La Soglia Oscura
Folklore e Tradizione,  Misteri

IL VAMPIRO E I SUOI SIMBOLI
di Francesca Erriu Di Tucci
(Estratto)

La paura del morto che ritorna ha da sempre tormentato il nostro inconscio, assumendo connotazioni ambivalenti: da una parte il desiderio di rivedere in vita la persona cara, dall’altra il terrore che il defunto potesse avere qualche conto in sospeso.
Come spiega Sabine Baring-Gould in The Meaning of Mourning, trattato sul rapporto tra vivi e morti, “it is entirely reasonable that, as the dead are assumed to be alive, they will seek communion with the living”1. Secondo la teoria dello studioso freudiano Ernest Jones, infatti, si crea una sorta di identificazione per cui si sente la mancanza della persona morta e di conseguenza si presume che anche il defunto abbia nostalgia2. D’altronde unirsi alla persona amata nella morte è sempre stato l’apice del sentimento amoroso, forse perché “what one has in death one has forever”3. La ‘nostalgia del ritorno’ era infatti considerata una delle cause del vampirismo, e colpiva soprattutto i malinconici, e i soldati morti in guerra. Per secoli infatti i vampiri sono stati chiamati ‘revenenti’, proprio a sottolineare il concetto della nostalgia del ritorno.

I morti che ritornano non sono altro che i simboli di attaccamento a quei piaceri della vita dai quali è difficile separarsi. È proprio perché questo desiderio di tornare tra i vivi non possa realizzarsi che l’umanità ha sviluppato il culto dei morti: il rito funebre accompagnato da diverse usanze – quella per esempio di lasciare una moneta nella bara come obolo a Caronte – ha lo scopo di far sì che il defunto riposi in pace e non abbia più motivo di cercare qualcosa nel mondo che ha lasciato. Probabilmente anche la consuetudine di chiudere gli occhi al defunto manifesta in realtà il desiderio di privarlo della vista, in modo che non possa ritrovare la strada di casa4.

Diverse sono le cause per cui un morto è destinato a diventare ‘revenente’: il Century Dictionary di Whitney riferisce che “dead wizards, werwolves, heretics, and other outcasts become vampires, as do also the illegitimate offspring of parents themselves illegitimate, and anyone killed by a vampire”5. Riporta William Hughes che, oltre a diventare tale per il morso di un altro vampiro, era probabile che il non morto fosse “an apostate or excommunicated Christian, the victim of a murder or sudden death, or a werewolf, during his lifetime”6. I suicidi erano considerati tra i più probabili futuri vampiri, tanto che sui loro corpi si preferiva agire subito per prevenire la trasformazione: incrociare le braccia del corpo, deporre una croce sulla bara oppure seppellire il cadavere in un crocicchio erano ritenuti buoni antidoti7. Togliersi la vita era ovviamente un grave peccato per il Cristianesimo, perché significava ribellarsi al diritto divino di darci la nascita e la morte; per questo, ci ricorda Leatherdale, i suicidi venivano puniti: “their fate would be everlasting life as a vampire. The penalty for suicide would be immortality”8. Anche Barber sottolinea la diffidenza verso i morti suicidi, a cui non è concessa la sepoltura nel cimitero “in parte per il loro potenziale ritorno dalla morte e in parte perché attirano i loro cari nella tomba dopo di loro”9. Infatti la mancanza di sepoltura, sempre secondo Barber, sarebbe in se stessa motivo sufficiente perché i suicidi diventino revenant; ma un’altra spiegazione comune per la loro trasformazione è che “essi non hanno vissuto fino in fondo il tempo a loro assegnato”10.
Già da allora caratteristica del vampiro era succhiare il sangue dei vivi, ma ad essa si accompagnavano anche la connotazione di assassino – in casi in cui strangolava le vittime – o di veicolo di malattie contagiose11.
Sin dalle origini del mito, il vampiro si configura quindi come outcast, un reietto, rifiutato dalla società, che vive ai margini: anche in vita il vampiro è un diverso, un outsider.

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1 In C.Leatherdale, The Origins of Dracula. The Background to Bram stoker’s Gothic Masterpiece, Westcliff-on-Sea, Desert Island Books, 1995, p.34. Curiosities of Olden Times (1895), opera del Reverendo Baring-Gould, scrittore e folclorista, appare nelle Note di Stoker insieme all’importante trattato sulla licantropia The Book of Werewolves: Being an Account of a Terrible Superstition (1865) dello stesso autore (per le Working Notes di Stoker si veda C. Leatherdale (a cura di), Dracula Unearthed, Westcliff-on-Sea, Desert Island Books, 1998).
2 Sul rapporto tra vivi e morti si veda il saggio di E.Jones, On the Vampire, in C.Frayling, 1991.
3 E.Jones, On the Vampire, in C.Frayling, 1991, p.404
4 C. Leatherdale, 1995, p.34: “perhaps the practice of closing the eyes of the deceased originated in the desire to deprive it of sight, and the wherewithal to return home”. Osserva invece Barber: “gli occhi dei defunti vengono chiusi o coperti, forse perché anch’essi riflettono un’immagine, e possiedono così la capacità di catturare l’anima” (Barber, 1994, p.263).
5 Citato in Dudley Wright, Vampires and Vampirism, Scotland, Tynron Press, 1991, p.2
6 Marie Mulvey-Roberts (a cura di), The Handbook to Gothic Literature, London, MacMillan Press, 1998, p.242.
7 Wright ricorda anche che “it was at one time the practice in England to bury suicides at the four cross-roads” (Wright, 1991, p.12).
8 C.Leatherdale, 1993, p.28.
9 P.Barber, 1994, p.55
10 P.Barber, 1994, p.68
11 Riferisce Wright che “not all vampires, however, are, or were, suckers of blood. Some despatched their victims by inflicting upon them contagious diseases, or strangling them without drawing blood, or causing their speedy or retarded death by various other means” (Wright, 1991, p.3).

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Tratto dal saggio
Il vampiro e i suoi simboli
Viaggio da Dracula di Stoker al vampiro ultramoderno
(ISBN 979-8835249411)
di Francesca Erriu Di Tucci
Per gentile concessione di ‘Lupi Editore’

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