TUTTE LE PUBBLICITÀ SONO SUBLIMINALI 12
di Gianfranco Galliano
Conclusione
Infine, passiamo a ciò che occorre guardare in un’immagine pubblicitaria, non senza precisare che prima di tutto occorre darne una precisa descrizione (di solito a partire dalla parte superiore sinistra) per evitare di dimenticare qualcosa nell’indagine.
1) Associazione libera di idee a partire dall’immagine: con le sue suggestioni, può tornare utile alla fine dell’indagine
2) Rapporto fra testo e immagine, staccando quest’ultima dall’insieme didascalico (slogan ecc.) che l’accompagna per evitare di leggere il testo come naturalmente collegato all’immagine, quando invece i creativi lo hanno studiato a tavolino spesso separatamente dall’apparato iconico
3) Collocazione delle immagini nello spazio (primo, secondo piano ecc.), tenendo conto che qualora si trovino sullo sfondo possono essere più importanti di quelle in primo piano a livello di persuasione inconscia (uno shampoo antiforfora pubblicizzato da Pirlo mostra in lontananza i calciatori della squadra avversaria, in maglia bianca come la forfora, che si mettono le mani fra i capelli, disperati per aver subito un goal dal campione)
4) Le frecce, ovvero tutte le indicazioni geometriche nascoste che inducono lo sguardo a concentrarsi senza che il fruitore ne abbia coscienza sul prodotto/nome azienda/logo propagandato (la réclame della palestra di fitness ne è il festival, ma esse si trovano anche in quella della crema anticellulite, delle ciabatte e in “Go!”, mentre in “I want you” il dito, data la sua evidenza, non è da considerarsi tale).
5) La frammentazione, la collocazione o la posizione del/dei corpo/corpi (pubblicità della crema contro la cellulite, “Go!” e della palestra di fitness); un caso particolare di frammentazione è quello che invita tacitamente il consumatore a collocare il proprio volto al posto di un altro opportunamente eliminato (per esempio, nella pubblicità della ditta di malte o ancora in quella della crema contro la cellulite)
6) L’uso dei colori, in particolare di quelli socialmente elementari (il rosa e l’azzurro nella réclame delle scarpe per bambine, ad esempio, così come il bianco per la purezza, il rosso per la passione, i capelli biondi per l’angelicità ecc.): il loro ripetersi fra due o più oggetti/corpi suggerisce transitività fra di essi, che in alcuni casi può arrivare fino a far scattare un meccanismo identificativo fra azienda e consumatore
7) Eventuale suddivisione (simmetrica o asimmetrica) in due o più parti della pagina (nella pubblicità delle ciabatte, per esempio, essa ha una funzione dinamica)
8) Eventuale testimonial celebre: si ricordi che egli non invita soltanto il consumatore a identificarsi in lui, ma anche a fargli pensare che a testimonial famoso corrisponda prodotto famoso, mentre spesso è vero esattamente il contrario: il prodotto diventa di “qualità” perché lo è il testimonial che lo pubblicizza
9) Eventuali analogie fra figurativo e astratto, ovvero come un logo od ogni altra indicazione della marca si riproponga attraverso una figura che ritrae un modello, un paesaggio, un qualunque dettaglio “realistico” ecc. (ancorala pubblicità della palestra di fitness, o la “D”, iniziale di un celebre brand dell’abbigliamento, suggerita da un braccio alzato e piegato col gomito in fuori, la mano appoggiata al capo)
10) Eventuali analogie fra testo e immagine, ovvero in che modo il messaggio scritto venga tradotto figurativamente (a livello contenutistico la réclame dell’azienda di malte e a livello formale in “Go!”)
11) Eventuale circolarità delle immagini e/o delle scritte (una variante ipnotica delle frecce: la pubblicità delle scarpe per bambine, oppure l’uso come sfondo al nome del prodotto di qualcosa che suggerisca l’idea d’una profondità vasta, ma da cui non si può uscire, come per esempio l’universo e gli innumerabili mondi che lo popolano col suo ideale della Vendita Suprema, a tutti i pianeti, che si trova in ogni nome di brand adeguatamente “spaziale”: per una volta invento, Unitplanets)
12) Eventuali trait-d’union, ovvero un’immagine che unisce fisicamente due nomi o un nome e un’immagine (per esempio, il cinturino della scarpa di Naomi Campbell che collega un brand al nome della modella; oppure il braccialetto di cuoio al polso dell’attore che unisce la bottiglia di birra al suo logo)
13) Eventuali effetti metamorfici utilizzati soprattutto quando si pubblicizzano prodotti collegati a tabù (per esempio, il cartoon delle simpatiche formiche che si lanciano sulla carta igienica più o meno resistente parla al mondo occidentale in modo indiretto, giocoso e quindi accettabile, delle feci: i cartoon appartengono al mondo dei bambini, che non temono la “cacca”)
14) Eventuali numeri socialmente riconoscibili (“18” nel datario di un orologio: per associazione, “18 carati”)
Riassumendo, tutto quanto suggerisce un collegamento (dal trait-d’union all’analogia, dalla transitività all’associazione, fino ad arrivare all’identificazione vera e propria) costituisce un elemento fondamentale dell’immagine pubblicitaria nella sua essenza religiosa in senso etimologico, ovvero nel tentativo di raccogliere i consumatori intorno al prodotto e a esso fidelizzarli, che lo vogliano o meno. Spia evidente dell’aspetto totalizzante a cui mira la pubblicità è per esempio una macchina per caffè che vede chicchi marroni dappertutto: al posto della pioggia, lanciati in luogo del riso durante un matrimonio, o al collo di una donna elegantissima come se si trattasse di un preziosissimo monile. Per ogni azienda, infine, l’ideale ultimo, l’utopia commerciale somma, sarebbe quella di arrivare a far sì che il suo nome divenisse per il consumatore, un consumatore dimentico nel profondo di ogni aspetto commerciale, un simbolo civile e religioso in senso stretto, come ipotizza con tutta la fantasiosa verità tipica della fantascienza sociale Shozo Numa in Yapou, bétail humain: “Gli abitanti di EHS giocano così col fervore dei sentimenti di questo milione d’animali sapienti […]. Perché se gli stemmi gentilizi raffigurati sugli scudi dei due guerrieri non sono agli occhi degli spettatori che i loghi delle marche Kekkoman e Yanmase, questi rappresentano per gli interessati i simboli del loro paese, le sei virtù di Domina o i tre peli del Buddha (mihotoke). Questi clown grotteschi si impegnano con la più grande serietà in un combattimento mortale in nome dell’amor di patria. Il divario fondato sull’ignoranza fa torcere dalle risa coloro che vedono questi duelli per quello che sono” (trad. mia dall’edizione Dèsordres Laurence Viallet, vol III, 2007, pag. 380). Nella fracassona realtà televisiva, e solo più silenziosamente in quella della rete, la pubblicità è Dio senza alcuna metafora: ogni discussione, qualunque argomento, per quanto fondamentale, alato o tragico (morte, vita, guerra, rivoluzionaria scoperta scientifica), obbedisce come un cagnolino al più banale “tassativo”, ovvero l’emissione – in determinati snodi del talk-show – di trenta secondi che pubblicizzano un caffè, un pennello, della pasta. I soldi per parlare di morte, vita, guerra o stermini vengono da lì: non sarebbe quindi meglio parlare innanzitutto di tale Dio? “Le sue pose e le sue interviste esclusive – cinque mesi dopo l’assassinio di suo figlio – sono interrotte innanzitutto da una pubblicità su tre pagine per Fortovase (Saquinavir) – un trattamento contro l’aids commercializzato dai laboratori Roche – poi da quattro pubblicità a pagina intera, a colori, per diverse compagnie d’assicurazioni o di assicurazioni sulla vita. Fra il trattamento contro l’aids e la prima pubblicità per l’assicurazione sulla vita si trova una nuova foto di Judy tornata in tutta sicurezza sui luoghi del crimine” (P. Sotos, Tick, trad. mia, Creation Books, 1999, pag.179).