DRAGAN
di Simona Semino
Coven Protegit Stipula
— Ispirato a una storia vera —
Croazia, anni ’90.
La luna filtrava tra i rami secchi di Velo Selo, un villaggio dimenticato dagli uomini ma mai dagli spiriti, i malic (piccolo omino fastidioso), maslenica e i zvoncari.
Le case portavano ancora i segni della guerra, ma tra le crepe delle mura si nascondeva qualcosa di peggiore, qualcosa che nemmeno le bombe avevano avuto il coraggio di svegliare.
I cugini di Paolo non erano famosi per la simpatia, ma per altre peculiarità, oscure e sussurrate.
In particolare uno: Dragan.
Al suo passaggio, anche i cani smettevano di abbaiare.
La nonna di Paolo aveva un solo imperativo per i bambini:
“Non andate mai nella parte alta del parco. Lì vivono le Zgorince.”
Le Zgorince erano streghe nere, donne consumate dalla maledizione, esperte di incantesimi oscuri e legate alla terra, alle ossa e al sangue.
Si diceva che potessero uscire dal proprio corpo e infilarsi nelle case sotto forma di mosconi grossi e pelosi.
E se uno di quei mostri ti entrava in casa… eri finito.
La maledizione ti si appiccicava addosso e non ti lasciava mai più.
Una sera, la nonna uccise uno di quei mosconi con uno schiocco secco.
Il giorno dopo, giunse la notizia: una Zgorinča era morta nella notte, all’improvviso.
Nessuno commentò. Ma tutti capirono.
Una sera d’estate, Paolo, Marco e Fabio, ancora bambini, stavano nel piccolo parco del paese. Figurine dei calciatori, risate, chiacchiere, zanzare e Coca-Cola calda.
Finché non arrivò il silenzio.
Quello vero. Quello che non è assenza di rumore, ma l’avvertimento di qualcosa che si muove tra i mondi.
“C’è qualcosa…”
“Lo sentite anche voi?”
I tre si guardarono. Poi guardarono nel buio, verso quella parte alta del parco dove non dovevano mai andare.
E lì… accadde.
A pochi metri da loro, fluttuanti nel nulla, comparvero due sfere rosse, all’altezza degli occhi di un uomo. O almeno così sembravano.
In realtà erano occhi veri, occhi infuocati.
Appartenevano a un lupo enorme, gigantesco, fuori taglia, con zampe larghe come padelle, fauci aperte e uno sguardo che trapassava la carne.
Non era una bestia qualsiasi.
Non era nemmeno solo fame.
Era come se li conoscesse. Come se stesse lì per loro.
Presi dal panico, iniziarono a urlare, correre, bussare.
La porta più vicina era quella del signor Marchetto, che si affacciò in ciabatte, strizzando gli occhi:
“Che succede, ragazzi?”
“Ci faccia entrare! C’è un lupo! Un lupo enorme!”
Il Marchetto fece appena in tempo a guardare verso l’ombra. Poi alzò un sopracciglio e disse con una tranquillità che gelò il sangue:
“Ah… ma è solo Dragan.
Dai Dragan, vai a casa.”
E fu in quel momento che la bestia si fermò.
Fece un passo, poi un altro.
Il suo corpo cominciò a rompersi nel silenzio: le zampe si piegarono, le ossa scricchiolarono, la pelliccia si ritrasse come cenere aspirata nel vento…
E davanti agli occhi dei tre ragazzini, il lupo divenne uomo.
Dragan.
Nudo, madido di sudore, come se nulla fosse, si voltò e sparì nell’ombra della strada, mentre il suo respiro animalesco si spegneva come una candela al vento.
Da allora nessuno ne parlò più.
Nemmeno Paolo.
Nemmeno Marco.
Nemmeno Fabio.
Ma da quel giorno, ogni volta che sentivano un ululato, si guardavano negli occhi e sentivano il sangue ghiacciarsi.
Perché quella storia fa paura non per come è scritta…
Ma per un dettaglio che fa tremare le mani ancora oggi:
È vera.
Ma non è finita.
Perché il sangue non mente.
E il sangue di Dragan era sangue di suo padre: Sinisa.
Correva la fine degli anni ’40.
La nonna di Paolo, Mirjana, era una ragazzina e quel giorno stava portando il pranzo al padre e al fratello che lavoravano nei campi. Ogni appezzamento era diviso da muri di pietra a secco.
Accanto a uno di questi muri, c’era Sinisa, intento a sistemare qualcosa. Quando vide la piccola, le fece un cenno con la mano.
“Vuoi vedere una cosa?”
“Sì…”
“Vedi quel buco lì nel muro? Ora ci passo attraverso e vado dall’altra parte.”
“Ma è impossibile!” rise lei. “È piccolo come un’arancia!”
Il foro nel muro era largo sette centimetri. Forse otto.
Neanche il tempo di finire la frase, che Sinisa si trasformò.
Il suo corpo diventò fumo nero, denso e oleoso, e scivolò nel foro come fosse liquido, ricomponendosi dall’altra parte, identico a prima.
Solo che ora sorrideva. Un sorriso che non aveva nulla di umano.
“Hai visto?” disse.
E se ne andò. Così.
Lasciandola lì, col cestino in mano, e il cuore che batteva come un tamburo di guerra.
Quel giorno, nessuno pranzò.
Ora chiediti: quanti altri camminano tra noi… con occhi umani e sangue maledetto?
Quanti mutaforma ci sfiorano ogni giorno, mimetizzati dietro volti comuni?
E soprattutto:
la prossima volta che senti due occhi rossi nel buio…
… sei sicuro che siano davvero occhi?


