La Soglia Oscura
Misteri,  Monografie

MOMBELLO: IL MANICOMIO DIMENTICATO DOVE IL TEMPO SI È FERMATO
di Alessandro Schümperlin

Un labirinto di corridoi vuoti, storie di abbandono e ombre che ancora si aggirano: il manicomio di Limbiate è più che un luogo dismesso, è una ferita aperta nella storia italiana.

Nel cuore della Brianza, a Limbiate per la precisione, si “nasconde” ciò che resta di uno dei manicomi più grandi d’Italia: il Mombello. Ospedale psichiatrico provinciale, ma anche teatro di sofferenza, abusi e, secondo alcune voci, fenomeni inquietanti. Oggi è un gigante decadente immerso nel silenzio, ma le sue mura parlano ancora.

Un colosso della follia: Partiamo dalla storia del luogo
Il manicomio provinciale di Milano in Mombello nacque da un’urgenza: nel 1865, infatti, lo scoppio di un’epidemia di colera pose fine a discussioni e dibattiti circa come e dove costruire un nuovo “ospedale per matti” a Milano, dovuti al sovraffollamento del manicomio cittadino, la Senavra. Va detto che la necessità di dotarsi di una nuova struttura fu dettata anche dalle esigenze della moderna psichiatria, che in Italia venne in quegli anni sviluppandosi grazie soprattutto al processo di unificazione del Paese.

Nell’agosto 1865 circa una sessantina di malati vennero dunque trasferiti dalla Senavra nella Villa Pusterla-Crivelli di Mombello in Brianza, che nel 1797 aveva ospitato i Bonaparte. Nell’ottobre 1867, al termine dei lavori di adeguamento e ristrutturazione, i ricoverati nella succursale di Mombello erano 300: 150 donne e 150 uomini, rigorosamente divisi. Cesare Castiglioni, direttore della Senavra ed esponente di spicco, insieme ad Andrea Verga e Serafino Biffi, della cosiddetta “scuola milanese” di psichiatria, organizzò Mombello come una colonia agricola per malati tranquilli e non bisognosi di “cure insistenti”.

In seguito alla decisione della Provincia di Milano di trasformare Mombello in manicomio provinciale, fra il 1873 e il 1878 (anno dell’inaugurazione ufficiale) vennero svolti ulteriori lavori di ampliamento, al termine dei quali i ricoverati superarono il migliaio. Costruito “a villaggio”, Mombello ospitava, oltre ai reparti dei degenti, gabinetti scientifici, biblioteche per i medici ma anche per i ricoverati, laboratori di sartoria e piccolo artigianato, giardini e spazi coltivabili. Come in ogni altro manicomio italiano, i ricoverati erano suddivisi sulla base del comportamento e non della categoria diagnostica, in reparti denominati: “tranquilli”, “agitati”, “sudici”, “lavoratori” e così via. Solamente i cosiddetti “agitati” erano tenuti in isolamento: tutti gli altri – la maggioranza – erano impiegati in attività lavorative considerate “terapeutiche” (ergoterapia era il nome scientifico della terapia del lavoro).

Nel luglio 1880 nacque un giornale interno, la Gazzetta del Manicomio della Provincia di Milano in Mombello, che venne stampato per 25 anni. E fu proprio la Gazzetta a dar conto della partecipazione di Mombello all’Esposizione Internazionale di apparecchi per la macinazione, panificazione e industrie affini, che si tenne a Milano nel 1887. Tale partecipazione sottolineò il legame esistente fra psichiatria e igiene, nonché l’impegno degli psichiatri a favore dell’educazione di tutta la popolazione riguardo a problematiche sanitarie di particolare rilevanza sociale, come ad esempio la pellagra. Così, all’Esposizione, nella sala destinata all’Igiene, vennero esposti numerosi dipinti che rappresentavano le varie fasi dell’eritema pellagroso eseguiti da un ricoverato che a Mombello li aveva ritratti dal vero, oltre a una statistica grafica sulla pellagra comprendente un periodo di 15 anni (1872-1886).
Furono inoltre messe a disposizione dei visitatori 400 copie gratuite dei Dialoghi scritti dagli psichiatri Edoardo Gonzales e Giovanni Battista Verga (nipote di Andrea) a mo’ di campagna di prevenzione contro la pellagra. Gonzales presentò anche un pane confezionato con farina di frumento e patate, “di grato sapore, di bell’aspetto, resistente alle muffe, di poco costo, che potrebbe servire vantaggiosamente pei poveri e sostituire il pane di frumentone”.

Ancora sua, a fine Ottocento, fu l’iniziativa di introdurre rappresentazioni teatrali e balli (cui vennero invitati anche alcuni giornalisti che poi ne scrissero sulla stampa locale), a sottolineare l’importanza dell’“educazione morale” nella cura manicomiale. E sempre Gonzales nei primi anni del Novecento, oltre a far costruire un acquedotto che riforniva di acqua non solo il manicomio, ma tutto il paese di Limbiate, diede vita al cosiddetto “reparto fanciulli”, dotato di una scuola arredata con il materiale Montessori (che – è bene ricordare – fu psichiatra per bambini in manicomio, prima che pedagogista).

Negli anni Venti il reparto fanciulli fu affidato a Giuseppe Corberi: la figlia Elisa, appena ventenne, vi lavorava come insegnante volontaria.

Nel 1908 venne decisa la costruzione di quattro “padiglioni aperti”, ossia sprovvisti di muri di cinta, ognuno capace di 100 posti letto, nella pineta di Mombello, già di proprietà dell’amministrazione.

Durante la prima guerra mondiale, due padiglioni furono adibiti a ospedale militare di riserva per “osservazione e cura” dei soldati impazziti al fronte. Si trattava di edifici staccati, a struttura autonoma, dalla capienza totale di 200 posti letto. Nel primo anno di attività i militari accolti furono 635, 517 dei quali vennero dimessi, per una media di circa 150 ricoverati per volta. A Mombello i soldati vennero sottoposti a “un trattamento psicoterapico di prim’ordine”, di cui clinoterapia (ossia terapia del riposo), libertà (per loro vigeva il “nessuna restrizione assoluta”) e un regime dietetico “ricostituente” (gli aumenti di peso registrati erano nell’ordine dei 10-15 Kg) costituivano gli ingredienti fondamentali. Come la maggior parte dei ricoverati, anche i soldati furono messi “al lavoro”, tant’è che costruirono una strada per collegare il padiglione di vigilanza (estremo angolo sud-est) ai cosiddetti “padiglioni della pineta”.

Va detto che i militari non furono gli unici “ricoverati speciali” durante la Grande guerra: quando, a seguito della disfatta di Caporetto, la Sanità militare diede ordine di sgomberare i manicomi di Venezia, l’allora direttore di Mombello, Giuseppe Antonini – cui nel 1938 verrà intitolato il manicomio, divenuto “ospedale psichiatrico provinciale” –, creò il “padiglione Veneto” per ospitare 250 “alienate profughe”. Una vocazione all’accoglienza degli sfollati, questa, che si ripeterà anche in occasione della seconda guerra mondiale e in seguito all’alluvione del Polesine del 1951.

Ma guerra non significò soltanto militari che arrivavano in manicomio. Qualcuno dovette fare, per così dire, il percorso inverso, e dal manicomio partire per andare al fronte. Furono tanti medici, infermieri, impiegati negli ospedali di tutta Italia; anche Mombello fece la sua parte. Lo psichiatra Gaetano Perusini, passato alla storia per aver collaborato con Alzheimer all’osservazione e descrizione di quella speciale forma di demenza, ribattezzata appunto “morbo di Alzheimer”, fu tra quelli che partirono e non ritornarono: trovò la morte a San Floriano, nel dicembre 1915, colpito dallo scoppio di uno shrnapel durante le operazioni di sgombero dei feriti.(Proiettile Sharpnel = proiettile di artiglieria cavo con all’interno un esplosivo e attorniato, quest’ultimo, da pallini più piccoli; l’equivalente se vogliamo di una bomba a grappolo).

In quegli anni neppure mancò una curiosa inchiesta giornalistica: Antonio Curti, storico, poeta dialettale e pittore, amico tra gli altri di Tranquillo Cremona, oltre che di Giuseppe Antonini, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia visitò Mombello per sapere cosa gli internati pensassero della guerra. Le risposte vennero pubblicate sul quotidiano milanese La Perseveranza del 5 marzo 1915 (e in seguito anche come opuscolo a parte).
Per ovviare al problema del sovraffollamento, particolarmente sentito negli anni della Grande guerra quando i ricoverati superarono quota 3.000, venne decisa l’apertura di alcune succursali a Busto Arsizio (1918), a Villa Litta Modignani (1919) e più tardi a Codogno (1930) e a Parabiago (Sezione femminile “Leonardo Bianchi”, 1935).

Tra i gabinetti scientifici più importanti trovarono posto, fin dai primi anni del Novecento, i laboratori di anatomia patologica e di biologia che formavano l’Istituto Andrea Verga, il Laboratorio di psicologia sperimentale diretto da Giuseppe Corberi (in Italia, è bene precisare, i primi laboratori di psicologia nacquero nei manicomi e non nelle università), nonché l’Istituto neurobiologico di ricerca in Affori, diretto nel primo dopoguerra da Ugo Cerletti, il futuro “inventore” dell’elettroshock.

Nel 1931 venne stipulata inoltre una convenzione con il giovanissimo ateneo milanese (sorto nel 1924) per istituire una sezione universitaria presso il manicomio. Lo scopo era fornire al titolare della cattedra di Clinica delle malattie nervose e mentali, Carlo Besta (direttore dell’Istituto neurologico Vittorio Emanuele III, sede ufficiale della clinica universitaria), i malati necessari per lo studio e l’insegnamento, la cui scelta “fra tutti quelli del manicomio” era affidata appunto al medico della sezione universitaria. I posti letto messi a disposizione furono 40: 20 per uomini e 20 per donne. La Clinica universitaria delle malattie mentali interna a Mombello funzionò fino al 1943. In questa sezione lavorarono i medici Arrigo Frigerio, Davide Alessi, Rinaldo Grisoni, Silvio Brambilla.

Negli anni del fascismo, Mombello fu teatro di una vicenda tristemente nota. Nel 1935 venne internato Benito Albino Mussolini, figlio “segreto” del Duce e di Ida Dalser, di cui parleremo più approfonditamente dopo.

Mombello è stato uno dei manicomi più grandi e importanti d’Italia, con oltre tremila ricoverati, visitato – fin dalla seconda metà dell’Ottocento – anche da psichiatri provenienti da numerosi paesi esteri, tra cui Germania, Romania, Spagna, Egitto. Ha accolto, tra gli altri, ospiti illustri, come ad esempio il pittore Gino Sandri, che in manicomio disegnò moltissimo. Numerosi, tra l’altro, i pittori ricoverati, tant’è che il giornalista Antonio Curti aveva ribattezzato il loro reparto “la Brera di Mombello”.

Durante il Novecento, specialmente nel periodo fascista e nel dopoguerra, fu un contenitore umano dove finivano non solo malati psichiatrici, ma anche persone ritenute “scomode”: donne ribelli, omosessuali, dissidenti politici, alcolisti e poveri.

I metodi non sempre erano speciali per tutti, nella maggior parte dei casi erano quelli classici dell’epoca: elettroshock, camicie di forza, sedazioni prolungate. Non mancarono neppure sperimentazioni farmacologiche pesanti. Le condizioni igieniche e umane, documentate da medici e giornalisti, erano spesso al limite della crudeltà. Ovviamente in quelli che erano i reparti più “difficoltosi”.

Il declino, ne parleremo meglio poco sotto, di Mombello cominciò a partire dal secondo dopoguerra, quando la Provincia di Milano decise di privilegiare la nuova succursale di Affori, che proprio nel 1945 venne intitolata allo psichiatra Paolo Pini, scomparso in quell’anno. Con la legge Basaglia del 1978, che portò alla progressiva chiusura dei manicomi, anche Mombello non ne venne escluso. I reparti furono smantellati lentamente, ma molti pazienti rimasero lì per anni, abbandonati, in attesa di una ricollocazione che per molti non arrivò mai. L’ultima, vera, chiusura dell’ultimo reparto ufficiale risale agli anni Novanta. Da allora, la struttura è rimasta un luogo fantasma.

Tra leggende nere e verità dimenticate
Nel tempo, Mombello è diventato meta di esploratori urbani, di band rock e metal per un ambiente ad hoc per i loro set fotografici e/o videoclip; ma anche appassionati di paranormale e semplici curiosi. Le storie che circolano sono molte, le più ripetute e suggestive:

• Voci senza corpo che si sentirebbero nei corridoi di notte.
• Letti arrugginiti ancora disposti come se qualcuno li avesse appena lasciati.
• Cartelle cliniche con annotazioni spaventose, abbandonate negli armadi.
• Disegni infantili e frasi disturbanti sui muri: “Non voglio dormire, mamma” e “Mi fa male la testa, sempre”.
• Alcuni parlano persino di una “sala degli esperimenti”, non documentata ufficialmente, dove si sarebbero svolti trattamenti non autorizzati.
• C’è poi la foto del “Demone” del corridoio.

Ovviamente, molte di queste storie sono alimentate da suggestione e dal fascino oscuro del luogo, ma alcune si basano su testimonianze raccolte da ex dipendenti e residenti della zona.
Qui di seguito le fonti da cui alcune delle leggende e dei miti hanno fondamento concreto. Poi ci saranno le leggende per quello che siamo stati in grado di recuperare.

Un figlio cancellato: la morte di Benito Albino Mussolini
Tra le mura del manicomio di Mombello si consumò una delle vicende più rimosse e inquietanti del Ventennio fascista: la morte del figlio “segreto” di Benito Mussolini, Benito Albino Mussolini.

Nato nel 1915 dalla relazione tra Mussolini e Ida Dalser, una donna trentina che secondo fonti documentate lo aveva sposato legalmente, Benito Albino fu riconosciuto inizialmente dal padre. Ma con l’ascesa al potere del Duce, quel passato divenne scomodo. Il regime orchestrò un’opera sistematica di cancellazione: Ida Dalser fu internata e morì in manicomio, mentre Benito Albino fu sottratto alla madre, affidato a un’altra famiglia, e in seguito dichiarato “mentalmente instabile”.

Le sue continue rivendicazioni di essere “figlio del Duce” furono considerate una minaccia politica. Dopo diversi ricoveri, nel 1942 venne trasferito al manicomio di Mombello, dove morì a 26 anni. La causa ufficiale fu “meningite”, ma secondo documenti e testimonianze raccolti dallo storico Marco Zeni, il giovane fu sottoposto a isolamento prolungato, elettroshock e trattamenti coercitivi.

La sua storia venne taciuta per oltre mezzo secolo, fino a quando documenti ufficiali, lettere e cartelle cliniche non ne riportarono alla luce l’esistenza. È uno dei pochi casi in cui il manicomio di Mombello si incrocia direttamente con la storia del potere politico.

Altri casi documentati
Mombello fu un luogo di passaggio per migliaia di persone, e alcune storie sono state ricostruite con certezza grazie a registri clinici, atti giudiziari e interviste d’epoca. Tra i casi documentati:

Il “matto per amore” (1933): un ex militare ricoverato dopo aver cercato di rapire la donna che amava, per fuggire con lei in Svizzera. La sua cartella clinica riportava “delirio erotico sistematizzato”, ma fu dichiarato in buone condizioni pochi mesi dopo. Eppure rimase internato per oltre 20 anni.

Un gruppo di “internati per povertà” (anni ’50): uomini e donne senzatetto, anziani e analfabeti, ricoverati non per disturbi psichiatrici, ma per “inadeguatezza sociale” o “comportamento indecoroso”. I registri, consultabili presso l’Archivio Storico dell’Ospedale Niguarda, testimoniano come queste persone venissero spesso dimenticate, senza visite né progetti di reinserimento.

Sperimentazioni farmacologiche su pazienti cronici (anni ’60-’70): documenti interni del personale sanitario mostrano che Mombello fu uno dei manicomi dove vennero testati nuovi psicofarmaci, talvolta senza consenso informato. Le relazioni cliniche parlano di reazioni gravi e ricoveri prolungati.

Un luogo che non vuole morire: Ora entriamo nelle leggende più conosciute
Oggi il manicomio di Mombello è in stato di abbandono, ma resiste agli anni. Nonostante le numerose proposte di riqualificazione, nessun progetto è andato in porto. Il sito è pericolante, e molte aree sono state chiuse con barriere improvvisate, ma questo non impedisce a curiosi e avventurieri di entrarvi. In altri casi vi sono i resti di giacigli improvvisati segno che viene utilizzato come “casa” da senza tetto, sfollati o irregolari.

C’è chi dice che quel posto abbia oramai una specie di coscienza e che questa non voglia che il manicomio possa essere dimenticato. C’è chi dice che le sue stanze, impregnate di dolore e solitudine, abbiano un’energia difficile da spiegare. Mombello non è solo un edificio in rovina: è una memoria distorta della follia, una capsula del tempo che conserva ciò che la società voleva nascondere.

Ombre, leggende e sussurri tra le macerie
Il manicomio di Mombello non è solo un monumento alla follia del passato, ma anche un concentrato di suggestioni, leggende nere e presenze invisibili. Le urla che sembrano echeggiare nei corridoi, una bambina che cerca la madre, un vecchio specchio che riflette l’orrore, e una tomba che nessuno vuole trovare: che siano fantasie o memorie deformate, fanno parte del tessuto vivente di questo luogo.

Anche oggi, chi attraversa i corridoi di Mombello racconta spesso di aver percepito qualcosa che non sa spiegare. Forse un’eco. O forse, il dolore non muore mai davvero. Personalmente vi posso dire che, avendolo visitato quasi tutto, di aver avuto quella sensazione, che avete appena letto, in più stanze.

Attorno al manicomio di Mombello ruotano, come scritto sopra, numerose leggende e racconti oscuri, molti dei quali nati dopo la chiusura della struttura e alimentati da urbexer, appassionati di paranormale e racconti orali tramandati nella zona. È importante distinguere tra i fatti storici (documentati) e le voci popolari o leggende urbane, che però contribuiscono a costruire quell’aura “weird” e sinistra perfetta per poter dare un’ulteriore conferma della leggenda (in stile profezia che si autoavvera).

Ecco le principali leggende legate al manicomio di Mombello, alcune delle quali sono diventate “classici” nel mondo delle esplorazioni urbane italiane:

1. Le urla nei corridoi
Una delle leggende più diffuse racconta che, entrando in certi reparti durante la notte (soprattutto quelli della psichiatria infantile), si possano udire urla, pianti e lamenti, come se i suoni della sofferenza psichiatrica fossero rimasti imprigionati tra le mura. Diversi esploratori raccontano di aver registrato suoni inspiegabili o percepito presenze “fredde”.

Non escludendo nulla, ci sentiamo di affermare che l’origine di quelle urla e di quei pianti potrebbero anche essere suggestioni amplificate dal silenzio totale del luogo, dai soffitti alti, e dalla conformazione acustica dei lunghi corridoi. Oppure anche le urla di soggetti che, come scritto sopra, abitano li e non vogliono avere “visitatori” attorno.

2. Lo specchio del reparto femminile
Una stanza al primo piano del reparto femminile ospiterebbe un grande specchio incrinato, secondo la leggenda, ritrovato coperto da un telo bianco. Si dice che chi guarda in quello specchio per troppo tempo veda il riflesso deformato di una donna urlante, oppure il proprio volto con una camicia di forza.

Questo ci sentiamo di dire che è un elemento molto ricorrente. Soventissimo gli specchi nei luoghi abbandonati diventano origine di leggende turpi e più sovente oggetto di proiezione psichica. Non c’è traccia di quel preciso specchio nei registri, ma è menzionato in decine di racconti online.

3. I disegni dei bambini
In alcuni reparti (quelli destinati alla degenza infantile, che teoricamente dovevano essere separati dal manicomio in quanto tale ma capitava che i bambini fossero “degenti” insieme alle famiglie), sono stati trovati disegni a muro e frasi infantili come: “Mamma non viene più” oppure: “Io non sono pazzo”. Si racconta che una bambina ricoverata negli anni ’50 si sia tolta la vita nel bagno di uno dei reparti e che il suo spirito si manifesti sotto forma di risatine o piccole mani fredde sentite sui muri.

Suggestione o realtà? Questi disegni esistono davvero, quindi il fondamento c’è (per altro ampliamente documentati in foto da urbexer e non solo) ma non è chiaro se fossero di pazienti o aggiunti successivamente da vandali. Sulla bambina suicida non si troverebbe nulla di ufficiale, quindi potrebbe essere parte di un meccanismo di “creepypasta” ante litteram.

4. La tomba senza nome
Alcuni narrano dell’esistenza di una tomba anonima nei pressi del parco dell’ex manicomio, coperta da erbacce e mai segnalata sulle mappe. Secondo la leggenda, si tratterebbe di un paziente morto in isolamento di cui non fu mai ritrovata l’identità. Il luogo, dicono, porta sfortuna a chi ci passa vicino, e appare spesso in sogni ricorrenti di chi ha visitato Mombello.

Nota storica: nei terreni dell’ex manicomio non risultano cimiteri ufficiali, ma nel primo Novecento era consuetudine seppellire i pazienti poveri o senza parenti in fosse comuni, quindi certamente ci saranno stati casi di poveri e senza famiglia morti nel manicomio che non hanno avuto sepoltura differente dalla fossa comune, perdendosi nei fatti nel tempo.

5. La stanza degli esperimenti
Si parla da tempo di una stanza murata all’interno del reparto 17, dove si sarebbero svolti esperimenti psichiatrici illegali: iniezioni, isolamento sensoriale, perfino test con LSD. Nessuna conferma ufficiale, ma durante alcune esplorazioni urbane sarebbero stati trovati strumenti medicali d’epoca, camici, e barelle arrugginite legate con cinghie di pelle.

Ipotesi plausibile e parzialmente vera. Mombello, come altri manicomi, fu sede di sperimentazioni farmacologiche negli anni ’60-’70 (come indicato poco sopra), come già accennato venivano testati farmaci psicotropi, spesso senza un rigore metodologico adeguato e con effetti collaterali importanti. Alcuni operatori provavano terapie ritenute innovative, ma spesso prive di validità scientifica, come ad esempio l’idroterapia o l’elioterapia applicate in modo indiscriminato.
I pazienti venivano spesso rinchiusi in celle di isolamento e sottoposti a metodi di contenzione fisica per controllare i comportamenti ritenuti problematici. Ma la “stanza segreta” non è mai stata trovata ufficialmente.

6. Il demone fotografato
Leggenda piuttosto recente, ma che ha avuto una risoluzione circa otto anni fa. Nel 2015 viene proposta una foto di un corridoio del manicomio in cui si delineerebbe la sagoma umanoide definita demone. Se dà un lato sono scattati subito le leggende metropolitane della presenza di demoni nel ex manicomio; dall’altro ci sono state delle richieste di chiarimento in merito.

Sono stati quindi interpellati soggetti dell’AIPO (Agenzia di Investigazione del Paranormale e dell’Occulto). L’associazione ha richiesto l’intervento di un laboratorio di analisi immagini e perizie forensi per processi civili e penali. Dopo alcune valutazioni e riscontri di immagini similari e dei dati della fotografia e di alcune macchine utilizzate per filmati e foto simili, il laboratorio ha dichiarato che la foto non è un fotomontaggio, ma che la figura antropomorfa che spunta dopo alcuni filtraggi è di fatto l’effetto di alcune tubature che possono dare rimandi di parti di corpo, quali gambe e braccia, e non si esclude anche la presenza di stracci nella foto del 2015 rispetto a quelle successive che hanno permesso di dare “corpo” al demone.

Archivio storico della psichiatria lombarda
Aspi – Archivio storico della psicologia italiana
Interviste a ex infermieri (pubblicate su “Il Giorno” e “Corriere della Sera”)
Documentazioni fotografiche di urbexer italiani
Testimonianze raccolte in forum e blog dedicati al paranormale
Cartelle cliniche dell’Ospedale G. Antonini (da 1866 a fine Novecento). Conservate nell’Archivio di Stato di Milano (dal 2015) e composte da: cartelle cliniche, referti di laboratorio, disegni dei pazienti, schede diagnosi, registri di entrata/uscita (1950–1977).
“Internati per povertà” (anni ’50) Molti indigenti, senzatetto o anziani furono ricoverati come “inadeguati socialmente”, controllati dai registri, e spesso dimenticati senza prospettive di dimissione, come emerge dagli atti e registri sociali.
Sperimentazioni farmacologiche (anni ’60–’70) Nei registri delle farmacie interne si documentano test di nuovi psicofarmaci, con relativi referti su reazioni avverse e permanenze prolungate, suggerendo pratiche senza pieno consenso informato.
“Il matto per amore” (1933) Caso di un ex militare con “delirio erotico sistematizzato” che, nonostante migliorato, rimase internato oltre due decenni, come indicano i verbali di ammissione/dimissione reperibili nell’archivio sanitario.
La ricostruzione storica sul primo figlio di Mussolini è frutto delle ricerche del giornalista Marco Zeni, autore di “La moglie di Mussolini” (2004), che ha analizzato atti notarili, cartelle cliniche e corrispondenza per rivelare l’esistenza del figlio segreto del Duce.
www.dalchecco.it per l’analisi forense sulla foto del demone del 2015