La Soglia Oscura
Racconti

PARALISI
di Annamaria Ferrarese

Era da tanto che volevo scrivere una storiella sul “nostro” straordinario demone del sonno: S’Ammutadori. Da non confondere con la paralisi ipnagogica che tenta, con la scienza, di prendere il posto del caro e ingordo demonietto.
Vi auguro una piacevole lettura,
Annamaria

1.
Non mi piaceva stare in quella villa, mi dava i brividi. Quei vecchi dipinti con soggetti inquietanti, visi scarni e occhi infossati, parevano anime dannate imprigionate nelle tele. Ogni superficie dell’antico mobilio, aveva uno strato di polvere e le ragnatele sembravano reggere ogni angolo come travi fantasma. Ma l’odore era la cosa che più mi impressionava. Un intenso odore dolciastro di frutta andata a male, in ogni stanza, la carta da parati ne era intrisa.
Nonostante non avessi più posto per l’intero mese, il mio nuovo cliente non si arrese e si offrì di pagarmi il doppio della parcella se gli avessi dedicato il weekend. Ci pensai brevemente, non avevo una famiglia che mi aspettasse a casa e di amici ne avevo ben pochi, forse nessuno. Accettai e sabato, nel tardo pomeriggio, salivo i gradini della villa.
«Benvenuto Sergio», mi salutò il cliente.
«Ben trovato Armando. Devo dire che è stato più difficile del previsto, trovare la villa.»
«È piuttosto fuori mano, lo so. Prego, ti faccio strada, così potrai sistemare il tuo bagaglio. Purtroppo dovremmo dividere la stanza, spero non sia un problema.»
Cosa potevo rispondere? Certo che era un problema, ma sorrisi accettando, mio malgrado, la sistemazione.
Lo osservai camminare davanti a me, aveva la mia stessa età, 46 anni e nonostante questo, aveva un passo lento e incerto. Si trascinava dietro un carrellino con una piccola bombola d’ossigeno e teneva la mascherina sul viso senza interruzione. Ero sicuro che avesse un cancro. Il viso scavato e le profonde occhiaie erano prova della sua sofferenza.
Si fermò davanti al primo gradino della scala che portava al piano superiore.
«Io mi fermo qui, ebbene che faccia le scale solo quando dovrò andare a dormire. Prendi il corridoio sulla sinistra, la nostra camera è la terza porta, non puoi sbagliare. Ti aspetterò nella sala della musica, proprio lì», mi disse indicando una porta alla sua destra.
Quando raggiunsi il corridoio vidi una donna uscire dalla stanza che il cliente mi aveva indicato. Aveva un grembiule legato alla vita e un paio di guanti in gomma che sbucavano dalla tasca.
La salutai e le porsi la mano per presentarmi, ma lei non ricambiò. Mi passò accanto frettolosa.
«Non passi la notte qui!» esclamò, senza guardarmi.
«Come?» chiesi, ma lei proseguì verso la scala, senza voltarsi.
Avevo sentito bene le sue parole, era il senso che mi sfuggiva… in quel momento.
Raggiunsi Armando, lo trovai seduto sul divano accanto al fortepiano, il tessuto damascato appariva sbiadito sotto la coltre di polvere. Mi domandavo come potesse stare li senza avere una crisi respiratoria.
«È un peccato che non abbiate protetto gli arredi con dei teli. Farli pulire vi costerà un occhio», dissi con convinzione.
«Non sarà un problema. Vogliamo iniziare con questa stanza?»
Mi guardai intorno e rimasi affascinato dagli strumenti che riempivano lo spazio sotto la grande vetrata, incorniciata da drappi in velluto verde.
Gli strumenti di un quartetto d’archi erano posati sulle sedie dietro altrettanti leggii, come anche due flauti traversi. L’arpa dorata intrecciava le sue corde con ragnatele ingrigite e appesantite dalla polvere. Sembrava che gli orchestrali si fossero allontanati per un momento infinito. Mi dispiacque vedere quei cimeli in quelle condizioni.
«Armando, per valutare gli strumenti è necessario farli pulire e accordare. Stimarli in queste condizioni è impossibile.»
Lui si alzò e prese posto nello sgabello, al fortepiano e posò le dita sui tasti. Nella sala si diffuse uno splendido suono, le note della melodia, eseguita con incredibile maestria, echeggiavano sulle pareti della stanza riempiendo l’aria di magica atmosfera.
Armando dedicò alcuni minuti a ogni singolo strumento sfoggiando, senza presunzione, destrezza e passione per la musica.
«Sarai d’accordo con me, che questi strumenti siano ancora in ottimo stato», disse alzandosi.
«Complimenti, Armando. È già una gran dote la capacità di cimentarsi in uno strumento, ma tu, tu… Sono senza parole.»
Ed era vero. Lui accennò un triste sorriso, sotto la mascherina.
Sentii una gran pena per quell’uomo. A cosa serviva tanta ricchezza, o la straordinaria abilità musicale, nelle sue condizioni? Quell’uomo davanti a me stava morendo.
Passammo il resto del tempo in silenzio, mentre io fotografavo e ispezionavo gli strumenti e prendevo i miei appunti, lui rimaneva sul divano a osservarmi.
Quando ebbi finito, notai che oltre le vetrate era buio, la villa era enorme, non avrei fatto in tempo a terminare l’ispezione entro il weekand e glielo feci notare.
«Stai tranquillo, avrai tutto il tempo. Non è molto ciò che devi valutare. Direi che si è fatto tardi, andiamo a cenare, Maria ha preparato per noi prima di andare via, seguimi.»
Maria doveva essere la donna che avevo incontrato al piano superiore e mi ricordai del suo particolare monito. Stavo per chiedere spiegazioni ad Armando, ma all’ultimo decisi di lasciare perdere.
Ci sedemmo al tavolo della cucina. Il mobilio rustico era in ottime condizioni, l’unico pezzo che stonava per epoca, erano i fuochi e il forno di ultima generazione, per il resto sembrava fossimo nel XVIII secolo.
«Serviti pure», mi disse togliendosi la maschera dell’ossigeno.
Aveva il volto scavato, abbassai lo sguardo per non metterlo a disagio e mi servii una cotoletta e dell’insalata, ma lui si accorse del mio imbarazzo.
«Non devo essere uno spettacolo gradevole, lo so», mi disse.
«Non preoccuparti, anche mia madre aveva il tuo stesso male.»
«Io non credo.»
«Forse mi sbaglio, lei aveva un carcinoma ai polmoni e tu me la ricordi tanto.»
«Soffro di una grave paralisi ipnagogica, paralisi nel sonno. A confronto del male di tua madre, sembra proprio una sciocchezza, vero? Eppure mi ha ridotto in queste condizioni.»
Ero sbalordito.
«Ho sentito parlare di questo disturbo, ma non avevo idea potesse portare a un tale stato.»
Finimmo di cenare, il cliente mi invitò nel suo studio per un bicchierino di whisky. L’ambiente era caldo e confortevole, nel camino il fuoco aveva ormai consumato la legna, Armando non se ne preoccupò e si mise a sedere in una delle poltrone del salottino, invitandomi a imitarlo. Mi guardai intorno, la scrivania in stile inglese era ingombro di libri di magia e leggende.
«Vedo che sei un appassionato di esoterismo. È un campo che incuriosisce molto anche me», gli dissi sorseggiando il liquido ambrato.
«La mia condizione mi ha spinto a interessarmene.»
«Non capisco.»
«Conosci la leggenda del demone del sonno?»
«S’Ammutadori?»
«Esattamente. Quando, dopo anni, mi sono reso conto che nessuna terapia alleviava il mio disturbo, ho iniziato a cercare risposte altrove.»
«E le hai trovate?» chiesi curioso.
«Credo di si.»
«Ne sono contento.»
Rabbrividii al pensiero di come la sofferenza e la morte, fosse in grado di sbalzare l’uomo indietro di secoli. Quando ancora si combattevano, malattia e sfortuna con la medicina dell’occhio, sacrifici e preghiere. Doveva essere disperato se, un uomo della sua cultura, dava la colpa del suo male a un demone.
«Io vado a dormire, se così si può dire. Fai pure un giro della villa, se ti fa piacere. Buonanotte.»
Rimasto solo, diedi un’occhiata ai libri riposti nella libreria in noce. Alcuni erano veramente rari, tra quegli scaffali si trovava un inestimabile tesoro.
Quando ebbi finito di curiosare nello studio, pensai di seguire il consiglio di Armando e fare un giro della villa, ma quegli ambienti al crepuscolo erano ancora più inquietanti e quello strano odore, sembrava si fosse intensificato, e decisi di andare a dormire.
2.
Aprii piano la porta, non volevo essere io la causa del malessere del mio cliente. La lampada sul mio comodino era accesa, una sua cortesia, supposi. Mentre mi spogliavo, notai un logoro libricino, che probabilmente gli era caduto addormentandosi, lo raccolsi. Quando stavo per posarlo ne notai il titolo: Brebus. Sapevo di cosa si trattava, erano parole magiche della tradizione sarda. Preghiere invocative o di difesa usate dalle donne “magiche”, le Bruxie. Tenevo in mano un pezzo di storia, le pagine erano ingiallite e sporche ed era scritto interamente a mano, in un antico dialetto.
Guardai Armando, sembrava profondamente addormentato, sorrisi provando pena per lui. Riposi il libricino sul comodino pensando a quanto quelle parole, quei brebus, fossero importanti per lui.
Spensi la luce, ringraziando il cielo, che in quella camera non ci fosse lo stesso odore ripugnante delle altre stanze. Rimasi in ascolto del silenzio cadenzato dal fievole respiro di Armando, poi i miei pensieri si sovrapposero.
Un leggero cigolio mi strappò al sonno, facendomi riemergere bruscamente nella realtà, qualcosa era salita sul mio letto. La prima cosa a cui pensai, fu un animale, forse un cane, lo sentivo ansimare, ma quando cercai di muovermi per accendere la lampada non riuscii a farlo.
Ero immobilizzato…
Deglutii, lo schiocco dell’esofago mi rimbombò nelle orecchie. Nel buio la sconosciuta creatura guadagnava terreno e ora sentivo il suo peso sulle cosce, poi sull’addome e infine sul petto, dove si fermò. Sentivo l’alito caldo e fetido sulla bocca.
A un tratto delle piccole e scheletriche mani mi presero la faccia, il soffio smise, per essere sostituito da un risucchio costante.
Sentii i polmoni svuotarsi, e proprio appena prima di collassare, ecco che si riempivano d’aria. Mi sentivo paralizzato, incapace di urlare, incapace di qualunque cosa se non soccombere.
Cercai di riprendere in mano la situazione, costringendomi alla ragione. Ero stato condizionato dai racconti di Armando, doveva essere così, e intanto i polmoni si svuotavano di nuovo. Sentivo il cuore galoppare nel petto, fu allora che distinsi la posizione del mio aggressore, mi stava accovacciato addosso e aspirava con lunghe e profonde boccate il mio respiro, la mia anima…
Finalmente, dopo un tempo infinito riuscii a muovere le dita, mi costrinsi a muovere anche la mano e progressivamente, insieme al mio movimento, la pressione sul petto perdeva intensità.
Appena fui libero di muovermi, mi sollevai a sedere sul letto e accesi la luce. Sudavo e tremavo, non avevo mai provato nulla di simile, ne ero profondamente turbato. Guardai Armando, che dormiva sereno, anzi mi parve proprio che sorridesse nel sonno.
Che razza di incubo, pensai.
Mi rimisi giù lasciando la luce accesa.
Il mattino seguente ero da solo, Armando si era alzato prima di me senza che io me ne accorgessi. Feci la doccia, mi vestii e lo raggiunsi in cucina.
«Buon giorno!» esclamò.
«Buon giorno, a te», risposi.
«Hai dormito bene?»
«Direi di si» mentii, o forse no. In effetti, a parte lo spiacevole evento iniziale, avevo passato una notte serena e mi sentivo riposato.
«Sono contento per te. Dopo che avrai fatto colazione, raggiungimi nel mio studio», mi disse alzandosi dalla tavola.
Acconsentii, ma notai qualcosa di diverso in lui che non riuscii subito a evidenziare, fino a quando non raggiunse la porta, allora vidi. Non aveva con se il carrellino con l’ossigeno. Non gli diedi peso, pensando solo che fosse una buona giornata per lui.
Maria trafficava nel lavandino, quando restammo da soli pensai di ringraziarla per il pasto della sera prima e per l’abbondante colazione che aveva preparato per noi.
«Dovere» mi rispose, senza neppure girarsi.
Non era donna che dava confidenza e non le diedi più noia.
Raggiunsi Armando nello studio.
«Vieni, accomodati.»
Mi misi a sedere difronte alla sua scrivania. Anche il suo aspetto sembrava migliorato.
«A cosa devo dedicarmi stamattina?» gli chiesi.
«A niente», mi rispose sorridente.
«Non capisco…»
«Ho cambiato idea, Sergio. Credo che aspetterò ancora qualche tempo, prima di mettere in vendita le mie cose.» Poi mi porse un assegno e aggiunse: «Questa è comunque la parcella che abbiamo stabilito.»
Ero disorientato, e se ne accorse. Presi l’assegno.
«Quindi ho finito, posso andare?»
«Certamente, a meno che tu non voglia restare, ma non per lavorare, si intende, ma per passare una giornata di relax a casa mia. Che te ne pare?»
«No, va bene, a questo punto vado via» gli annunciai, sempre più sconcertato.
«Bene, mi ha fatto piacere conoscerti. La strada la conosci, vero?»
Quell’uomo mi aveva trascinato in quella villa nel bel mezzo del nulla per regalarmi dei soldi? Non potevo crederci, e per di più, mi aveva licenziato senza neppure la cortesia di accompagnarmi. Non capivo cosa fosse successo, sembrava un’altra persona.
Tornai nel mio lussuoso appartamento deciso a dimenticarmi di Armando, della sua villa maleodorante e della spiacevole paralisi del sonno che avevo avuto, grazie al suo condizionamento, ma mi fu impossibile.
Sono trascorsi otto anni da quel weekend maledetto. Oggi sono qui, seduto alla mia scrivania, tra vecchi libri di magia e leggende, sbalzato nel Medio Evo per trovare la cura al mio male e credo di averla trovata… manca solo chi prenderà il mio posto.
«Buona sera, parlo con lo studio legale Serra? Sono Sergio Saddi» chiesi alla segretaria.
«Buona sera, le confermo l’appuntamento con l’avvocato. Sarà da lei, venerdì nel tardo pomeriggio, per studiare gli incartamenti che vuole sottoporgli. Dimenticavo, la ringrazia per l’ospitalità, non ama gli hotel.»
«Si immagini, per me è un piacere. La saluto.»
Misi giù il ricevitore. Sorrisi, piacevolmente soddisfatto, mentre rimettevo la mascherina dell’ossigeno sulla bocca.