Slasher & Urban Legends – di Davide Rosso
Quando il genere si affaccia per la prima volta sugli schermi americani, i critici, pur con delle incertezze linguistiche, capiscono che hanno a che fare con pellicole impregnate di teenagers e un prowler che li ammazza con modalità multiple. Gli slasher nascono come produzioni indipendenti che fruttano la crisi dell’industria amerikana delle grosse major. Ci si accorge insomma che il pubblico degli anni ’70 è costituito, per larga parte, da giovani indipendenti, che si recano in sala non più accompagnati da genitori ex reduci che hanno bisogno d’annegare la rabbia contro i comunisti dentro ai b-movies di fantascienza.
Ecco allora fiorire le commedie animal (dei rutti, della birra, delle scoregge, delle scopate, degli scherzi atroci, dei nerd), i musical, i discoroller film, tutti imperniati sulle avventure sentimentali e grottesche di ragazzi del college. Il target di riferimento degli slasher è sicuramente all’interno di una fascia oscillante tra i 12 e i 20 anni e per questo i produttori cercano di evitare l’X-rated che escluderebbe i minori dalla visione. Il primo proto-slasher è Canadese. In Canada, nei ’70, l’industria cinematografica muove i primi passi e non può permettersi grossi costi. Per questo il successo di un film come Easy Rider viene preso a modello. L’industria canadese, coadiuvata da forti aiuti statali, coglie una apertura nella distribuzione americana che, si interessa sempre più a pellicole straniere d’autore o di genere. Il regista e produttore indipendente Bob Clark lavora a Black Christmas (1974), una trama che, più che Argento, guarda alla geografia thriller americana da Psycho a Peeping Tom, film degli anni ’60 che iniziano a tracciare i percorsi bui di una mente folle, frenzy. Clark intuisce che i big horror del periodo (Rosemery Baby, L’esorcista, Il presagio) sono appannaggio delle grandi major e un indipendente deve saper attrarre il proprio pubblico di riferimento con la minor spesa possibile. Quindi evitare attori famosi, o famosissimi e troppi effetti speciali. Il thriller sembra il terreno ideale. Un thriller infarcito di giovani studenti pensato per giovani studenti, così da facilitare i percorsi di immedesimazione. Clark, una costante del suo cinema, impreziosisce lo script con allusioni (alla realtà del periodo come la decisione della suprema corte di garantire, nel 1973, il diritto all’aborto delle donne) che si riflettono sulle scelte dei protagonisti. Le ragazze protagoniste di Black Christmas sono meno piatte e banali di altri slasher che verranno. I personaggi di Jess e Barb disegnano donne intelligenti, irriverenti e forti, quasi a smentire quanti vedono nei thriller solo personaggi femminili destinati al massacro. Black Christmas insomma, pur confezionato in Canada, è pensato per il mercato americano e funziona al botteghino del proprio paese. In America viene distribuito nel 1975 dalla Warner Bros, senza troppo successo, ma il primo sasso è lanciato. Un paio di anni dopo, un piccolo produttore, Irwin Yablans, insieme ad un altro finanziatore, Moustapha Akkad, affidano un progetto intitolato “The babysitter murders” a un giovane regista di 29 anni, John Carpenter. L’idea è di confezionare a basso costo un film per giovani, interpretato da giovani non ancora famosi. Il nuovo stimolo viene dal successo commerciale di un altro proto-slasher, Carrie, diretto dal giovane regista Brian DePalma e ispirato dal bestseller del momento di Stephen King. Carrie, insieme a certe commedie scollacciate del periodo (penso a film come The Pom pom girls) è lo stimolo produttivo alla base di ciò che diventerà Halloween. Ad affiancare Carpenter nella scrittura c’è una giovane produttrice come Debra Hill, già script supervising di film adolescenziali come Satan’s Cheerleaders. Nel cast si assolda persino una attrice che aveva avuto un passaggio nel film di DePalma, P. J. Soles. Ancora una volta, siamo nel 1977, i produttori capiscono l’orientamento giovanile del cinema americano e, impossibilitati di competere coi grossi budget di film come Jaws o The Omen, puntano su una pellicola di tensione in cui il madman ha come unico effetto una maschera. Rispetto a Black Chrismas è un passo in avanti notevole e in effetti, Halloween è il primo vero slasher. C’è l’icona del maniaco mascherato a caccia di ragazzini in età da college. Ritorna l’intuizione di Bob Clark (ben stampata nella mente di Carpenter) di personaggi femminili caratterizzati e interessanti. Come sempre nell’industria americana, l’iconografia ha grande importanza nella promozione di una pellicola e così si pensa a un poster molto efficace che coniuga l’elemento thrilling[1] e quello adolescenziale: una mano che brandisce un coltello e che per un effetto ottico di movimento diventa una zucca intagliata. Su fondo nero[2]. Il successo al box office questa volta è pieno. Halloween non è più un proto-slasher come il film di Clark e ha dalla sua una consapevolezza maggiore. Il modello è cristallizzato. Funzionale. C’è il maniaco con la maschera[3], la final girl capace di affrontarlo, di uscire viva e rigenerata dalla notte degli orrori. Ci sono i cicalecci amorosi, le speranze fatue di una generazione al centro degli interessi commerciali delle grandi multinazionali. I giovani della classe media americana sono consumatori indipendenti, hanno un loro linguaggio, un modo di vestirsi, abitudini, marche. E ciò si capisce non solo dal filone della paura. Altri successi del periodo vedono comitive studentesche al centro dei plot, si pensi a film musicali come Grease o Saturday night fever (1977). Per tornare allo slasher e alle sue peculiarità basti pensare a film gialli americani del periodo come Gli occhi di Laura Mars (1978) e Vestito per uccidere (1980) con protagonisti donne e uomini adulti, professionisti affermati coinvolti in misteriosi omicidi e perversioni sessuali che con lo slasher hanno poco a che fare. Vestito per uccidere di De Palma è sicuramente maggiormente debitore del thriller italiano di quanto lo sia l’intero genere slasher. Tuttavia anche il successo di Halloween non è bastevole per creare un ciclo di pellicole analoghe. Le produzioni non si buttano al ricalco, convinte che si sia trattato di un fuoco di paglia. Chi capisce che le cose non stanno così è un mercenario del cinema come Sean S. Cunningham, produttore e regista indipendente che si è sempre mosso negli abissi melmosi di documentari hard. Grazie al successo di L’ultima casa a sinistra di Craven, Cunningham si ritaglia un piccolo spazio di fiducia come produttore. La visione di Halloween lo convince a ritentare. Grazie a una strategia di marketing dissuade una piccola compagnia produttiva ad affidargli un progetto sulla base del solo titolo: Friday the 13th. L’idea è quella di copiare la struttura di Halloween e spogliarla della qualità estetica propria di Carpenter. Cunningham è consapevole dei propri limiti e punta al gore, allo splatter. Il bodycount dovrà essere maggiore. E Venerdì 13 aggiunge un tassello fondamentale per il genere: il summer camp, il campeggio delle vacanze al centro di un murder mistery plot. Qui il meccanismo del whodunit trova spazio, al contrario di quanto accadeva in Halloween (e anche, a conti fatti, in Black Christmas). I ragazzi del campeggio di Crystal Lake sono quelli di Animal House: hanno conversazioni ordinarie, sono trasgressivi come un pacchetto di caramelle, giocano a monopoli, pensano a divertirsi e non hanno una profondità particolare. Il successo del film (a discapito di grossi budget come L’Esorcista 2), il costo contenuto e gli effetti gore di un Tom Savini in forma stellare non passano inosservati. Se Halloween di Carpenter inventa un genere e se l’industria canadese ne intuisce l’esistenza, è a Sean Cunningham che si deve la fondazione di un ciclo di slasher. Cunningham semplifica la lezione di Carpenter e la volgarizza, la serializza appunto. Gli elementi di Venerdì 13 sono facilmente riproducibili da chiunque[4]. La Paramount distribuisce il film e incassa sfracelli. Grossi film come King Kong remake, Swarm e L’esorcista 2 colano a picco. E’ finita l’era dei qualità horror. Gli indipendenti horror hanno il loro momento di gloria. Basti pensare che un film come Shining (con un anno di riprese, set interamente ricostruiti, spese faraoniche, la follia di Kubrick, una star come Nicholson) incassa il doppio di Venerdì 13. Ma se si tiene conto di quanto è costato il film di Cunningham, il paragone si capovolge. A capirlo sono in molti anche nei piani alti delle major. Il cinema canadese[5] non rimane con le mani in mano e dopo il successo della commedia Meatballs mette in produzione Prom Night (1980) con la regia di Paul Lynch, allora 33enne. Prom Night recupera la struttura di Halloween e la sua protagonista (Jamie Lee Curtis, un’icona del genere), aggiungendo al whodunit l’elemento disco. Il ballo di fine anno, già al centro di Carrie di King, si colora dei suoni elettronici e sincopati del disco dancing, elemento addizionale e non marginale in certo slasher (si pensi anche a Graduation Day – 1981 – di Herb Fredd, dove in un college, durante la festa di fine anno, un killer vestito da schermidore insegue e uccide la sua vittima). Prom Night è distribuito da una mini major come la Avco Embassy (responsabile del Fog di Carpenter). Intanto la Paramount mette in cantiere il seguito di Friday the 13th, La Twenty century Fox distribuisce il Canadese Terror Train e la Universale produce in proprio il primo slasher di Tobe Hooper, The Funhouse (1981). Non tutti saranno dei successi commerciali, a dimostrazione che già nel 1982 il genere era saturo. Nel giro di un paio di anni vengono prodotti numerosi film. I canadesi My bloody Valentie (ambientato in una piccola città di minatori e legato al backgrounds di quei lavoratori) e Happy Birthday to me (1981). Per la American International di Roger Corman esce lo slasher femminista Slumber party massacre (1982). La neonata Miramax produce The Burning (1981). Nel 1983, un giovanissimo esordiente di nome Robert Hiltzik gira un capolavoro come Sleepaway Camp, chiaramente sull’onda di Venerdì 13: Sleepaway è uno slasher malato e dal finale difficile da digerire, disseminato da chiare allusioni pedofile, insite nel genere.
Comunque, dopo il 1986, per una rinascita dello slasher si dovrà attendere il successo mondiale di film come Scream (1996) e So cosa hai fatto (1997), entrambi sceneggiati da Kevin Williamson.
Questa la storia nuda e cruda dello slasher.
Concludo venendo alle leggende metropolitane del titolo. Ritenuto un genere piatto e ripetitivo, senza contenuti, reazionario, fissato sul sesso, visto come colpa da mondare con la morte, lo slasher ha trovato nuove interpretazioni in recenti studi americani che lo hanno collegato maggiormente al folklore americano. In particolare Mikel Koven, in un libro intitolato Film, folklore and Urban Legends, rincorre le leggende metropolitane alla base di vari slasher presenti e passati. Ciò starebbe a significare che, oltre le fisse per il sesso adolescenziale, lo slasher trova linfa in brevi narrazioni riconducibili alle fiabe[6]. Le leggende metropolitane sono, secondo un bellissimo studio di Sergio Benvenuto – “Dicerie e pettegolezzi”, Il Mulino, 2000 – delle dicerie che si propongono come saperi, come voci reali, camuffate da storie vere. Benvenuto spiega che le leggende metropolitane sono la vox populi, narrazioni orali, collettive, a cui chiunque può contribuire modificandone o alterandone dei passaggi, narrazioni che esprimono quello che la gente pensa, quello che la gente desidera, quello di cui la gente ha paura. Proprio come i film slasher, le leggende metropolitane sono storie appiattite, concise, semplici, basate sull’accentuazione di alcuni particolari per imprimersi meglio nella memoria. Le leggende sono ombre minacciose che si spalmano sul nostro quotidiano e corrodono le sicurezze delle nostre quiete vite consumistiche. Ci sono leggende su ogni cosa. Dal sesso (la coppia incastrata, l’AIDS, il rene sottratto), ai cibi o bevande tossiche (Nutella, Coca cola), al razzismo (i segni sulle porte opera degli zingari). Le urban legends tradiscono la nostra visione manichea del mondo, ossia il bisogno innato di dare un ordine e un senso alle cose, di trovare una spiegazione per tutto, anche per le cose più strampalate, al fine di non avere più zone grigie, più ambiguità. Tuttavia, se da un lato la diceria, con le sue spiegazioni astruse, dà un ordine al caos, dall’altro crea un altro mondo, retto da regole imprevedibili e surreali, dove gli ossimori possono convivere, dove i bambini vengono rapiti da pullman neri e abusati negli scantinati delle scuole durante delle messe nere; dove l’esposizione ai thrillers in giovane età può produrre comportamenti maniacali; dove dietro al crollo delle torri gemelle c’è un complotto; dove i supermercati esistono solo per permettere ai trafficanti di rapire i bambini e usare i loro organi; dove topi giganti, coccodrilli nel cesso e tarantole sulle banane la fanno da padrone; dove il rock serve a Satana per arruolare e corrompere i giovani. Un mondo insomma basato sulla chiacchiera, sul sentito dire da “un amico di un amico”, un mondo banale, non verificabile, credulone, che basa il proprio sapere su voci ufficiali, claque autorevoli come tv, giornali, uomini politici, internet. Una rete di fonti mai verificate o verificabili, ubique e fantasma. Flussi di sapere, di informazioni, di identità a cui ci affidiamo al 99% e che ri-costruiscono il mondo in cui viviamo. La diceria viaggia veloce nel mondo digitale. Magari non crediamo che se ci cade la coca cola per terra al mattino troviamo un buco, però possiamo credere che i Greci sono i soli responsabili della loro situazione. Che è stata la loro corruzione e la loro ingordigia a metterli in ginocchio, dimenticando che se si sono indebitati così tanto (e noi con loro) è stato anche per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumismo superfluo e dannoso, a vantaggio dei prestatori/usurai. Magari non crediamo alle sfortune delle catene di Sant’Antonio interrotte, ma possiamo credere al modello di sola virtù dei tedeschi, il cui successo economico è segno di nazionalistiche virtù nazionali contro gli inaffidabili greci. Magari non crediamo che le sigarette Camel contengono oppio, ma crediamo che grazie al job act le imprese creano posti di lavoro e non che il mercato è sempre più flessibile e senza vincoli, coi lavoratori merce in mano alle aziende.
Quindi?
Le leggende metropolitane su cui sono costruiti numerosi slasher (e qui rimando al volume di Koven) non ci dicono che si muore perché si fa sesso, ma si muore perché ci si appiattisce su una visione settaria del mondo, una visione piatta e spersonalizzata che denota una deficienza affettiva, una capacità di immedesimarci negli altri, di provare un senso comune di affetto, solidarietà, pietà. Senza questo la società è finita per davvero, come ci ha raccontato tante volte King. I killer dello slasher non uccidono perché si fa sesso. Uccidono perché si è stupidi e autoritari (gli scherzi da caserma di tanti imbecilli del college dietro ai traumi di molti killer del filone). Se Laurie in Halloween si salva non è perché è vergine, bensì perché, nel momento del pericolo, quando le amiche pensano agli affari loro e sono distratte dal chiacchiericcio, dai rumor collettivi, si occupa di Tommy, mette a repentaglio la sua vita per proteggerlo ed assolvere il compito sociale (la babysitter) che le è stato affidato: affrontare il male, guardare nell’abisso, e divenire un’adulta.
[1] Il thrilling, lo abbiamo detto, di Hitchcock e Michael Powell più che quello italiano, distribuito marginalmente in America e incapace di impressionare realmente in profondità. Comunque lo slasher, rispetto al thrilling italiano, opera una semplificazione degli elementi del plot, concentrandosi sul mondo del college e degli studenti; il thrilling ha personaggi più vari, giovani uomini e giovani donne della borghesia benestante dei ’70. Le signore del thriller, da Florinda Bolkan a Susan Scott fino alla divina Fenech sono confortate dagli agi dei vestiti, dei lussi, dei playboy che le corteggiano e le coprono di gioielli e serate al night; insomma le signore del thriller hanno un’età adulta rispetto allo stormo di adolescenti dello slasher e conducono un altro tipo di vita. Inoltre il thriller degli anni ’70 italiano è molto movimentato, coi protagonisti che girano per l’Italia e per il mondo senza problemi. Lo slasher sceglie pochi luoghi fissi e concentra lo spazio tempo della narrazione. Il college, un vecchio cinema abbandonato, un luna park. Si arriva lì per la festa. Inizia la conta dei morti. Si scopre il colpevole. La final girl lo affronta. Fine. Senza holliday e travelling. Lo slasher è un figlio genuino della cultura americana, cultura esportabile in tutto il mondo. Il thrilling italiano è italiano e basta. Ha attecchito un pochino (produttivamente) in Spagna. Le somiglianze tra il thrilling e lo slasher si trovano nel trauma alla base del maniaco, ma questo era già presente in film appunto capitali come Psycho e Peeping Tom.
[2] Sul mercato americano, sempre nei ’70, era stato distribuita una pellicola italiana di Sergio Martino che, come Reazione a catena di Bava, anticipava di non poco gli elementi dello slasher. Si tratta di Torso (il titolo americano): nel poster (una mano guantata cala dall’alto e brandisce un seghetto; all’interno del seghetto un frame della pellicola con l’attrice Suzy Kendall in vestaglia e l’ombreggiatura dei seni generosi in evidenza; l’espressione della Kendall è terrorizzata) viene evidenziato l’elemento sessuale combinato con la violenza.
[3] Comunque la presenza della maschera è una costante dello slasher, sottofilone maggiormente interessato al copricapo del maniaco rispetto al thrilling italiano (ossessionato dal cadavere della mano, dal guanto di pelle nera, sostitutivo della masca): in Halloween il killer indossa un copricapo bianco e inespressivo; in Funhouse una maschera di Frankenstein; nel Camping del terrore abbiamo un copricapo in lattice da vecchio stregone dai lunghi capelli bianchi; in Non entrate in quel collegio, splendido slasher di Mark Rosman, l’assassino, nel finale agghiacciante, ha un costume da clown; in The Burning il pazzo ha il viso devastato dalle fiamme, le carni sono bubboni liquefatti di cera; in Cherry Falls abbiamo un travestimento da donna; in Deep in the Woods un costume da Lupo Cattivo delle fiabe; in My bloody valentie un copricapo da minatore; in Hell Night i 2 pazzi sono dei mostri deformi, dei veri demoni-maschere; in Just before down sono dei villici enormi, obesi, con barba e capelli lunghi; in Prom Night un semplice passamontagna nero; in Pieces il killer si presenta similare a quello di tanti thrilling italiani con impermeabile e cappellaccio nero calato sul volto; in Popcorn è una sorta di mostro dell’opera munito di varie maschere in lattice che gli permettono di tramutarsi in chiunque; in Rosemary’s killer ha un costume da soldato della seconda guerra mondiale; in Rosso sangue non ha bisogno di trucchi, il mostro si poggia sul fisico imponente del nostro Luigi Montefiori; in Scream è travestito da fantasma; in So cosa hai fatto da pescatore; in Terror train il killer è un trasformista, tuttavia la maschera da Groucho Marx passa alla storia; nel serial di Venerdì 13 abbiamo una comunissima maschera da hockey; in Graduation Day e Urban Legend 2 una maschera da schermidore. Come si può vedere una gamma di travestimenti assai ampia, che ci riporta a quanto abbiamo già scritto altrove; la maschera, la masca è una porta segreta che ci introduce nel mondo dei morti. Fin dall’antichità, per indicare una maschera si è usata anche una parola che si collega al mondo sotterraneo: larva. Anche Dante e Tasso la usano per indicare una maschera o uno spettro, quindi mondi sotterranei che si confondono coi riti carnevaleschi delle roller disco di fine ‘70!
[4] Anche qui abbiamo una campagna di marketing efficace, con spot, trailer, tv spot d’effetto e vari poster in stile comic book che richiamano l’allusività di quello di Halloween; in particolare penso a una promozione in cui si vede la sagoma del maniaco e al suo interno il disegno notturno del bosco intorno al campeggio coi ragazzi raccolti tra loro e la luna velata dalle nubi.
[5] Nel frattempo aveva esordito David Cronenberg con Shivers (1975) e Rabid (1977).
[6] Vladimir Propp ne “Le radici storiche dei rcconti di fate” individua alcuni archetipi di base del racconto orale: le fiabe, come le leggende urbane, si basano su interdizione e violazione dell’interdizione; questo perché, al loro interno, conservano tracce di una rappresentazione della morte connessa ai riti di passaggio, di maturità, delle società arcaiche. Riti a cui venivano sottoposti i giovani della comunità.