenza visiva, la scrittura di Burroughs rimane divertente, quasi un vaudeville sconcio di qualche film muto. Dopo queste lunghe digressioni informali, la narrazione ritorna a concentrarsi sulla città composita di Interzona, giungla di oppio, yage, xilofoni gitani e bebop occidentale. Burroughs, sorta di Swift porno, si diverte a mettere in scena una parodia teatrale incentrata sulla colazione di lavoro del partito Nazionalista. Tra i partecipanti il leader del partito, il suo luogotenente, un commesso viaggiatore, una casalinga americana e un marchettaro. Segue un altro pezzo, tra i più famosi, forse perché tra i pochi messi su pellicola da Cronenberg, quello sul racconto fatto dal dottor Benway sul culo parlante, ossia su un culo che si rivolta contro il suo portatore. Seguono altri stacchi narrativi, una polifonia di voci che salgono dal mercato centrale di Interzona, casbah multietnica popolata da altri agenti segreti, sette nazionaliste e un mondo arabo neutrale e indifferente. L’autore presenta altri agenti come William Lee, uomini sotto copertura, assoldati dalla Islam Inc, col compito di spiare tutti. La paranoia complottistica (tipica della narrativa americana, penso a un Pynchon) raggiunge qui il suo acme, divertendosi a inventare partiti politici strampalati e deliranti che rimandano alla letteratura di Swift e Kafka, veri nomi tutelari del pasto nudo. Nell’ultima parte del libro Burroughs ci ficca un racconto (L’esame) che è una sorta di remake del Processo di kafka, costruito in modo classico, con una terza persona e una scansione narrativa senza salti. Poi torna il dottor Benway, eminenza grigia di Interzona e capiamo che l’immenso mercato della droga serve solo a spegnere lentamente il cervello dei vari tossici, a ridurre le persone a zombi acquiescenti, dipendenti dagli apparati e dagli interessi del potere. L’equivalenza della tossicomania col potere totalitario e repressivo del ‘900 diviene una grande intuizione narrativa di Burroughs, che, servendosi di un genere codificato come la sci-fi, arriva a travalicare il decennio in cui scrive (la guerra fredda, la paura di una guerra atomica, la contrapposizione del blocco capitalista e di quello sovietico) per arrivare al cuore del controllo di oggi, un controllo non più poliziesco ma economico, in cui il lavoratore (tossico terminale bisognoso della pera lavoro) è ricondotto ad una schiavitù flessibile, ad una precarietà lavorativa ed esistenziale che lo rende inoffensivo e impotente. In Burroughs la vaselina la usa la fascistissima polizia Nova, oggi la usano le multinazionali come la Apple. L’ultima parte del libro torna su Lee e le situazioni di tossicomania dell’inizio, quasi un’anticipazione del mondo drogato di Trainspotting. Lee, forse agente sotto copertura, forse un pazzo allucinato dalle droghe, lavora come disinfestatore di scarafaggi, braccato da due poliziotti corrotti di nome Hauser e O’Brien. I due lo torchiano e vogliono che Lee faccia delle soffiate sul sottobosco criminale. Finisce con Lee che riesce ad accoppare i due sbirri e fuggire. Le ultime pagine somigliano a un sermone delirante in cui l’autore, senza più l’ausilio dei personaggi, si rivolge direttamente al lettore e promette oscure rivelazioni e profezie, ultime allucinate parole di un tossico acrobata linguistico imprigionato in un’America fascista schiava dell’algebra del bisogno, popolata da individui massificati dai cervelli sfasciati dalle forme di controllo del potere.

Dopo un simile delirio verbale, Burroughs rincara la a dose coi libri successivi, ancora più estremi e scomposti. Nel 1961, lavorando su ampi stralci scartati dal Pasto Nudo, lo scrittore licenzia La Morbida Macchina, un poema in prosa, violentemente percorso dalla tecnica del cut-up; la scena d’apertura è ancora a New York, nel metrò, col personaggio di Lee intento a fare borseggi col Marinaio; anche Benway continua coi suoi esperimenti, sottoponendo degli scorpioni ad una dieta metallica; la scena cambia repentinamente e ci troviamo a Città del Messico, tra puttani da strada, sacerdoti, centopiedi e un Lee che tenta di fare il contadino felice; nei capitoli successivi Lee torna ad essere un agente sotto copertura alle prese coi codici contenuti negli articoli dei giornali o sulla segnaletica stradale; poi la prosa si spacca letteralmente, perdendosi in cascate di cut-up, di pagine e parole ritagliate e ricomposte furiosamente; compare il prostituto tra i più cari a Burroughs, Kiki, unico a stagliarsi su una folla di ragazzi di strada (borgatari orientali alternativi a quelli romani inculati e filmati da Pasolini) e polverose immagini di sesso sfrenato e impiccagioni; ogni tanto il caleidoscopio di eiaculazioni è interrotto dall’affiorare di brevi spezzoni di ricordi personali, momenti intimi di Burroughs con Kiki. Altri ragazzi selvaggi accalcano la scena, figure alternative alle geografie del controllo della mente del dottor Benway: Carl, Paco, Joselito, Henrique, protagonisti di lunghe suite pornografiche gay simili alle pagine stralciate e ossessive dell’ultimo Pasolini, quello di Petrolio. La narrazione de La morbida macchina non procede, non avanza, non porta da nessuna parte; Burroughs scompone le pagine in furiosi collage che rendono illeggibile (secondo i canoni abituali) le pagine, costringendo il lettore a perdersi all’interno dei labirinti di parole, a una suburra fonetica che ha dischiarato una guerra totale alla grammatica del controllo; nel finale ricompare Lee, perenne viaggiatore alle prese con dogane, funzionari e poliziotti sospettosi; nel finale si scivola in un universo inorganico, impasto di science fiction satirica sulle oscure forze che dominano il pianeta terra.

Dopo un libro così ostico, Burroughs non torna più indietro. Di ritorno a Tangeri, mette mano a Il biglietto che è esploso, che licenzierà nel 1962. Qui l’autore affina alcune sue intuizioni e si affida a una lingua anarchica e scomposta, una non lingua mediale da cui affiorano narrazioni scomposte e frammentarie, incentrate sulla Cospirazione Nova per far saltare in aria la Terra e poi lasciarla tramite la reincarnazione in immagini proiettate su un altro pianeta. Questa volta i tratti della science fiction sono marcati, coi ragazzi selvaggi che scopano nello spazio. Lee, ancora agente sotto copertura, è a rapporto della sua non-organizzazione; una nuova missione noir lo aspetta: deve indagare su un virus che mette fuori uso il sistema nervoso. Forse centra un gruppo chiamato Logos (chiara satira di scientology); seguono scene con un altro personaggio, Bradley, mentre assiste ad un alveare di corpi di prigionieri da mungere e impiccare, giocando sulle rappresentazioni agghiaccianti a cui ci ha abituato la Storia del ‘900; ritroviamo Bradley con un tale Lykin, entrambi astronauti precipitati su un pianeta alieno abitato da ragazzi pesce che si inculano tra di loro, l’eccitazione dei ragazzi pesce trasmette loro delle visioni che spaccano la già zoppicante linearità narrativa; un nuovo personaggio, Alì, cammina tra i cumuli di concime e i dedali di una casbah e si apparta con un uomo anziano che lo sodomizza; Burroughs non lesina sui particolare e si perde a descrivere il buco del culo del ragazzo, confermando il suo gusto satirico e irriverente; seguono pagine che sembrano uscite da un b-movies cormaniano con granchi giganti e cannibali; lunghi cut-up e passi diaristici o saggistici con l’autore che introduce la figura dello scrittore Brion Gysin; ormai la scansione del libro passa da un argomento all’altro senza bisogno di ricorrere a capitoli o sotto capitoli, impastando le pagine in un magma inarrestabile e altamente visivo che abbandona la teatralità del primo pasto nudo e abbraccia una scrittura già fortemente debitrice del cinema sperimentale; Burroughs arriva a delineare una strategia della tensione dei criminali Nova intervallata dalla descrizione di una mostra pittorica di Gysin o dalla spiegazione della tecnica del cut-up; seguono altre visioni sessuali e un lunghi cut-up di decostruzione della pagina e della storia; ogni tanto emergono pezzi più narrativi, come quello sull’isola di Ward e sulla malattia che costringe gli abitanti a menarselo in pubblico, o su Kiki che fa sesso con un cliente; nell’ultima parte, ormai interamente saggistica, ci si concentra sulla tecnica pura del cut-up e sui vari modi in cui procedere nella scomposizione di un testo.

Nel 1964 Burroughs pubblica Nova Espress, dissoluzione definitiva di un immaginario pre-cyberpunk, impregnato di anarchismo violento e satirico, paranoia, allucinazioni e complotti paradossali descritti con un linguaggio frantumato in particelle di testo quasi incomprensibili, con l’’autore, in apertura, che si rivolge al lettore e fa il punto della situazione.

Notevole il romanzo con cui Burroughs apre gli anni ’70, Ragazzi selvaggi, vera summa del suo anarchismo maghrebino; qui immagina un’insurrezione planetaria che si estende dagli Stati Uniti all’America centrale, un ’68 violento e vivace, una pantomima sessuale coi giovani burroughsiani che protestano tutto, ringhiano, sputano, scopano, corrono. La scrittura allucinata dell’autore anticipa il decennio dei ’70 coi suoi processi e mutamenti, immaginando un terrorismo né rosso né nero, bensì orgiastico e gay, coi ragazzi di strada che si ribellano all’universo concentrazionario del lavoro, della famiglia, della polizia e di qualunque tabù. La radicalità dei ragazzi selvaggi è quella di Burroughs che fa un falò del mondo occidentale e profetizza un’apocalisse semantica e anale, una fuga dalle vite di plastica e cianuro che il mondo neoCapitalista ha apparecchiato per noi.

Seguito de I ragazzi selvaggi è Porto dei santi (1973), romanzo che inaugura una seconda fase, meno famosa e più ondivaga, interessante, dell’opera del nostro; Porto presenta lunghe parti scartate dalla lavorazione del romanzo precedente, infatti il romanzo si apre su una serie di flash autobiografici tra St. Louis, il Marocco e il Mexico, ormai sfondi abituali. Lo stile è sempre più cinematografico (e non a caso, nei ’70 Burroughs si interessa maggiormente del medium cinema, scrivendo almeno due sceneggiature: Le ultime parole di Dutch Schultz e Blade Runner) e la sintassi frantumata, spezzata in flussi di parole non sempre facili da districare. A Burroughs non è mai interessato raccontare una storia, o mettere in scena dei veri personaggi, comunque la trama si concentra sulla guerriglia dei ragazzi selvaggi, figli di un 1969 apocalittico. I nuovi giovani regrediscono dal consumismo del ceto-medio a tribù nomadi in lotta contro tutti i poteri polizieschi del mondo Occidentale. I giovani selvaggi usano le P-38 e si spostano su dei pattini, riunendosi per lasciarsi andare a orge omosessuali, denominate Tempo di Xolotl. Tra flashback autobiografici e un corollario satirico di freak mutanti, Burroughs mette in scena la seconda parte della guerra totale contro il nuovo ordine mondiale. L’esercito sbirresco proverà a schierare un gruppo d’elite di lesbiche, ma gli adolescenti ribelli ricorreranno a mute di cani rabbiosi che dilanieranno le carni delle valchirie; nell’ultima parte si parla di una accademia della morte, dove i ragazzi selvaggi imparano a vaccinarsi dalla morte. Poi le parole si dissolvono ancora, sbriciolando quel che resta delle esili tracce narrative. Libro tra i migliori dell’autore, così come il precedente, dove l’anarchismo di fondo dell’americano emerge prepotente, intrecciandosi a trame fantascientifiche rilette in chiave porno gay.

Sempre nel 1973, Burroughs liquida un libro che raccoglie frammenti narrativi, fulminanti racconti e prose poetiche intitolate Sterminatore!, contenente il racconto che dà il titolo alla raccolta e rimanda a quando l’autore lavorava con la Nueva Fumigating Co. come disinfestatore di scarafaggi e zecche, girando per la città a bordo di una Ford V8, libero di gestirsi gli orari e gli indirizzi come gli pareva. Da queste tracce, Cronenberg trarrà numerosi spunti per intessere la trama onirica della sceneggiatura del film su Il pasto nudo.

Nel 1975 esce una seconda versione delle Lettere dallo Yage (a cui seguirà una terza versione nell’88 e quella Redux del 2006 editata con una cura filologica sbalorditiva da Oliver Harris), romanzo epistolare, vera anticipazione de Il pasto nudo, resoconto botanico che – come spiega Harris nella lunga nota introduttiva (ora proposta nella versione italiana uscita per Adelphi nel 2010) – confonde i generi divenendo un diario picaresco, una satira politica e una finta narrazione epistolare con Allen Ginsberg su un viaggio durato 8 mesi nelle giungle del Sudamerica – da questi luoghi e da queste esplorazioni psichedeliche in cerca della droga allucinogena yage, Burroughs ricava pagine alchemico sciamaniche, cartografie dell’ignoto che sfociano nella descrizione di una città composita, vera anticipazione delle interzone de Il pasto nudo e di quelle lotte globali anticapitaliste (desunte dai conflitti del sudamerica, in particolare dalla situazione della Colombia in guerra civile tra conservatori e liberali sostenuti da un popolo che appare agli occhi dell’occidentale William come qualcosa di immondo, pasoliniano; ragazzi già selvaggi, prodotti da radiazioni atomiche e indigenza estrema) che innerveranno la letteratura degli anni ’70, dal folgorante I ragazzi selvaggi fino alle anticipazioni cyberpunk de La città della notte rossa (1981).

Nel 1979 Burroughs licenzia il suo capolavoro, un testo “strano”, la cui storia editoriale è stata indagata di recente. Mi riferisco a E’ arrivato Ah-Pook, inizialmente concepito come graphic novel con Malcom Mc Neill. La collaborazione tra Burroughs e Mc Neill inizia nel 1970, con l’idea di lavorare ad un progetto ambizioso, un work in progress che abbini testo e illustrazioni. I due cominciano la loro collaborazione con una striscia a fumetti intitolata “The Unspeakable Mr. Hart, pubblicata sulla rivista controculturale Cyclops; si tratta di un abbozzo che contiene la prima idea della graphic novel. Successivamente i due buttano giù un contratto con la Straight Arrow Book di Jam Wenner, fondatore di Rolling Stone magazine. Studiando i modi per combinare il testo alle immagini, Burroughs e Mc Neill si orientano verso un magniloquente fumetto underground ispirato all’arte pittorica di Bosch. In realtà, calcolando che siamo nel 1970/71, il lavoro di Mc Neill è parallelo alla rivoluzione fumettistiche che arriverà dalla Francia con autori come Moebius e Druillet[1]. Mc Neill produce oltre duecento tavole di vignette, illustrazioni e schizzi preparatori, ma difficoltà economiche della Straight e un cambio nella linea editoriale della stessa, rendono difficile la pubblicazione di un libro che si preannuncia troppo costoso e originale. I due autori provano a cercarsi altri editori; uno è Simon and Schuster, ma anche lì nulla si muove. Nel dicembre del l976 esce sulla rivista Rush un’anticipazione coloratissima di Ah- Pook, con le grandi tavole di Mc Neill armonizzate ai testi di Burroughs. Nel 1978 dopo altri tentativi falliti, Burroughs e Mc Neill decidono di pubblicare con la Calder solo il testo di Burroughs, accompagnato da altri due scritti di carattere saggistico: Il libro della respirazione e La rivoluzione elettronica. Con la morte di Burroughs nel 1997, Mc Neill vedrà sfumare per sempre l’occasione di restaurare il progetto originale di Ah- Pook e abbandonerà i materiali in un magazzino. Solo nel 2003 deciderà di recuperare tutto e scannerizzare le tavole al computer per un’esposizione completa dei lavori. Esposizione che si terrà nel novembre del 2008 a New York. Da questa mostra, la Fantagraphic Book ricaverà uno splendido catalogo con tutte le illustrazioni che Mc Neill ha composto nel corso degli anni ’70, rendendo così possibile un’ideale completamento del testo edito nel ’79.

Ma di cosa parla Ah- Pook?

Si tratta di un racconto che recupera, rispetto ai testi selvaggi degli anni ’60, in leggibilità, pur senza rinunciare ai cut-up e agli sperimentalismi. La scrittura inoltre si fa sempre più cinematografica, sorretta da flash di immagini e un’asciuttezza descrittiva antipsicologica. Il tema è quello della morte, vista come virus curabile dagli antichi testi perduti dei maya. La morte è un modo per esercitare paura sugli esseri umani e controllarli, dominarli. Nelle prime pagine Burroughs presenta il personaggio di Mr Hart, sorta di Donald Trump fantascientifico, magnate del controllo ossessionato dall’idea di dover morire. Hart è alla ricerca dell’immortalità, studia gli antichi egizi, si interessa brevemente all’ibernazione, infine approda alla civiltà maya e ai loro segreti. Hart (e il suo sodale Mr. Smith) frugano nella giungla messicana tra le rovine dei templi e trovano antiche pergamene. Contemporaneamente la narrazione segue i personaggi di Audrey e Guy, ragazzi selvaggi usciti fuori dalle galassie contestatarie del 1969, antagonisti naturali del ricco magnate Mr. Hart. I giovani si muovono tra villaggi distrutti dalle bombe, in uno scenario apocalittico di perenne guerra civile, una sorta di strategia della tensione globale, cosmica. Gli ultimi fuochi della contestazione raccontata e descritta ne I ragazzi selvaggi (specchio dei ’68 scoppiati nel mondo) continuano in questo testo ponte con quel che verrà dopo. Bande di ragazzi appaiono mescolate con divinità semiumane, antropomorfe. Attorno a loro sciami di bambini salamandra e ragazzi iguana appollaiati su pilastri fallici, ultimi abitanti non omologati di un mondo in rovina. Mr. Hart intanto porta avanti il suo programma politico, anticipando realmente Donald Trump: programmi anti-immigrazione per gli Orientali, leggi sui monopoli della ricchezza del pianeta, controlli alle dogane, creazione di nuovi virus letali, nuove droghe per spegnere gli ultimi focolai di resistenza al riflusso. I ragazzi selvaggi bruciano le città e le folle ammalate dai virus si contorcono in orge e stupri nelle strade, nelle piazze. I ragazzi camminano tra le rovine di Palm Beach, hanno mutandine e coltelli. Con loro gli dei maya. Le epidemie svuotano interi continenti e l’ultima parte del libro regredisce in cut-up furiosi, un luna-park di immagini abrase, pornografiche, violente. Mr. Hart (almeno nell’immaginazione questa volta ottimista dell’autore) perderà, demolito dalla non-apparizione del dio supremo, Ah-Pook, eremita vagabondo e stellare del caos primordiale, ultima stazione di un pianeta morente governato da un ordine mondiale votato a un utopismo vuoto, in cui le democrazie autorizzano lo sfruttamento delle masse a beneficio di un’élite globale protetta dai patrioct act, dalle Guantànamo Bay, il waterboarding, le fratture della scuola Diaz e i camp bright light di questo lavoro senza fine[2].

In sintesi, di questo singolare scrittore, rimane oggi la capacità di aver letto nelle pieghe della società occidentale degli anni ’60 e ’70 e di non essersi fermato alle apparenze di opulenza; Burroughs ha saputo rintracciare la sopravvivenza di forme totalitarie nella società americana ed europea, ha raccontato le rivolte scoppiate dal ’68 in avanti, rileggendo gli eventi storici di quei decenni come una gigantesca opera di sci-fi omosessuale. Burroughs ha previsto l’invadenza della tecnologia nelle nostre vite, i condizionamenti sessuali e della medicina, fino alla colonizzazione del nostro immaginario.


[1] Un vento innovativo spira nella fantascienza a fumetti della seconda metà dei ’70, soprattutto in Francia e in Europa. Molti sceneggiatori e disegnatori immaginano futuri negativi, distopici, intasati da una tecnologia organica che mescola stili e tempi del presente e del passato; post-moderno ed echi fascinosi di culti orientali o di antiche civiltà immaginarie, sospese tra il sogno e la veglia di una fantarcheologia; maya, aztechi, o semidei dell’antico Egitto pronti a reincarnarsi nel presente cyber del vecchio mondo (Bilal, Moebius). Nel gruppo degli Humanoides Associes, l’umanità è un crogiolo multietnico di uomini, androidi, figure antropomorfe; un bestiario infinito e floridissimo che rilegge tanto il vecchio fantasy e le saghe di un Robert Howard o di un Lovecraft (sotto acidi), quanto la sci-fi più attuale di un Ballard, di un Dick, di un Burroughs. Sia in Moebius, Druillet, Jodorowsky, Bilal & C. è possibile rintracciare un bizantinismo, un gusto visivo (e narrativo) per il barocco, per l’intasamento della vignetta, della fantasia, ambientando storie spesso lunghissime e (potenzialmente) infinite all’interno di cyber città stratificate, anticipazioni inquietanti delle megalopoli disumane di oggi; non luoghi in mano a caste super capitalistiche e ancora tribù di nomadi, droghe sintetiche, motociclette, astronavi, robot e apocalissi controculturali.

[2] Dopo Burroughs scriverà altro, ma noi possiamo fermarci qui, sicuri di aver percorso un buon tratto e di essere arrivati alla stazione finale, la più interessante, quella del dio maya ah-pook, libro postumo di quel 1979 in cui gli dei se ne vanno e gli arrabbiati restano. Ancora qualche anno e non saranno nemmeno più arrabbiati, bensì cani umani, fetenti, disoccupati, lavoratori flessibili. Ma questa è un’altra storia…