La Soglia Oscura
Racconti

QUALCOSA C’ERA, DA SCOPRIRE
di Simon Smeraldo

Gustav Meyrink e Gustav Mahler erano gli unici passeggeri della diligenza che da Frankfurt am Main si dirigeva alla volta di Heidelberg.
Correva l’anno 1860, e i due uomini erano nel fiore degli anni. Combinazione, erano nati nello stesso giorno, nello stesso anno, e persino alla stessa ora: 6 Maggio 1830, alle sei del mattino. Essi però non potevano saperlo, poiché non si conoscevano, ed erano diversi come il giorno lo è dalla notte.
Mahler, agiato commerciante di tessuti, era conosciuto per il suo gusto e per l’abilità nell’accontentare anche il più esigente dei suoi danarosi clienti, nonché per la sua onestà e avvedutezza negli affari; Meyrink, invece, avvocatuccio di poco conto, era un artista frustrato, che avrebbe desiderato esprimere i suoi vasti panorami interiori attraverso la penna e il pennello; e invece aveva dovuto chinare il capo dinanzi al volere del padre, ricco borghese, che lo aveva voluto avviare a tutti i costi alla professione legale.
Ora i due sedevano l’uno di fronte all’altro. Dopo essersi scambiati poche frasi di circostanza si erano rinchiusi nei propri pensieri, essendo entrambi uomini di poche parole. Mahler rivedeva mentalmente il programma da attuare una volta giunto ad Heidelberg, dove si proponeva di aprire una succursale del suo negozio di stoffe. Meyrink era annoiato al fastidioso pensiero delle commissioni affidategli dal suo principale, il titolare del rinomato studio legale di Francoforte Reinhard Bucherwaltz & associati: solo un’altra faccenda di scartoffie, cavilli, rivendicazioni eccetera eccetera.
La sua mente iniziò a vagare senza meta, immaginando scene bucoliche popolate da visi di fanciulle sconosciute; una delle quali, forse, era quella che il destino gli aveva riservato in moglie, pur senza conoscerla ancora. Ma di lei, di quel volto mai visto che gli sembrava già di intravedere, fantasticava senza posa. Mahler, d’altronde, che era già accasato, sposatosi con un matrimonio di interesse a una donna più anziana di lui ma molto più ricca, non aveva motivo di intraprendere voli pindarici intessuti di romanticherie; il pensiero della moglie, anzi, lo infastidiva addirittura. Aveva come costretto se stesso a limitare i suoi interessi nella vita agli affari dopo una devastante delusione d’amore nella prima giovinezza.
La strada costeggiava Il Reno, che placido scorreva con le sue ampie curve e le dolci colline che delimitavano l’orizzonte sull’altra riva, tra vigneti, antichi borghi e di tanto in tanto un castello: assoluta bellezza, pensò Meyrink. Come avrebbe voluto dipingerla!
Superata Manheim si trovarono alla confluenza del Reno con il Neckar. Ancora poche leghe e sarebbero arrivati. Purtroppo c’era stato un problema con il cambio dei cavalli ed era più tardi del previsto. La mite serata primaverile di Maggio stava rapidamente cedendo il posto a un crepuscolo intessuto di mille colori, riflessi nelle sornione acque del fiume, meravigliato, come ogni sera di essere partecipe e complice di tale spettacolo.
Scese la notte, rischiarata da una luna piena biancheggiante su ogni cosa. Le ombre si stagliavano nettamente sul terreno, come se ogni essere vivente e inanimato si trovasse messo di fronte alla sua parte più oscura, per riconoscerla, abbracciarla ed esservi riunito, come nel mito raccontato da Platone.
Il mistero celebrato dalla sovrana dei cieli si rinnovava, insinuando nell’animo una strana, melanconica dolcezza, e al contempo quella leggera euforia che percorre la spina dorsale di ogni essere umano quando si trova più vicino alla sua vera natura, proiettata verso l’alto con la mediazione dall’ipnotico magnetismo del saggio e materno astro lunare.
Ma d’improvviso…un’immagine danzante, fuggevole e leggiadra, biancovestita, fra gli alberi.
“Oh! Ma cos’è quella? Guardate, guardate! L’avete vista anche voi?” esclamò sconvolto Mahler, sbiancando di colpo come se avesse visto un fantasma.
“Visto? Visto cosa?” Rispose Meyrink emergendo a stento dalle sue fantasticherie.
“Una donna…sì, una donna! Proprio là tra gli alberi! Era…era…a non più di venti metri da noi, e danzava…cioè correva…oh, non lo so cosa! Alla stessa velocità della carrozza! Ma ora non la vedo più”
“Impossibile!”
“Ah! Eccola di nuovo! Guardate, guardate!”
Adesso anche Meyrink la vedeva:
“Oh mio Dio! Ma è…è…uno spettro!”
“Dio ci salvi! Annuncerà sventura? Aiutaci Dio!”
La persero di vista per un attimo. La carrozza si arrestò di colpo mentre i cavalli imbizzarriti nitrivano terrorizzati. Mahler era fuori di sé dallo spavento, Meyrink aveva forse più sangue freddo ma anch’egli era attanagliato dalla paura. Gridò:
“Cocchiere, cocchiere! Che succede?”
Nessuna risposta.
Tutto taceva.
I cavalli – anche loro avevano smesso di nitrire.

Attimi – un’eternità.

Scene mai vissute percorrono le anguste viuzze della mente di Mahler; sfilate di grandiosi personaggi, immersi in forme misteriose, affollano gli spaziosi viali di quella di Meyrink.
In quel lungo, lunghissimo istante tutto è possibile: persino riconciliarsi con quella parte sconosciuta di sé attraverso l’improvviso contatto con l’infinito, con il mondo ignoto di là dal mondo. Un mondo fremente di pulsanti verità, animato da paesaggi mai visti né concepiti, affollato di figure umane o semi-umane. Nulla è più lo stesso dopo.
Scendono dalla carrozza tremanti, ma la curiosità prevale sulla paura, poiché, lo sentono entrambi, la vita li ha chiamati a una nuova fase dell’essere: ad uscire dal guscio di lumaca che li aveva fino ad allora avvolti in un’appiccicosa incoscienza, un sonno ad occhi aperti popolato da numeri, carte, monete, strade anonime, visi indifferenti, scene incolori, il tutto centrifugato in uno stillicidio di giorni inconsapevoli. Qualcosa li unisce. Il timore? Forse: ma no, è qualcosa di più. Si scoprono compagni di viaggio non più solo per la tratta Frankfurt am Main – Heidelberg: un viaggio che arriva molto più in là.
A cassetta, nessuno. E il cocchiere? I cavalli fermi, immoti, indifferenti, sopraffatti da una calma innaturale che li riveste come fossero di cera. I due si scambiano uno sguardo fra il terrorizzato e l’intrigato: prevale la seconda modalità, senz’altro più proficua ai fini di un’indagine, una scoperta, una possibile comprensione dell’accaduto, perché una corrente di cui non sanno dar conto percorre adesso le vene.
Lei è là, fra gli alberi. Li fissa, e i suoi occhi scolpiscono voragini nell’animo dei due uomini, mentre lo sguardo dei due compagni di viaggio attraversa la sua figura incorporea, per andare a posarsi su raggi di luna proclamanti la bellezza dell’eterno momento: il divino folleggiare di chi è e non è, proprio come lei.
Ed ecco che corre via, rapida e leggera. I due uomini sono trasportati da una forza, un impeto, a cui non sanno resistere, di cui non sanno dar conto: corrono dietro a lei, e basta. Più nulla importa ormai se non andare alla radice del mistero che ciascuno dei due sente appartenergli intimamente, come quelle braccia che lo cullavano quando erano in fasce. Corrono e corrono, a perdifiato, come due ragazzi, incuranti dei rami che sferzano il corpo, della notte che li avvolge, come un canto straniero di cui non comprendono le parole; ma il senso sì, quello non sfugge loro. Ed è il senso di tutto, la loro canzone.
Lei si è fermata in una radura: alza le braccia al cielo, come ad abbracciare la luna, immensa onnipresente sorella, madre, amante. In quel gesto sembra voler raccogliere tutte le speranze dimenticate dei due uomini: tutte le aspirazioni frustrate, gli entusiasmi svaniti, le gioie sopite. La loro natura, insomma, occultata e ovattata da notti insonni, crapule vane, bisticci insignificanti; la loro vita dispersa come acqua che inutilmente scorre verso un oceano sempre troppo lontano. E poi, lentamente, lei abbassa le braccia e le spalanca verso di loro, come ad accogliere i due uomini nel più tenero, sensuale, materno, promettente, il più appassionato degli abbracci.
Essi, trepidanti, la riconoscono loro amante immortale, sposa promessa da sempre, sogno d’amore di una vita oltre la vita e prima di ogni vita.
“Lorraine!” Esclama Mahler, d’un tratto riconoscendo il suo amore perduto di gioventù.
“Rhodine!” Grida Meyrink, vedendo davanti a sé l’immagine di quel sogno d’amore ideale di cui aveva sempre fantasticato, e a cui aveva già dato un nome, un volto.
Li ritrovarono la mattina dopo, distesi l’uno accanto all’altro, sul volto la vaga traccia di un sorriso.
Ma loro non erano lì.