La Soglia Oscura
Racconti

LEGÀMI
di Monika M.

I lacci immobilizzavano polsi e caviglie.
Un rivolo di sudore scivolò sulla fronte, mentre il respiro veniva meno.
I momenti che davvero avevano contato per lei, nella vita, erano stati quelli che l’avevano lasciata senza respiro, fiato.
Sospesi.
L’anima emerge facendo sprofondare in una vertigine il mondo intero, inebriando la mente, drogandola di una irrinunciabile sensazione: sei viva!
Quella scarica di adrenalinica consapevolezza valeva una vita intera.
Si sentiva viva, ora, ma a quale prezzo? Anche questo aveva sempre pensato: tutto ha un prezzo.
È da ingenui pensare che si possa avere qualcosa senza dover pagare un prezzo e lei preferiva esser considerata pazza piuttosto che sprovveduta.
La pazzia, quella si la amava, era pura libertà.
Ma ha una fine, la libertà?
Se esisteva, quel limite, lei ancora non l’aveva trovato. Si spingeva oltre, ma quanto quell’oltre poteva essere clemente?
Il bavaglio ficcato in bocca le provocava conati di vomito che ricacciava indietro.
Pensava lo avrebbe morso?
Attesa.
Attesa usata come punizione.
Attesa che aveva imparto ad usare per sé stessa: evasione e resistenza!
La benda di cuoio inibiva la vista, enfatizzando ogni altra percezione.
Avvertiva il lieve brivido di eccitazione increspare la sua pelle nuda, fino a renderla ancora più sensibile.
Quell’immobilità le donava quiete, la liberava.
Sorrise. Quale ossimoro, era.
Perché la benda, poi? Si chiese. Sulle pareti non vi era alcuna finestra, apertura. Buio.
Buio e silenzio.
Controllo, controllo e violenza, ecco il motivo.
Di tanto in tanto, dalla stanza accanto, giungevano urla di disperazione e dolore.
Se i luoghi avessero potuto assorbire il dolore che ospitavano quel l’edificio era destinato alla perdizione, all’abbandono. Fantasmi, solo questi avrebbero potuto abitarlo, un giorno.
Un lievissimo odore di pelle bruciata la raggiunse. Nausea, ogni volta quel fetore le dava la nausea.
Elettroshock, sempre più elevati, brutali.
Pazzi, matti, dementi, folli, squilibrati.
Stravagante, ecco così amava definire se stessa, ma doveva essere l’unica a pensarla così. Di certo non lo pensavano i suoi familiari che l’avevano fatta rinchiudere lì. Tantomeno i medici che la mettevano in isolamento.
Una vita passata legata ad un letto.
Ed ora che il manicomio era diroccato, e che quei posti erano stati chiusi per sempre, la sua anima amava tornare in quei luoghi che l’avevano vista libere di essere ciò che era. Solo lì, ora, trovava quiete, pace.
Si aggirava, invisibile, in quei luoghi dimenticati, rinnegati, ripudiati da quella stessa società che li aveva concepiti.
Solo i fantasmi potevano ora abitarli.