MR. K
di Natalia Gennuso
«Perché proprio adesso?»
«Ancora? Dobbiamo davvero riprendere il discorso?», la pioggia batte imperterrita contro il vetro del parabrezza, i tergicristalli sembrano aver raggiunto il loro limite.
«Chi ti ha consigliato questo posto?»
«Google, circa due mesi fa», alzo il sopracciglio, incredulo.
«Google? Sei insospettabile»
«Risparmiami la predica e dimmi dove devo girare»
La voce del navigatore, apatica come mai l’ho sentita prima d’ora, ci indica che la destinazione é prossima.
«Adesso?»
«Ho perso il segnale»
Piomba un silenzio imbarazzante durante il quale vedo l’insegna dello Street Bar.
«Torna indietro, l’abbiamo superato»
«Ma sei sicuro?»
«Devo tirare il freno a mano?», divertito dalle mie parole, inverte il senso di marcia e parcheggia sul retro del locale.
Il paesaggio non é per niente male, peccato non poterselo godere a pieno per via della burrasca.
«Ma tu guarda che tempo di merda, ed é agosto!»
«É un temporale estivo, passerà presto»
Arrivati al locale, questo si presenta esteriormente scarno, sembra quasi chiuso al pubblico. Un gatto nero ci accoglie con un fievole miagolio, ma non si scompone.
«É permesso?»
«Buongiorno! Prego!», una donna dai capelli biondi si avvicina a noi, il suo sorriso ci mette subito a nostro agio.
«Abbiamo una prenotazione a nome Ford»
«Vi aspettavamo! Prego, da questa parte»
Il bar é di piccole dimensioni, con qualche gioco da tavola sulle mensole, colorato e allegro. Una piantina di caffè all’angolo completa il tutto.
Dopo averci mostrato il nostro tavolo e aver lasciato un paio di menù su di esso, la donna sparisce sul retro.
«Allora? Che te ne pare?»
«Lei è carina», ma come gli viene in mente?
«Parlo del posto, idiota»
«Oh, non c’è male»
«Io lo trovo affascinante»
Prima di leggere il menù mi soffermo sui dettagli al mio fianco: numerosi quadri inerenti al caffè, un divanetto rivestito di yuta e un grande disegno che spiega le origini del nome del locale.
«Siete pronti per ordinare?», una voce maschile mi riporta alla realtà. Alzo lo sguardo e vedo un uomo di carnagione scura, sorridente e con un grembiule chiaro indosso.
Le lettere nere riportano il nome “Mr K” al centro.
«Buongiorno, veramente non ho ancora letto il menù, ha qualcosa da consigliare?», il suo sorriso svanisce.
«Certamente, faccio io per lei, se non é un problema»
«Nessun problema»
«Bene, ha qualche allergia alimentare grave da comunicare?»
«Solo alle noci»
«Lo terrò a mente, per lei invece?», il mio amico opta per un hamburger di Angus argentino. Annota sul suo taccuino e ritira i menù.
La musica é un po’ ambigua, rasenta un non so che di anarchico.
Dopo un’attesa quasi eterna entrambi i proprietari escono in sala per servirci, sembra che non ci sia bisogno di camerieri, magari riescono a fare tutto loro.
I nostri panini sembrano squisiti, l’odore sta inebriando la stanza.
I due ci rivolgono un ultimo sorriso e si allontanano.
Afferro il mio panino e lo addento con convinzione, le mie papille gustative sono in estasi, mai mangiato nulla di così saporito. L’espressione del mio amico comunica la stessa sensazione.
«Cavolo, é lontano come locale ma si mangia da Dio!»
«Non ti ricorda un po’ l’hamburger di zia Janet?»
«Il mio ricorda nonna Maggie a dire la verità»
«Ma dai!», ci scambiamo il pranzo e appuriamo che i panini ricordano realmente due nostre parenti, distinte e separate.
«Ma come é possibile?»
«Magari vengono dallo stesso paese, chi lo sa»
Il pasto si fa sempre più di nostro gradimento, in poco tempo divoriamo i burger e le patatine che fanno da contorno.
Allontano leggermente il piatto, sono pieno come un uovo. Al tintinnio della ceramica l’uomo che ci ha serviti appare come uno spettro e ritira le ultime cose rimaste sul tavolo.
«Complimenti, era tutto squisito, la vostra cucina ci ha ricordato la nostra infanzia, gli stessi profumi che usavano due nostre parenti che non sono più tra noi»
«Mi dispiace per la perdita, tuttavia sono felice del riscontro positivo sulla mia cucina», sorride e sparisce di nuovo.
Sospiro, il pensiero di mia zia mi ha un po’ rattristato, é scomparsa nel nulla. Fortunatamente la signora bionda si avvicina e poggia sul tavolo due menù.
«Queste sono tutte le tipologie di caffè e infusi che facciamo, prego, date pure un’occhiata», si avvia dietro al bancone a inizia a pulire bicchieri.
Apro e leggo le specialità, rimango allibito quando noto che ogni caffè reca un nome di persona. I miei occhi si soffermano su uno in particolare: Janet.
Alzo gli occhi per incontrare quelli del mio amico, esterrefatti quanto i miei.
«Ci vedo male io o…»
«Non saprei dirti, forse c’era qualcosa di allucinogeno nel panino, non può essere!»
«Avete scelto qualcosa?», il cuore accelera di qualche battito, non l’abbiamo nemmeno sentita arrivare.
«Ehm, non proprio. Come mai i caffè hanno questi nomi femminili?», il suo sguardo si appesantisce.
«Sono i nomi delle donne che ci forniscono i chicchi di caffè»
«Oh, capisco»
«Vi lascio qualche altro minuto?»
«No, va bene così, ci porti una Janet e una Maggie», raccoglie i menù e inizia ad armeggiare con le tazzine, producendo un rumore alquanto fastidioso.
Mi avvicino al mio amico, sporgendomi sul tavolo e cercando di non destare sospetti.
«C’è qualcosa che non mi quadra qui, quante probabilità ci sono di trovare i nomi di parenti scomparsi da poco sul menù di un locale?»
«Per me sei un po’ troppo paranoico, può capitare, se le donne da cui comprano il caffè si chiamano così devi fartene una ragione»
«Certo, pazienza, ma ti ricordo che durante il pranzo abbiamo entrambi avuto il forte ricordo di queste nostre due parenti, ti sembra ancora un caso?»
«Ecco qui, una Janet e una Maggie», é la seconda volta che non la sentiamo arrivare. Deglutisco, le sorrido e torno a sedere composto.
«Grazie»
«Noi vi consigliamo di non mettere zucchero, di assaggiarlo così come ve lo proponiamo, poi, se ne sentite la necessità, aggiungetelo pure»
«Gentilissima», osservo la tazza, lascio che l’aroma inebri i miei sensi, la porto alle labbra e ne prendo un sorso. Sembra quasi di tornare ai tempi del liceo, quando andavo con la famiglia a trovare gli zii, ci facevano sempre trovare una fetta di torta e una tazza di…
«Caffè», mi ritrovo a dirlo ad alta voce, suscitando la curiosità del mio amico.
«Tutto bene? Non ti sembra il caffè di mia nonna?»
«E il mio quello di mia zia Janet? Non può essere tutto una coincidenza, devo chiedere spiegazioni»
Scatto in piedi e mi avvicino al bancone, suonando il campanello per richiamare l’attenzione della donna.
«Dica pure»
«Dov’è il trucco? É uno scherzo?»
«Non so di cosa lei stia parlando»
«Andiamo, so benissimo che si é messa d’accordo con qualcuno, altrimenti come spiegare le sensazioni che abbiamo provato durante il pasto?»
«Erano positive o negative?»
«Positive!»
«Signore, fatico seriamente a comprendere se questo suo discorso sfocerà in una lamentela o in un complimento»
«Lasci perdere, scusi, uso un attimo la toilette, mi prepara il conto intanto?», annuisce, insospettita dal mio comportamento.
Una volta entrato in bagno vengo catapultato in una realtà completamente diversa, rispetto alla peculiarità del locale é abbastanza anonimo. Un semplice lavello, una toilette, uno specchio e un poster?
“I tuoi ricordi d’infanzia sono anche i nostri”
Leggo ad alta voce, inarcando le sopracciglia. Osservo la carta sulla quale é stampato, le dimensioni sono smisurate, copre quasi il passaggio di un uomo accovacciato.
Passo lievemente le dita sulla scritta, finché la mia mano trapassa con troppa facilità la parola infanzia. La ritiro subito, angosciato da quel varco nero creatosi davanti ai miei occhi.
Cosa fare? Uscire e avvertire il mio amico, correndo il rischio di essere scoperto, o tentare un approccio diretto con la situazione? In modo quasi automatico strappo via l’intero foglio. Un tunnel, pieno di ragnatele e con una fredda corrente d’aria che lo attraversa. Una lieve luce in fondo accentua la mia curiosità.
Chiudo a chiave il bagno, attivo il flash del cellulare e mi inoltro nel cunicolo. A mano a mano che mi avvicino sento rumore di macchinari farsi sempre più forte. E freddo, un freddo lancinante.
Il mio ultimo passo poggia su una mattonella bianca; una stanza enorme, piena di scomparti e ripiani di acciaio si schiude dinanzi a me. Perdo il fiato per qualche secondo, lo vedo condensarsi in piccole nuvolette per poi sparire subito dopo. Avanzo furtivo, cercando di non toccare nulla. Quando mi soffermo sui banconi e sui lavelli un piccolo conato di vomito mi assale, obbligandomi a buttare fuori buona parte del pranzo.
Cadaveri.
Due in particolare.
La pelle cianotica, il collo gonfio, gli occhi fuori dalle orbite, capelli rasati a zero, metà del corpo tranciato via e finito chissà dove.
L’odore che emanano é terribile. Purtroppo per me, riconosco le due salme, zia Janet e nonna Maggie.
Poi lo vedo, vedo il processo produttivo in tutto e per tutto. Una tritacarne in azione con ai lati dita incastrate che ballano a ritmo. Bidoni di caffè con i capelli delle vittime lasciati in infusione.
Un altro conato di vomito che non voglio trattenere.
«Se volevi fare un giro turistico bastava chiedere», caccio un urlo per la sorpresa e la paura. Asciugo i bordi della bocca con la manica. É arrivato dal passaggio del poster, questo vuol dire che sono in trappola.
«Tu! Schifoso bastardo! Cosa hai fatto a quelle povere donne!»
«Suvvia, non é il caso di gridare e scaldarsi tanto», sorride, uno di quei sorrisi che fa capolino tra divertimento e follia.
«Come hai potuto! Perché proprio a loro! Non sono matto, i loro nomi sul menù non erano una coincidenza!», estrae un coltello, lo rigira tra le mani, mi fissa, poi torna sull’oggetto.
«Come hai potuto constatare noi siamo dei professionisti, vogliamo solo il meglio per i nostri clienti, il nostro intento è farvi tornare bambini, farvi rivivere storie, ricordi e momenti speciali attraverso il cibo»
«Questo é da malati! Psicopatici del cazzo!», afferro un contenitore e glielo lancio addosso. Lo ignora.
«Voglio raccontarti una storia»
«Non voglio sentire le tue stronzate, fammi uscire da qui!»
«Qualche tempo fa lavoravamo con una settimana di preavviso sulla prenotazione, ma non era abbastanza»
Individuo una porta di metallo alle mie spalle, provo ad aprirla ma senza successo. Busso. Urlo. Nessuna risposta.
«Era difficile capire i legami importanti dei futuri clienti con amici o parenti, così abbiamo allargato i nostri orizzonti»
Inizio a dare segni di squilibrio mentale, do pesanti spallate alla porta, non ricevendo alcun risultato.
«Perché non diventare così esclusivi da necessitare di un mese di anticipo sulla prenotazione? Così facendo tutto si é semplificato. Trovare le persone giuste, i legami più profondi, é diventato un gioco da ragazzi»
Cerco di attraversare il varco, ma é oscurato dalla figura incombente di Mr K.
«Ed eccoci qua, domande?»
«Perché? Perché fate questo?»
«Te l’ho già spiegato, é per la felicità dei nostri clienti!»
«Ti sembro felice?»
«Tu sei un piccolo inconveniente, non avresti dovuto trovare questo posto»
«Non era molto ben nascosto»
«Sei una scocciatura, a causa tua dovrò fare ristampare il poster»
La testa comincia a girare. Forte, sempre più forte. I miei muscoli sembrano aver dimenticato come si sta in piedi, le gambe cedono e mi inginocchio al suo cospetto.
«Cosa mi hai dato, bastardo!»
«Shhh, hai già parlato più del dovuto», le mie palpebre si appesantiscono di colpo.
Buio.
Qualcosa di molto rumoroso mi sveglia. Gli occhi impastati mi offrono una visione distorta di quello che mi circonda.
Sono legato a un tavolo d’acciaio, mani, collo e piedi sono bloccati.
Il mio respiro é pesante.
Mi sembra di sentire le urla del mio amico in lontananza, ma sono troppo ovattate per esserne sicuro.
Mr K indossa una mascherina da chirurgo, qualcuno vi ha disegnato sopra una faccia allegra con un pennarello nero. Tiene in mano una sorta di mini Flex.
Osservo la lama girare all’infinito.
Che rumore fastidioso.
«Ben, giusto? Sai, ho ricevuto una chiamata qualche giorno fa, una certa Julie, dice di essere tua sorella», le sue parole mi mettono in agitazione, perché mai ha chiamato questo posto?
Un momento, é colpa mia!
«Mi ha detto che eri così entusiasta di venire a trovarci da aver suscitato la sua curiosità, così ha prenotato»
«No, no, no, no!»
«Mancano 23 giorni alla vostra rimpatriata fraterna, contento?», mi dibatto, scalcio, urlo ancora. Niente sembra scuotere i ganci che mi tengono e la psiche di quell’uomo.
«Adesso non prenderti troppe libertà, non devi danneggiare il tuo corpo, mi servi integro»
«Ti serve uno psicanalista, uno bravo!», affonda la lama nel mio polpaccio, premendo senza pietà. Non provo dolore. No. Provo solo senso di colpa, avrei dovuto contenere l’entusiasmo, invece ho esagerato, e ora la vita di mia sorella é in pericolo.
«Non autocommiserarti così, dalla voce Julie sembrava molto impaziente di provare la nostra cucina»
«Non pronunciare il suo nome, non azzardarti mai più»
«Sono sicuro che abbraccerà la nostra filosofia e si farà consigliare come hai fatto tu oggi. Sarà un piacere cogliere la sua sorpresa nel leggere “Ben” tra i caffè del giorno»
«Non fatele del male, vi prego, ha solo diciannove anni per Dio!», affonda la lama nell’altra gamba, stringo i denti, sento un forte sapore metallico in bocca.
«Ci prenderemo cura di lei, promesso»
Ridacchia, avvicinando pericolosamente il Flex al mio viso.
«Chissà se addentando il nostro burger penserà a te…»