LA FESTA DELLE FATE
di Anna Maria Grattarola
Era un tardo pomeriggio d’estate dell’anno in cui dovevo compiere 13 anni. Ricordo bene il caldo afoso di quelle giornate che andava poi a sbollire lentamente lasciando spazio alla tanto attesa frescura serale.
Mi trovavo nel giardino della casa estiva, in un paesino sugli Appennini piemontesi, sulla sdraio a strisce colorate, sotto il pergolato di rose rampicanti. Forse dopo cena sarebbe venuto a trovarmi un amico del paese e avremmo giocato a carte o a un gioco da tavolo, o avremmo semplicemente chiacchierato. Erano tempi così, ci divertivamo con poco o niente e a volte penso che non avrei mai voluto essere un bambino nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale perché credo che avrei perso la mia capacità di sognare…ed è così che ricordo quest’episodio: come un sogno.
Ero in giardino, dicevo, le cicale iniziavano a cantare, mentre il sole andava a calare lentamente e con una certa indolenza. Ad un tratto fui avvolto da un profumo che conoscevo bene proveniente dalla cucina e che giungeva fino in giardino passando per le finestre spalancate.
“La mamma sta preparando la peperonata” pensai con una certa gioia, dato che è da sempre uno dei miei piatti preferiti.
Il mio cane Dino iniziò ad abbaiare, anzi ad ululare e mi sentii chiamare da mia madre. Era affacciata alla finestra e mi stava dicendo:
“Roberto! Non dirmi che anche oggi ti sei dimenticato di far uscire Dino”.
“Sì, mamma, scusa” risposi, realizzando che la mamma mi stava chiamando usando il mio nome intero e non “Roby” perché era un po’arrabbiata, visto che il povero cagnolone non usciva da casa e giardino dal giorno prima.
Evidentemente accaldata per i fornelli, la mamma si scostò una ciocca di capelli dalla fronte e mi guardò con dolcezza, allora, dicendomi:
“Portalo, poverino, anche lui ha diritto a uscire un po’ e approfittane per portare a casa un po’ d’acqua fresca dalla fonte!”.
“Va bene, mamma” risposi facendo una carezza a Dino, che guardava prima me e poi mia madre, con la lingua penzoloni. Gli misi il guinzaglio e mi avviai verso il cancello del giardino.
“Vieni, Dino” gli dissi, mentre scodinzolava e mi leccava le dita delle mani.
Lo guardai: come stava crescendo in fretta e che bello diventava ogni giorno di più! C’era un’enorme differenza rispetto al cucciolo magrissimo e dallo sguardo triste che appena sei mesi prima mi fissava mortificato dalla gabbia del canile torinese dove l’avevamo preso.
Ora Dino era diventato il mio migliore amico perché nessuno mi avrebbe voluto così bene e mi avrebbe protetto a costo della vita come lui. Io avrei fatto lo stesso perché anch’io gli volevo un bene dell’anima, era il mio compagno preferito di giochi e di studio e il più fedele degli amici, però dovevo fare più attenzione alle sue giustissime esigenze di uscite, soprattutto ora che i miei mi avevano affidato il compito di portarvelo.
Ormai eravamo usciti dal cancello, in una mano avevo il guinzaglio e nell’altra una tanica da riempire con la freschissima acqua che sgorgava direttamente dalle montagne. Era così buona e fresca che ci rifornivamo lì, piuttosto che dal commestibile del paese. Quella sera la fonte era stranamente deserta, forse perché a quell’ora la gente stava cenando, così mi misi a riempire subito la tanica, ma fui presto interrotto da una specie di scampanellio seguito da una vocina femminile che cantava:
“Roberto, Robertino
viene alla fonte
con il suo cagnolino.
Non avrebbe una moneta
per la povera signora Greta?”
Era una vecchina con un abito scuro, dalla pelle così fragile e tirata che pareva della velina, gli occhi mi fissavano grigi e penetranti come aghi. Frugando nelle tasche trovai una moneta che le porsi e lei recitò:
“Bravo Roberto, Robertino,
meriteresti certo un regalo divino
per te e il tuo bel cagnolino.
Ma una fata dell’acqua sono io,
in realtà non son Dio”
Detto questo, la vecchietta si trasformò sotto i miei occhi in una bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi che mi guardava con due occhi mandorlati di un azzurro chiaro come il più puro dei mari.
Ero proprio meravigliato perché i miei nonni mi avevano raccontato tante storie sulle fate degli Appennini piemontesi, ma non mi ero veramente mai convinto del tutto della loro veridicità.
“Una fata! Ma allora esistono!” esclamai, quindi, d’istinto.
“Sì” – rispose semplicemente lei – “mi chiamo Eudora.
Anche il suo abbigliamento non avrebbe mai tradito la sua identità, né le fattezze, per quanto eccezionalmente belle e delicate, così le chiesi:
“Niente cappello a punta e bacchetta magica?” azzardai quindi.
Eudora scoppiò in una risatina così fresca da ricordare il canto di un ruscello che gorgoglia in mezzo a un bosco. In quell’attimo ebbi la strana sensazione che persino gli alberi sulla collina lì dietro, così come l’acqua della fonte, ridessero con lei.
“In realtà, le fate più anziane si vestono spesso così” – rispose – Noi di ultima generazione, magari in certe occasioni, per esempio alle feste, ma non così di frequente”.
“Alle feste?” – chiesi stupito, pensando a come dovevano essere le feste delle fate.
Eudora sembrò leggermi nel pensiero e mi spiegò:
“Le feste del paese delle fate sono diverse dalle vostre. Stasera, a proposito, vado a una di queste” e dopo un attimo aggiunse arrossendo vagamente: “Ti va di venire?”.
“Certo” le risposi arrossendo e in un fiato, volendo rincuorarla sul fatto che ero incredibilmente felice dell’invito, che non ne dubitasse nemmeno un secondo.
Eudora mi rivolse allora un grande sorriso dai denti bianchissimi e brillanti come raggi di luna, poi fece una graziosa piroetta, dopodiché ci ritrovammo tutti e tre in un tunnel coloratissimo, che mi ricordò vagamente quelli di Natale in giostra. Poco dopo atterrammo, se così si può dire, sulla cima di una collina che a valle ospitava un paesino dalle casette di forma conica dipinte con le più aggraziate tinte pastello.
“Benvenuti a Nemerei!” disse Eudora.
Dino scodinzolava e abbaiava allegramente, mentre io risposi:
“Grazie…che meraviglia! Ma tutte le fate vivono qui?” chiesi.
“No, in realtà è uno dei nostri tanti luoghi” rispose Eudora dolcemente.
Dino abbaiò di nuovo ed Eudora disse:
“Oh, che sbadata” – prese un pochino di polvere colorata dalla sua borsetta e gliela soffiò sul muso.
“Grazie” rispose Dino.
“Dino…ora parli!” – esclamai, realizzando quindi che anche la famosa polvere fatata esisteva per davvero.
“Sì, Roby” – mi rispose – “e anche tu sei il mio migliore amico”.
Ci abbracciamo teneramente e poco dopo fummo a valle tutti a tre, davanti all’ingresso del paesino, costituito da un enorme portone verde scuro presieduto da un araldo che, munito di un elegante pennino, segnò la presenza mia e di Dino su un voluminoso registro per poi spalancare magicamente il portone e farci entrare.
Eudora indicò un castello scintillante su un’altura e disse:
“Andiamo, presto, i festeggiamenti sono già iniziati! La principessa Elijin compie gli anni stasera! Sono tutti in festa per lei”.
Una volta giunti nel castello, fummo accolti con molta gentilezza da tante fate e fati, ma mi resi presto conto che c’era anche chi mi guardava in modo preoccupato, se non sospettoso. Mi ero anche accorto che alcuni invitati, appena mi vedevano, cominciavano a parlare a bassa voce fra di loro.
Questi comportamenti mi mettevano a disagio, ma decisi comunque di far finta di niente e di dedicarmi al rinfresco, che Eudora stava iniziando allegramente a illustrarmi. Dietro suo consiglio, , partii dai pasticcini di petali di rose ripieni di una crema deliziosa a base di panna, fiori e frutti di bosco, che accompagnai con il succo di more selvatiche e ginepro.
Ad un certo punto, un fato alto e dai capelli azzurri si avvicinò e dopo avermi squadrato dalla testa ai piedi si rivolse a me con queste parole:
“Suppongo che tu sia un umano”.
“Sì” gli risposi semplicemente.
“Gli umani non sono i benvenuti qui” aggiunse – e mentre parlava si era creato il silenzio attorno, interrotto solo da brevi bisbigli – “Sei pregato di andartene!” concluse.
Eudora intervenne subito dicendo:
“No, Alin! Roby è con me, insieme al fedele Dino, per partecipare alla festa!”.
“Sai che ciò non è bene e mi stupisco che il saggio Brifus vi abbia permesso di entrare a Nemerei “aggiunse Alin.
Sentivo il dovere di difendermi e di prendere anche una posizione per Eudora e per Dino, così trovai queste parole:
“Non farò nulla di male, sono così felice di esser qui”.
Dino aggiunse, abbaiando con il tono di chi ha ragione:
“È il mio migliore amico, lo conosco bene e vi garantisco che non farebbe male a una mosca, figuriamoci alle fate o ai fati!”.
Alin, innervosito, colse una mela da un cesto e me la scagliò addosso, mancandomi per poco.
Innervosito per quel gesto maleducato e inatteso, mi sentii pronto a rispondere allo sgarbo; un verso bestiale e spaventoso mi costrinse però a fermarmi. Tutti si guardavano intorno spaventati chiedendosi cosa fosse e a mia volta guardai Eudora e Dino, ma nessuno riusciva a dare una risposta.
Da uno, i grugniti crebbero e divennero tanti e poi tantissimi, finchè non si udì una voce molto profonda e rauca pronunciare le seguenti parole:
“Laggiù ci sono i Mostri, la Rocca è casa loro. Se non li sfameremo, pian piano saliranno…e ci mangeranno”.
Quella vecchia filastrocca non mi era affatto nuova e mi evocò una paura infantile, frutto di certe storie che mi raccontavano i miei nonni sulla presunta esistenza di esseri mostruosi a metà strada fra i cinghiali e gli uomini…
“Gli Ungumani!” – urlò un fato con il terrore negli occhi – “Proteggiamo la principessa, presto!”
“Vi avevo avvertiti” -intervenne Alin – “sono stati i pensieri malvagi che quest’intruso umano ha nutrito nei miei riguardi, ad averli evocati. Fuggite!” e, detto ciò, sguainò la spada e si avventò sui mostri.
Molti di noi si armarono alla meglio e qualcuno cercò di intervenire con la magia, ma chi riuscì veramente a metterli in fuga fu Eudora, perché grazie a un potente incantesimo d’acqua creò un’onda gigantesca che prontamente li travolse e li portò via.
Io, Dino ed Eudora fummo anche ricevuti dalla principessa Elijin con tanto onore ed ella ci spiegò che l’invidioso Alin si era messo d’accordo con gli Ungumani in modo che creassero scompiglio durante la festa perché in realtà tramava contro di lei. Non li avevo creati io come voleva far credere lui subdolamente.
Il malvagio fato fu quindi prontamente bandito dal paese, con il veto di tornarvi, mentre noi fummo invitati a soggiornare qualche giorno a palazzo.
Sapendo che il ritorno al mio mondo era imminente, una sera chiesi a Eudora se l’avrei mai rivista e lei, dopo un attimo di riflessione, mi rispose:
“Sì, caro Roby, un giorno ci rivedremo” – poi mi diede un bacio sulla guancia e accarezzò affettuosamente Dino.
Poco dopo eravamo nel tunnel magico e quindi alla fonte dell’acqua nel paese sugli Appennini piemontesi dove avevo incontrato la fata della mia vita.
Tutto era rimasto come prima, compresa la tanica dell’acqua, che era lì, vicina alla fonte, così capii che alcuni giorni nel paese fatato di Nemerei erano corrisposti a pochi minuti nel mondo degli umani.
Mi girai verso Dino, sentendomi osservato dai suoi grandi occhioni lucidi che brillavano di grande affetto e comprensione.
“Andiamo, Dino” gli dissi.
E così ci dirigemmo verso casa, sperando di rivedere presto Eudora e il paese delle fate, che ci mancavano già così tanto.


