La Soglia Oscura
Racconti

NON ERA MAI SUCCESSO
di Simon Smeraldo

I combattimenti infuriavano attorno a Pietroburgo, dove i soldati russi dello zar Pietro il Grande cadevano a centinaia sotto le micidiali incursioni a sorpresa degli svedesi. Si metteva male per lo zar.
In città, sul ponte della Neva, due soldati di guardia chiacchieravano, tra una presa di tabacco e l’altra. Uno dei due bofonchiava, scuro in volto:
«Mi sa che stavolta ci lasciamo le penne, Andreij Ilyanovic»
«Sei pessimista, Igor Bogdanovic: che ti prende oggi?»
«Che mi prende, dici? Ma per tutti diavoli, lo sai o non lo sai che gli svedesi, là fuori, ci stanno massacrando? Manca poco e arriveranno fin qui in città a bucherellarci lo stomaco anche a noi»
«Quante ubbie, Igosa! Scommetto che il Piccolo padre zar di di tutte le Russie, concorderà con loro un trattato: non permetterà mai che prendano Pietroburgo»
«Non ne sarei tanto sicuro se fossi in te» replicò Igor Bogdanovic Vassensko. «Be’, adesso vado a fare due gocce d’acqua»
«Bada che non ti si geli, Igosa! Dopo che direbbe Marija Mikhailovna? Dovrebbe magari rivolgersi altrove»
«Ah! E dove lo trova uno come Igor Bogdanovic, Andrjusa? Percorresse pure tutte le steppe della Siberia, resterebbe a mani vuote. E anche se fossero piene le sue mani, qualcos’altro di suo non lo sarebbe di certo come con me!»
«Sei sconcio, fratellino! Il pope Mishin, al villaggio nostro, non sarebbe contento di sentirti!»
«Che il diavolo se lo porti, pure lui! Se ne sta col sedere al caldo nella sua izba e noi qui a congelarci aspettando magari una pallottola svedese!»
«Andreij Ilianovic, con una faccia spaventata, si fece il segno della croce:
«Non nominare l’Impuro, Igor Bogdanovic: porta male, lo sai!»
L’altro fece spallucce e scese il greto del fiume fino alla sponda per liberare la vescica nell’acqua. Un vento gelido spazzava le rive della Neva. Passava, in controluce sullo sfondo del tramonto incipiente, un pope che percorreva piano la prospettiva Nevskij.
Passarono alcuni minuti e del commilitone nessun segno di vita. Andreji si affacciò al parapetto, e siccome da quella posizione non lo vedeva, gridò:
«Ehi, laggiù! Igor, sei morto o stai cercando di avvelenare tutti i pesci della Neva?»
Nessuna risposta.
Impensierito Andreij decise di andare a controllare. Quando giunse nel punto in cui si trovava il suo compaesano Igor, si pentì mille volte di aver pronunciato, poco prima, quelle parole. Lo spettacolo che gli si parava dinanzi era peggio del suo peggior incubo; molto peggio.

***

Una casa, bella, ordinata, spiccava tra tutte le altre della via Nekrassova perché molto meglio tenuta e soprattutto perché non emanava quel lezzo di cipolle che da tutte le altre case filtrava perfino da porte e finestre sbarrate, appestando il quartiere. Una bella casetta, certo. Del resto il pope Sergeei Stepanovic Ilyushin se la passava bene.
Qualcuno bussò alla porta. La vecchia Natal’ya Sverdlova, la serva, andò ad aprire: nessuno. Monellacci, forse? Eppure nessuno ardiva fare certi scherzi alla casa del rispettato pope. Seccata, Natal’ya chiuse la porta, ignorando quel soffio d’aria che si era intrufolato in casa mentre lei apriva; percorse il breve e buio corridoio e rientrò in cucina, dove sulla stufa borbottava la pentola con lo stufato di montone. Un odorino!
Passarono alcuni minuti, e la bella Ludmila, la giovane figlia del pope, andò a chiedere a Natal’ya di aiutarla a farsi le trecce. Non la trovò in cucina. Passò nel corridoio e rischiò di scivolare su qualcosa di bagnato.
E’ il colmo! Pensò. Natal’ya sta proprio invecchiando: pulisce per terra con lo straccio e poi non asciuga! A rischio, qua, di romperci l’osso del collo! E poi, dov’è andata a finire? Bisognerà parlarne a mio padre.
In quella sentì una goccia caderle sul collo.
Questa poi! Adesso anche il tetto che perde! Ma se non piove!
Si decise ad andare a prendere una candela per vedere di che si trattava. Guardò su, e il suo urlo fu udito per tutta la strada e fino alla prospettiva Nevskij.

***

Svetlana Maximovna Zirkova entrò con il suo solito sussiego nella macelleria gestita da Vassilij Vladimirovic Evtushenko. La donna si dava arie da gran dama, poiché era maritata con un oscuro capufficio della sezione Affari regionali del governatorato. Nell’entrare percepì un soffio d’aria gelida che si insinuava nella macelleria dietro di lei, mentre un pope, che lei non conosceva, usciva dal negozio.
Rabbrividì pensando: che accidente di inverno è questo?
«Buongiorno, Svetlana Maximovna. In che posso servirvi?»
«Uhmm…datemi tre etti di filetto di maiale e mezzo chilo di rognone…ma che sia tutto fresco, eh?»
«Ma Svetlana Maximovna! Come può la carne di Vassilij Vladimirovic essere poco fresca? I contadini dei dintorni fanno a gara per portarmi i pezzi migliori…tutta roba di giornata, sapete? Ma con questa guerra, i prezzi…eh, i prezzi, Svetlana Maximovna…!»
«Cosa volete insinuare?» Esclamò quella, sdegnata. «Che io non mi posso permettere di comprare la vostra miserabile merce? Per chi mi prendete? Mi rifornirò da Ivan Solov’ev!» E fece per uscire dal locale.
«Ma no, Svetlana Maximovna, aspettate! Dicevo così per dire! Vedrete che vi farò un buon prezzo…come sempre!»
«Uff! Così va meglio!»
«Andrò a prendere la carne di là in magazzino, dove la tengo al fresco…vengo subito»
Ma perché, lui pensa che qui sia caldo? Pensò la matrona sbuffando fra sé e sé.
Pochi minuti dopo, quando Vassilij Vladimirovic tornò, il pavimento era diventato rosso da un capo all’altro, e i pezzi di Svetlana Maximovna erano sparsi dappertutto. La carne cadde dalle spalle del macellaio quando egli svenne.

***

Una settimana dopo
«Vedete, eccellenza, è un bel rebus…è una cosa mai vista, mai sentita. Con rispetto parlando, non so dove sbattere il capo»
«A voi piacciono i rebus, Anatolij Pavlovic?» Chiese, con un’ironia un po’ fuori luogo, il governatore.
«Ma…non, so, eccellenza…dipende. Be’, questo no di certo! In una settimana sette morti squartati non si sa come né da chi, sbudellati e mostruosamente mutilati, e tutto nel giro di pochi minuti! No che non mi piace questo rebus, eccellenza! Sembra ci sia sotto lo zampino del diavolo stesso»
«Uhmm…interessante teoria. Voi credete al diavolo, Anatolij Pavlovic?»
«Be’, ecco…così dice la Santa Chiesa, che c’è il diavolo. Poi, io non l’ho mai visto. Ma se c’è sicuramente è lui che fa queste cose, che commette questi orrori!»
«Ma via, Anatolij Pavlovic, adesso parlate come un mugiko ignorante e superstizioso: mi meraviglio di voi! In questa epoca illuminata! E poi, come dicevo, la vostra teoria può anche essere affascinante, ma ditemi: come pensereste poi di arrestare il diavolo?»
«Ma…forse non è lui…oh, io non lo so, non lo so! Perdonate, eccellenza; ma io ci sto perdendo la testa con questa faccenda!»
«Capisco. Ma, egregio Anatolij Pavlovic, voi siete il commissario capo di Pietroburgo: ritengo non siate in posizione di poter perdere la testa. Vorrei potervi compiangere: ma se non ottenete risultati, temo che la testa la perderete davvero»
Il commissario, con un gesto melodrammatico, si portò una mano al collo, e balbettò:
«Ma…la decapitazione non è più…»
«Siete davvero sconvolto, mio povero Anatolij Pavlovic. Capite, naturalmente, che non lo intendevo in senso letterale. Bene, ora andate. Vi do sette giorni per risolvere questo strano caso, diavolo o non diavolo»

***

Una settimana prima
La vecchia Natal’ya aveva introdotto un ospite in casa, e aprendo la porta dello studio l’annunciò al pope. Sergeei Stepanovic fu estremamente sorpreso dalla visita.
«Oh! Voi qui, Olga Petrovna!»
«Siete sorpreso, Sergeei Stepanovic? Eppure direi che una mia visita era nell’ordine delle cose, non credete?»
«Non saprei…ma non volete accomodarvi in salotto? Gradite un tè?»
«No, grazie. Gradirei piuttosto discutere dei nostri accordi»
«Ma…io…pensavo che avessimo già aggiustato le nostre pendenze…»
Lei scoppiò in una risata malevola.
«Eh, caro batushka…ho l’impressione che non abbiate letto attentamente il contratto»
«Ma noi…noi non abbiamo messo nulla per iscritto!»
«Devo rimproverarvi, Sergeei Stepanovic per la vostra debole memoria. Niente di scritto, avete detto? E questo cos’è?» E così dicendo gli porse un foglio che aveva tolto dalla borsetta. Lui lo scrutò attentamente e sobbalzò quando vide la sua firma in calce.
«Ma…ma questo non è possibile! Lo ricorderei!»
La donna si fece seria.
«Evidentemente la memoria vi tradisce, Sergeei Stepanovic. Nulla di che preoccuparsi: è l’età. Ma vediamo al sodo. Voi dovete ancora pagare l’ultima rata. Sì, il pagamento fatto finora va bene. Ma manca l’ultima tranche»
«Non vi capisco, Olga Petrovna»
«Vi rinfrescherò la memoria, visto che la vostra vacilla un poco. Quel giorno di parecchi anni fa…»

***

Molti anni prima:
«Ricchezze, onore, lunga vita…però…però vedo un’ombra: lunga, minacciosa. Guardatevi da essa, batushka; ma soprattutto badate al vostro cuore, perché è lì che sono custodite le sorgenti della vita».
Uscendo dalla squallida stanzetta dell’indovina si guardò intorno: non era proprio il caso che lo vedessero uscire da lì, con la carica che ricopriva. Si vergognava un po’ di essere andato a consultare una fattucchiera; ma aveva un certo affare per le mani e voleva una rassicurazione in proposito. E un po’ di magia non faceva male a nessuno, così ragionava, da vero georgiano qual era: l’Onnipotente avrebbe di certo chiuso un occhio. Si recò da un usuraio, Isaac Abramovic Gavrilov.
Quando gli espose la questione, quello si mise a ridere:
«Sarei davvero un pazzo a prestarvi quei quattrini, Sergeei Stepanovic! Non mi sembra proprio che il vostro affare possa essere redditizio, e voi non avete beni collaterali da impegnare come garanzia. Però beviamoci un bicchiere di vodka da buoni amici e non pensiamoci più, che ne dite?»
Amareggiato per il risultato della trattativa, dopo il bicchierino di consolazione offertogli dall’usuraio si avviava alla porta di casa quando da un corridoio laterale della grande, immensa casa, sbucò la moglie di Gavrilov, Olga Petrovna. Era una donna bellissima e molto più giovane del marito, una di quelle ebree da far girare la testa: occhi di giaietto, capelli corvini crespi, un collo lungo e sottile, un naso dritto e ben fatto, un corpo statuario. Il pope si fermò a salutarla:
«Ossequi, Olga Petrovna: me ne vado»
«Non avete ottenuto il prestito, eh?»
«Purtroppo no»
«Ma io penso di avere una soluzione»
«Davvero? E quale sarebbe?»
«Be’, vedete, Sergeei Stepanovic, io ho un certo ascendente su mio marito e, diciamo, potrei mettere una buona parola: intercedere per voi, insomma. E sono certa che lui accetterà la vostra proposta»
«Oh, sareste di una gentilezza infinita, Olga Petrovna. Non so come ringraziarvi!»
«Oh, mio caro batushka! Non sarete così ingenuo da pensare che in affari basti un semplice grazie, no?»
«Be’, non saprei… come potrei…»
«Ve lo dirò. Ecco, entrate qui in questo salotto. Nel corridoio anche i muri hanno orecchie».
Dopo una quindicina di minuti il pope uscì da quella casa con la testa che gli martellava e i sudori freddi. La proposta che gli aveva fatto la moglie di Gavrilov era…mio Dio, non solo blasfema, no, molto ma molto peggio! Però aveva accettato nonostante tutto: aveva bisogno di quei soldi. Che Dio avesse pietà della sua anima!

***

«Dunque, ecco il fatto: ricordate, ora?»
«Ricordo perfettamente, Olga Petrovna: ma fu un accordo verbale»
«Ed è qui che vi sbagliate: ho il documento che prova il contrario»
Il pope era confuso, e cercò di protestare blandamente:
«Ma…ma…»
«Niente ma!» Tagliò corto la donna. «O adempite all’ultima clausola del contratto o vi mando in rovina: e voi e la vostra cara figliuola non avrete nemmeno un tetto per ripararvi dal freddo assassino di Pietroburgo. Mio marito è morto e io posso fare ciò che voglio con l’obbligazione che avete firmato».

***

Sette giorni dopo
Sergeei Stepanovic, giunto a casa che era ormai buio, sprangata la porta dietro si sé, vi si appoggiò con la schiena: sudava freddo, ed era stremato dalla tensione. Si chiese perché mai avesse accettato il patto: il prezzo ora gli pareva infinitamente più alto di quanto avesse ricavato. Entrò nella sua stanza da letto accendendo una candela e sobbalzò violentemente alla vista che lo attendeva lì.
«Voi! Mi avete seguito fino qua!»
«Mi è difficile separarmi da voi, come vedete». Lui si sedette tremando sulla poltrona, mentre quella cosa di un colore indefinito non meno che della forma, si arrampicò, se proprio di questo si trattava, sul letto fissandolo da lì. Occhi? Ma si poteva parlare di occhi? Oh, non lo so. L’abietta creatura, di non più di cinquanta centimetri di lunghezza, parlava con voce umana, in tono baritonale:
«Siete stato obbediente a farvi un mio veicolo: tutto molto bene, un lavoro ordinato, ma non mi basta. Lo sapete cosa voglio».
Il vecchio pope scoppiò in singhiozzi:
«Ma lei… Dio, lei è così giovane… ed è tutto quello che ho!»
«Il patto, Sergeei Stepanovic, ricordatevi il patto». Dette queste parole la cosa fu con un balzo alla finestra, la spalancò e scomparve nel buio.

***

«Una lucertola, avete detto?» Il professor Pavel Antonovic Simionov, ordinario di scienze naturali all’università di Pietroburgo nonchè cultore (e praticante) di magia nera – sebbene le due cose non si amalgamassero troppo fra loro – era un vecchio amico del pope.
«Sì, Pavel Antonovic! E c’è il diavolo in quella lucertola o quello che è, ve lo dico io!» Sergeei Stepanovic era ridotto uno straccio. Smagrito, gli occhi allucinati, un incessante movimento del capo per guardarsi attorno…era sicuramente preda di un esaurimento, pensò il professore.
«Ma, Sergeei Stepanovic, qui da noi non esiste una lucertola di quelle dimensioni! E col diavolo incorporato, poi!»
«Ma non so cos’era. Mio Dio! Un mostro, un essere informe… 1ucertola è la cosa più simile ad essa a cui posso pensare, ma non lo so!» Si avvicinò all’amico, gli afferrò un braccio, lo strinse convulsamente mentre le parole gli uscivano dalla bocca come il lamento di un condannato a morte:
«Ascoltate, Pavel Antonovic: io lo so che voi studiate certi libri…», e qui si guardò attorno con fare circospetto, «… certi libri che la Santa nostra Chiesa non ammette, lo sapete bene. Ė una cosa che pochi sanno, perché se una simile voce giungesse alle orecchie del governatore…be’, sapete bene come andrebbe a finire. Ma di me vi potete fidare. Vi chiedo solo di controllare… voi certo avete i mezzi, le conoscenze… e tutto quel che ci vuole. Io ho bisogno di un contro-incantesimo. Quanto mi costerebbe?»
«Sergeei Stepanovic… non vi mettete in cose più grandi di voi… è pericoloso»
«Ma guardatemi, Pavel Antonovic! Vi pare che io possa continuare a vivere in questo modo?» replicò quasi singhiozzando.
Il professore sentì pietà per quel pover’uomo.
«Caro Sergeei Stepanovic… come faccio ad aiutarvi se non so nemmeno di cosa si tratta?»
Il pope gli raccontò per sommi capi la storia senza entrare in dettagli scabrosi; e soprattutto la richiesta che gli era stata fatta come pagamento ultimo.
«Capite ora? Capite, Pavel Antonovic, in che guaio mi sono cacciato, e che situazione disperata è la mia?»
«Ma voi non mi avete detto tutto, pope: ne sono certo»
«Oh, risparmiatemi, amico mio, se vi è cara la mia sanità mentale! Se vi dicessi tutto sarei perduto, in molti modi. Per pietà, non mi fate dire ciò che grida vendetta al cielo»
«Da quel che posso capire, la vostra anima è già in pericolo; non so se una vostra confessione potrebbe aggravare la situazione»
«Sì, se la mia anima non è già perduta, io lo spero, con tutto il cuore. Ma non mi importerebbe nemmeno, se potessi salvare Ludmila, la luce dei miei occhi! Perché… ecco, ve lo dico! Quel mostro vuole che io…che io…» non riuscì a finire la frase, e scoppiò a piangere.
«Capisco» commentò accigliato il professore. Poi si fece meditabondo, prendendosi il mento con la mano. Infine parlò in tono deciso:
«E sia! Lo farò perché mi fate proprio pena. Ma dovrete essere presente al rito, e procurami ciò che mi serve»
«Tutto quel che chiedete, Pavel Antonovic! Tutto quel che dite!»
Al giorno convenuto, prima della data stabilita in cui Olga Petrovna avrebbe potuto riscuotere il suo, Sergeei Stepanovic si recò a casa di Pavel Antonovic, che viveva solo. Era quasi mezzanotte. In una stanza oscurata erano stati appesi drappi neri a coprire le pareti. Grossi candelieri d’argento reggevano, in numero di sei, altrettanti ceri alti un metro e mezzo. Sul pavimento, un pentacolo riportante strani segni, racchiuso in un ampio cerchio fatto col sale.
«Siete certo di volerlo fare, Sergeei Stepanovic?»
«E che altro se no?»
«Vi avverto che non sarà per nulla piacevole»
«E cosa può essere peggio di come sto ora? Procediamo, Pavel Antonovic, vi supplico!»
Il professore, ammantato di una tunica nera di raso che lo copriva da capo a piedi, impugnando una spada, stando in piedi all’interno del cerchio protettivo recitò alcune formule dal suono obbrobrioso, blasfemo, agghiacciante, con voce cavernosa. Il pope sentì accapponarglisi la pelle.
Ed ecco si presentò un soldato, chino sulla sponda di un fiume. D’improvviso un vortice turbinoso gli fu sopra, e in un lampo durato pochi minuti, una mano lo colpì con una mannaia, lo decapitò, lo mutilò, lo sventrò. Poi, ecco, a casa dello stesso pope, la vecchia Natal’ya aprire la porta, e insinuarsi con lei nella casa un gelido soffio. Da un corridoio sbucò una persona, e il gelido soffio si unì a quella persona, entrò in lei. La mano colpì ancora e ancora, finchè non rimase un solo membro intero della vecchia; infine la stessa mano assassina ne sospese il tronco al soffitto ad un gancio a cui si appendeva a stagionare la carne salata di porco. Ed eccoci nella macelleria di Anatolij Vladimirovic, ed ecco che un uomo si intrufola nel locale, dove già un soffio gelido si era insinuato; di nuovo il connubio esecrando, e di nuovo la mano che, con lama tagliente, scatta, colpisce e smembra, lasciando un lago di sangue ovunque. La scena, in diversi luoghi e con diversi interpreti – o meglio vittime – si ripete altre quattro volte.
Poi ecco che, davanti agli occhi sgomenti del pope, i pezzi mutilati delle sette persone si ricompongono nel loro corpo, i morti si rizzano in piedi e, disponendosi davanti al circolo magico, puntano il dito. I loro corpi sono esangui, incolori, i loro sguardi sono vuoti, inespressivi, glaciali, gli occhi privi di pupille – e tuttavia lo fissano. La carne putrescente prende a disfarsi e colare dal viso percorrendo con liquido denso e mefitico il corpo. La sentenza, non espressa verbalmente, indica il colpevole: Sergeei Stepanovic. I giurati sono unanimi: il pope dovrà raggiungerli nel loro eterno luogo di dannazione. Ma in che modo? Intanto essi avanzano, morti viventi, chiudendosi lentamente a semicerchio attorno al pope, che, con gli occhi sbarrati dal terrore, indietreggia rantolando incoerentemente, e finisce per uscire senza accorgersene dal circolo protettivo, fino ad addossarsi con le spalle al muro. Pazzo di terrore, il suo fievole rantolo si trasforma in un urlo terrificante, mentre cerca vanamente con le braccia di tenere lontano coloro che fece a pezzi. Ma essi si sono fermati, e rimangono a fissarlo muti, mentre solo i loro occhi vuoti raccontano dell’abisso di indicibile abominio da cui sono strisciati fuori.
Ma Pavel Antonovic, il celebrante, non aveva ancora finito. Grosse gocce di sudore gli imperlavano la fronte, scendendo a rivoli sulle gote, sul naso, sulla bocca, il volto contorto nell’agonia di chi solca mari tenebrosi dell’anima, vaga per luoghi oscuri della psiche, precipita negli inferni del cuore e percorre desolate plaghe del pensiero. Lo spettacolo di innominabile orrore minacciava di sopraffarlo.
Con le mani protese in avanti, con formule oscure e maledette, con disperata voce di tomba, evoca, infine… lei, Olga Petrovna. Ed ella appare, all’ordine di chi in quel momento domina le oscure compagini di un mondo fuori dal mondo.
Ma… ma… è proprio lei o non quel mostro verdastro, un rettile dalla forma indefinita, che adesso squarcia con artigli affilati l’involucro corporeo della donna uscendone come dal guscio di un uovo dischiuso, da un abito logoro la cui stoffa cede e si disfà? Il corpo di Olga Petrovna si affloscia a terra come un vestito sporco di cui ci si libera allo spogliarsi, prima di coricarsi per la notte. E l’orrenda creatura, lasciato il suo nascondiglio umano, percorre strisciando, ripugnante, nauseabonda, la poca distanza che la separa da Sergeei Stepanovic, ormai fuori dal circolo protettivo. Gli balza addosso: incurante dei suoi urli inumani lo dilania, lo scarnifica, prende a divorarlo; finché, a un gesto deciso dell’officiante il rito, una fiammata sprizza fuori, scaturisce dai due corpi avvinghiati in un’orgia di sangue, e s’innalza altissima fra le strida tormentose di quegli esseri catturati dall’incubo della catarsi.
Il mago-professore cade in deliquio: è tutto troppo anche per un navigato adepto alla magia nera come lui.
Quando si riprende è disteso supino sul pavimento. La memoria di quel che è stato gli torna pian piano alla mente. Mettendo a fuoco con gli occhi dapprima le punte delle sue scarpe rivolte all’insù, lo sguardo angosciato le scavalca, scrutando tremebondo lo scenario dell’atto magico, scandagliando ogni cantuccio della stanza.
Non c’è nulla da vedere se non due mucchietti di cenere, proprio ai suoi piedi.
Fuori è già giorno.