La Soglia Oscura
Monografie

TEORIE DEL FANTASTICO
(appunti su Lovecraft e Roger Caillois)
di Davide Rosso

         Scorrendo la bella edizione Bietti della “Teoria dell’orrore – tutti gli scritti critici” di H.P. Lovecraft, Claudio De Nardi, nella sua introduzione “Storia e fortuna de “L’orrore sovrannaturale nella letteratura”, sostiene che Lovecraft abbia anticipato le teorie di vari: Castex e Vax, Caillois, Penzoldt, Bleiler, Sullivan, ecc. Non parlo delle cose che non conosco e sarò sincero, a parte Caillois gli altri non li ho mai sentiti nominare. Non mi interessa nemmeno il famoso Todorov, che non ho mai letto, e di cui mi sono fatto un’idea da quello che di lui ha scritto Calvino. Caillois però lo conosco. E conosco almeno il libro (principale) in cui elabora la sua teoria del fantastico. In questi brevi appunti, senza spirito polemico, intendo ragionare sulla teoria del fantastico di Lovecraft e quella di Caillois (autore tra i grandi sconosciuti del ‘900, il cui nome aleggia in libri e discorsi, non sempre in modo pertinente), teorie che mi pare abbiano ben pochi punti di contatto.

Partiamo da Lovecraft e da quello che ho potuto agilmente dedurre dalla lettura del libro edito da Bietti (mi rifaccio al Paperback dell’ottobre 2019). Scorrendo il volume si incontra un pezzo del 1933, “Notes on Writing Weird Fiction”, uscito in prima edizione per l’Amateur Correspondent a. II, n. 1 (maggio – giugno 1937). In queste brevi osservazioni Lovecraft spiega come procedere all’elaborazione di un racconto, dando consigli utili per qualunque aspirante scrittore dilettante. Poi si lascia sfuggire una prima definizione del sovrannaturale nelle storie di finzione dividendole in due generi: “quello in cui il fatto orrorifico o meraviglioso attiene a una situazione o fenomeno; e quello che concerne il comportamento di persone in rapporto a qualche bizzarra situazione”. La pagina successiva scrive che gli elementi di un racconto fantastico sono “qualche orrore basilare, che ne costituisce il fondamento, o una situazione, entità, ecc., abnormi”. Poco dopo l’autore compila una lista numerata di orrori che possono essere usati nella narrativa fantastica, elencando fenomeni di metempsicosi, ritratti che prendono vita, culti infernali, metamorfosi e putrefazioni varie, stregoni malvagi e via discorrendo. Sono ancora definizioni vaghe, ma cominciamo a capire che l’idea di fantastico di Lovecraft è assai concreta, connessa a orrori e visioni che si inseriscono con una certa forza nel tessuto narrativo e devono generare sentimenti come angoscia o terrore. Nel famoso saggio “L’orrore soprannaturale in letteratura” (testo scritto e rielaborato nel corso di un decennio, dal 1925 al 1936), Lovecraft opera un sistematico elenco degli autori che a suo avviso hanno fatto la storia del genere. Come nota Claudio De Nardi, il testo ha il pregio di studiare autori su cui, allora, quasi nessuno si era occupato seriamente. De Nardi sottolinea come le concise teorie di Lovecraft abbiano anticipato buona parte degli studi sul fantastico. È una costante degli appassionati più nudi e puri di Lovecraft considerarlo un grande scrittore e anche un grande pensatore, teorico, filosofo, studioso dello scibile umano. Tuttavia non credo si faccia un buon servizio al solitario di Providence dipingerlo come una sorta di Umberto Eco del weird, visti anche certi abbagli che oggi appaiono evidentissimi. Per tornare al saggio, Lovecraft torna sull’idea del racconto sovrannaturale come testo da cui deve emanarsi un’atmosfera di terrore inesplicabile e mozzafiato. Lovecraft comincia a teorizzare il suo “terrore cosmico”, andando a ricercarlo dapprima nel folklore, nelle ballate antiche e nelle sacre scritture più arcaiche. Nel secondo capitolo Lovecraft prende per buone le sciocchezze di Margaret A. Murray, autrice di quel “The Witch-cult in Western Europe”, uscito nel 1921 e che sullo scrittore americano deve aver avuto un certo effetto, visto che lo utilizzerà anche per alcuni racconti (su “Studi lovecraftiani n. 18, Sandro Mezzetto individua riferimenti espliciti nel racconto “The Festival” del 1923 e anche in “The call of Cthulhu” del 1925). Qui si passa per buona l’esistenza di culti odiosi, adoratori notturni e partiche misteriose, oltre che disgustosi riti di fertilità che dovevano avvenire nell’Europa arcaica. Sulla cosa torna anche in una lettera del 4 ottobre 1930 indirizzata a Robert E. Howard. Dopo aver convenuto con il collega che il modo migliore per descrivere l’orrore sia suggerirlo (e che il fondamento del vero orrore cosmico risiede nella violazione dell’ordine naturale), Lovecraft torna sulle oscure leggende del passato, giustificando la caccia alle streghe di Salem. “Qualcosa di reale c’era sotto la superficie, così che di tanto in tanto la gente s’imbatteva davvero in esperienze concrete che confermavano tutto quanto si vociferava a proposito di steghe”. Nelle letture di Lovecraft, i moderni antropologi riscontrano prove del culto delle streghe anche nell’uniformità degli atti dei processi. Poi lo scrittore prosegue riferendo che migliaia di individue si dedicarono a tali pratiche, legando l’adorazione silvestre del demonio alla pratica della messa nera! I primi inquisitori dunque non erano cacciatori di fantasmi e s’ingannavano solo pensando di combattere il sovrannaturale, ma avevano ragione nel cercare e sopprimere una minaccia reale di culti e orribili promiscuità. “La Chiesa e lo Stato combatterono insieme contro qualcosa che non era un fantasma: al contrario, il culto degenere si rafforzava, contrattaccava e diventava sempre più malvagio e fuori controllo”. E ancora definisce un testo come il “Malleus Maleficarum” efficace per istruire processi e condanne al rogo. Non voglio sconfinar dall’argomento di queste brevi note sul fantastico, quindi non entrerò nella questione del presunto razzismo di Lovecraft; l’autore scrive negli anni trenta, basandosi sul testo della Murray, oggi squalificato. Certo stupisce non poco imbattersi in una nota di Gianfranco de Turris in cui si riconosce a Lovecraft una notevole intuizione e conoscenza profusa sulla questione del culto stregonesco. Che Lovecraft scrivesse quelle scemenze sull’esistenza delle streghe e giustificasse lo scempio dei roghi, passi pure, ma che un uomo di oggi faccia finta di ignorare un testo che di queste sciocchezze fa piazza pulita, restituendo dignità a culture minoritarie e marginali – mi riferisco a “Storia notturna” di Carlo Ginzburg, uscito in prima edizione per Einaudi nel 1989 (per non parlare degli studi quarantennali di uno come Luciano Parinetto, che ha indagato con passione lo scempio della caccia alle streghe, collegandolo con quell’altro abominio che fu lo sterminio dei nativi americani) -, la dice lunga sulle forzature che si fanno per trasformare uno scrittore originale di pulp in un fine pensatore!

Questa divagazione non ci ha allontanato di molto dallo scopo di queste note. Torniamo un attimo al saggio “L’orrore sovrannaturale in letteratura”. Qui Lovecraft elenca in modo sintetico lo sviluppo della narrativa gotica, arrivando fino all’horror a lui contemporaneo. Tuttavia, al fine di una sua teoria del fantastico trovo più efficace il “Riassunto delle parti già pubblicate in “The Fantasy Fan”, scritto nell’agosto del ’36, dove l’autore ritorna sull’argomento del saggio e parla di un fantastico nero che deve evocare un’atmosfera d’inesplicabile terrore nei confronti di forze estranee e sconosciute. I toni usati dallo scrittore americano sono netti, marcati. “Allusioni”, “accenti gravi e sinistri”, “una maligna e particolare sospensione di quelle stabili leggi di natura”. Per Lovecraft, insomma, la realtà umana è superflua, superata. Il mistero (generato dalla paura dell’ignoto) deve rimanere tale, anzi essere “cosmico”, ossia insondabile per le limitate menti umane. Nell’autore americano – come nota Stefano Lazzarin sullo Studi lovecraftiani n. 17 – Lovecraft, attraverso l’uso di iperbole e lacune, vuole arrivare alle radici di un macabro spettrale in cui non è più possibile dare un nome all’indicibile; lo scrittore porta insomma la parola e la sua visione del fantastico ad una sorta di limite, in un orizzonte che “è una macchina che produce orrore e ancora orrore, e l’ultima enigmatica incarnazione dell’indicibile è un significante vuoto”. Tuttavia, negli inediti finali del volume, le “Lettere sull’immaginario” Lovecraft aggiunge qualcosa alla sua teoria dell’orrore. In una lettera indirizzata a Zealia Brown Reed del 5 giugno del 1927 lo scrittore arriva a tracciare una sua suggestiva immagine del meraviglioso e del modo in cui raggiungerlo attraverso le lettere: “L’aspirante scrittore dovrebbe mettersi alla prova nel tardo pomeriggio, quando la luce obliqua del sole riveste di bizzarri e incantevoli mantelli dorati i tetti e le guglie, i boschetti e i giardini, i campi e le terrazze, i prati rasati e i gigli sui laghi increspati”. Poco più avanti afferma che “si deve cominciare a scrivere quando gli eventi del mondo reale appaiono suggerire qualcosa che di tal mondo supera i confini – stranezze, schemi, ritmi, combinazioni uniche che nessuno ha mai visto o udito in passato, ma che in realtà all’osservatore si rivelano così importanti e ricche di magnifica bellezza”. In questi accenni atmosferici si cela il Lovecraft migliore, quello che teorizza la predominanza dell’atmosfera sull’intreccio e sulla psicologia dei personaggi, meditando una scrittura capace di svelare i quieti misteri oltre il velo dell’apparenza quotidiana, senza bisogno di ricorrere ai carnevali metamorfici dei suoi mostri fantascientifici. In una lettera del ’32 ad Harold Farnese quasi sembra rimproverare se stesso e la narrativa pulp in generale per “andarci pesante” in invenzioni ridicole e assurde. Ancora in questa lettera raccomanda che l’elemento sovrannaturale dovrebbe essere “abilmente evocato piuttosto che descritto apertamente, & le stupefacenti meraviglie che lo caratterizzano dovrebbero – per quanto possibile – configurarsi come ipotesi di estensione della realtà anziché come chiare & inequivocabili contraddizioni della realtà”. In questo breve accenno negli anni ultimi della maturità, Lovecraft sembra ricercare un fantastico meno artefatto e cerimoniale rispetto alla teratologia metamorfica dei Grandi Antichi. È questo, forse, l’unico vero punto di contatto col nome di Caillois, sostenitore di un fantastico che con quello lovecraftiano non ha niente da spartire. Lo scrittore francese espone le sue teorie in un volume densissimo del 1965, “Nel cuore del fantastico”, originale indagine su un argomento ineludibile. Per arrivare subito al punto e non allungare inutilmente questo scritto, prendo il numero di Riga dedicato a Caillois e a pag. 88 mi imbatto in una conversazione con Komnen Begirovič in cui Caillois stesso sintetizza i concetti chiave del suo libro. Come Lovecraft nel suo “L’orrore sovrannaturale in letteratura”, anche Caillois apre affermando che il mistero lo attrae sopra ogni altra cosa, ma per un motivo differente. Dove Lovecraft vuole che il mistero rimanga tale, Caillois orienta il suo sforzo ostinato verso una delucidazione del mistero, una sua decifrazione intellettuale. E qui sta tutta la differenza. Per Caillois il fantastico di “Au coeur du phantastique” è si “una rottura del mondo riconosciuto, irruzione dell’inammissibile all’interno dell’inalterabile legalità quotidiana, e non sostituzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all’universo reale”. L’orrore cosmico di Lovecraft è un fantastico per partito preso, facile, che mal si accosta all’idea di Caillois. Lo scrittore francese scarta il fantastico istituzionalizzato, i mostri e gli incubi truculenti elencati dall’americano nelle sue osservazioni sulla narrativa fantastica e accumula tracce sorprendenti e inaspettate (l’indagine è condotta non sulla letteratura ma l’arte figurativa), un fantastico definito “secondo”, insidioso e poco esplorato. Ce n’è per stuzzicare non poco la curiosità e infatti il testo di Caillois rimane per me una ricerca molto più esigente. Il fantastico di Caillois non è solo squisitamente negativo come quello degli autori pulp americani degli anni ’30: viene scartata qualunque gamma di metamorfosi generalizzata, indagando l’esegesi di un fantastico nascosto nelle pieghe del quotidiano, e qui le descrizioni de “Le nozze di Cana” di Bosch, o “Les énervés de Jumièges” di Evariste Vital Luminais valgono la lettura dell’intero saggio. Caillois spinge la sua indagine nel cuore del fantastico attraverso gli emblemi degli alchimisti, arrivando fino alla tela del Bellini “Le anime del Purgatorio”, dipinto pervaso da una tensione sotterranea che i singoli personaggi del dipinto non riescono a motivare. Ma l’idea del fantastico occulto di Caillois diventa facilissima da spiegare quando l’autore si cimenta sopra le tavole dei trattati antichi di medicina, dove, con estrema sobrietà di mezzi, si vedono pazienti cadaveri arrovesciati sui tavoli del gabinetto medico, scheletri o corpi rilassati ridotti a fibre di nervi, ancora accasciati in posizioni che evocano un morbido sfinimento, o ancora gli scheletri dipinti da Gautier d’Agoty che proiettano le ombre di corpi ripieni di carne. In conclusione, Caillois evoca un fantastico che, all’opposto di quello lovecraftiano, non scaturisce da elementi esterni al mondo umano, ma da una contraddizione che è insita nella natura stessa della vita e dell’umano “e che riesce addirittura ad abolire momentaneamente, per un vano ma conturbante privilegio, la frontiera che la separa dalla morte”.

Concludo citando un articolo elencativo di ST Joshi, “From Gothic to Weird”, tradotto nel n. 3 di Zotique (Autunno 2019). Il saggista americano spiega che oggi l’eredità del gotico e dell’horror è stata raccolta dal racconto weird, che nell’accezione moderna si dimostra una variante alquanto larga di temi, concetti e immagini del fantastico. Piccole case editrici ne divulgano il verbo (in Italia segnalo le preziose Adiphora, Dagon press, Hypnos, Providence press), riportando la diffusione di questa narrativa fantastica alle sue origini nella piccola editoria, lontano dai fasti del marketing di certi autori come Stephen King o Dean Koontz. Tuttavia il weird sembra ingoiare qualunque teoria del fantastico: al suo interno è possibile trovare la fusione dei generi, oltre ogni possibile classificazione, come fa un Laird Barron, o il fantastico mimetico, una sorta di incertezza della realtà che non vuole fare paura ma prenderci per mano e condurci nel meraviglioso: più vicino alla dimensione di Caillois potrei citare il fantastico di Thomas Owen, di cui in italiano conosco solo un bellissimo volume di racconti brevi di troppi anni fa, “Le dimore inquietanti”, Panozzo Editore, 1994).