La Soglia Oscura
Racconti

DORMIRE, SOGNARE…FORSE VIVERE
di Simon Smeraldo

Cavalcava, cavalcava sir Galahad. Con i guanti sempre più consunti, il mantello sempre più logoro, la cotta di maglia sempre più pesante, il cuore sempre più stanco.
Gli era sembrato che quel viaggio di ritorno dalla Terra Santa lo avesse messo ancor più alla prova di tutte le battaglie, i massacri, le marce forzate, i soprusi e le ingiustizie che aveva visto nel corso della crociata.
Ma ormai tutto ciò era acqua passata. Ed ora tornare alla vita vera, quella vita che gli era appartenuta un giorno lontano gli sembrava ancora più difficile, un cammino ancora più impervio.
Sapeva di non essere più quello che era partito tanti anni prima in un bel giorno di primavera, baldanzoso e sicuro di sé, sentendosi un immortale, un prescelto, un privilegiato.
Lady Roxanne, sua moglie, alla sua partenza lo aveva solo guardato senza parlare; raccogliendosi poi nel suo dolore, sapendo che in un mondo di uomini la sua opinione di donna contava assai poco se non niente. Che cosa sarebbe cambiato se lei gli avesse detto ciò che già sapeva? E cioè che quella impresa gloriosa era fallimentare da ogni punto di vista; e che se non le avesse portato via per sempre il suo uomo in battaglia glie lo avrebbe riconsegnato mutilato, nello spirito se non nel corpo? A nulla, non sarebbe servito a nulla, perché lui, infervorato come tutti i crociati, voleva – anzi desiderava con tutto se stesso – una missione da svolgere, un causa per cui combattere. E così doveva essere, si era detta lei: solo così, davanti alla cruda realtà, lui avrebbe capito che la vita non è correre vanamente dietro a sogni di gloria effimeri come una cortina di fumo, fasulli come le promesse grandiose che occultavano l’inutile senso pompato artificialmente nella spacconata delle crociate.
E così era stato. Gagliardo quando era partito, Galahad era adesso un uomo sconfitto, costretto ad abitare un angusto spazio del cuore, visitato da incubi e visioni notturne, spettri dell’anima, specchi anneriti del destino.
Finalmente arrivò in vista del suo castello. Il ponte levatoio fu prontamente abbassato quando le guardie, dopo averlo scrutato da lontano, lo riconobbero.
Nel grigiore di quel mattino di novembre la sua cavalcatura varcò il portone rianimandosi un po’ nel fiutare l’odore dell’avena proveniente dalle stalle. Galahad guardò verso l’alto, ai finestroni istoriati dell’edificio centrale, da cui si era immaginato molte volte di veder spuntare, al suo ritorno, il bellissimo volto di sua moglie coronato da quella sua magnifica capigliatura rossa. Riassaporare la vista del suo sorriso e gettarsi fra le sue braccia era la motivazione che lo aveva sostenuto in tutti quegli anni, da quando cioè si era reso conto che di una vuota gloria non se ne faceva proprio nulla senza l’amore.
Lei non si affacciò. I finestroni, che contrariamente alle sue aspettative non erano pavesati a festa, rimasero chiusi, con l’inesorabilità di una sentenza di morte. Smontò da cavallo con una furia che non capiva da dove venisse; si slanciò su per le scale anguste con il cuore in gola, si precipitò nella grande stanza da letto, dove aveva consumato con la sua sposa amori ardenti e condiviso sogni lontani.
Là dove i corpi avevano trionfato insieme ai cuori non restava più niente di quel calore. Solo una figura immobile, distesa, ormai svuotata dei palpiti e dei tremori dell’antica emozione.
Galahad, il cavaliere impavido, il temerario che si slanciava a testa bassa in ogni mischia, che non arretrava dinanzi a nulla, ora era lì, in ginocchio accanto al letto convertito in catafalco, a sciogliersi in lacrime che inondavano il mondo, a stringere convulsamente la gelida mano che un tempo gli aveva passato le dita tra i capelli, che si era avvinghiata alla sua nel culmine della passione, che aveva indugiato amorosamente sulla sua guancia sfiorandogli poi le labbra con tocco delicato.
La seppellirono all’alba, nella fredda bruma esalata rancorosamente da una terra scura, ombrosa, ritrosa, restia al sacrificio d’amore dell’accoglienza di quella creatura.
Galahad, dopo aver vegliato tra i singhiozzi la sua sposa per tutta la notte, non volle dormire nel letto che aveva accolto le membra di due innamorati, spalancandosi come un portale aperto sul paradiso.
Si buttò per terra come un cane; e tale si sentiva, come se lo avessero caricato di bastonate fino a fracassargli le ossa e a frantumargli lo spirito.
Lei venne a visitarlo in sogno; e sorridendogli senza parlare lo prese per mano e lo condusse nel frutteto invaso di luce, oltrepassata l’antica volta di pietra dell’abbazia. Più in là i papaveri punteggiavano di rosso il giallo del campo di grano del priore. Giunsero sulla riva del fiume, sotto l’ombra del salice da sempre bramoso di congiungersi all’acqua. Lei fissò su di lui uno sguardo intenso e carico di promesse velate; tutto l’amore che lui aveva conosciuto splendeva in quegli occhi, in quel sorriso. Poi, senza mai staccare lo sguardo dagli occhi di lui, si spogliò lentamente; entrò nel fiume e lo trasse a sé nell’acqua, avvolgendolo nell’abbraccio più caldo che mai gli avesse concesso.
E Roxanne mutò sembianze; divenne ninfa d’amore, dea madre, lucente raggio di luna, morbido velo scostato su mondi mai visti. Infine, ritornata amante di sempre, posò le sue incandescenti labbra sulle sue, per poi scomparire sott’acqua insieme a lui.
Lo seppellirono all’alba, mentre un sole color di fuoco saliva ad avvampare l’orizzonte acceso di vita, esultante di colori; e la verde terra si schiudeva teneramente per accoglierlo.